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ORTOLEVA

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OSWALD

ALICE OSWALD, MEMORIAL – ARCHINTO, MILANO 2021

Alice Oswald è nata a Reading nel 1966, ha studiato lettere classiche a Oxford, dove ora è Professor of Poetry. Ha pubblicato diverse raccolte di versi e vinto premi prestigiosi, raggiungendo il maggiore successo con Memorial, una rivisitazione in versi dell’Iliade. Proprio questo libro è stato da poco edito da Archinto con testo inglese a fronte, traduzione e cura di Rossella Pretto e Marco Sonzogni, che nella postfazione offrono un ritratto dell’autrice, incontrata a Bristol nel 2019 (“Ha lunghe mani nodose e capelli d’argento… un viso severo, epico nelle sue spigolosità, e occhi scavati e che scavano, di un blu insondabile”). Lo scavo è citato anche nel sottotitolo del libro, Uno scavo dell’Iliade, a indicare quanto profondo sia stato lo scandaglio emotivo con cui la poeta ha riportato alla luce il travaglio di vita e morte dei guerrieri protagonisti del poema omerico. Alice Oswald sottolinea di non aver voluto recuperare, nei suoi versi, la vicenda della guerra di Troia, ma di essersi proposta di renderne l’atmosfera, l’energia infuocata, privandola “delle sue parti narrative, come se si togliesse il tetto a una chiesa per ricordare ciò che si sta venerando”.

Il volume si apre su nove pagine in cui sono elencati, uno sotto l’altro, in stampatello, i nomi dei combattenti caduti, da Protesilao a Ettore, scarna litania di duecentoventotto eroi per lo più sconosciuti o irrilevanti, ma di cui sono poi brevemente raccontate le biografie, a imitazione delle lamentazioni greche modulate dai rapsodi durante le celebrazioni funebri. Un “cimitero orale”, viene definito da Oswald il suo testo, composto parafrasando l’originale omerico.

Ecco dunque questa Spoon River omerica, inaugurata da un commovente cameo: “Primo a morire fu PROTESILAO / uomo risoluto che presto s’avventò nel buio / … Morì nel balzo di chi cerca per primo l’approdo / Lasciò la casa costruita a metà / La moglie corse fuori artigliandosi il viso…”. Numerose altre descrizioni di guerrieri condensano in poche e asciutte righe i tratti salienti di un’intera esistenza votata agli affetti domestici e poi travolta dal turbinio della guerra, per concludersi nel sangue, lontano da casa: “ASSILO figlio di Teutrante / passò la vita nel ridente porto di Arisbe /… Tutti conoscevano quell’uomo paffuto / Seduto sul gradino spalancata la porta / Lui che tanto amava gli amici morì”, “IFIDAMANTE ragazzotto ambizioso / Diciottenne irrequieto / Dalla famiglia fu subissato d’amore /… Povero Ifidamante ora non è altro che ferro / Che dorme sonno ferrigno”, “Torna nella tua città SOCO / Hai padre ricco allevatore di cavalli e casa /… In faccia piume d’uccello / Ti disfano a colpi di becco / Gli occhi ti divorano i tuoi aperti occhi / Che tua madre avrebbe dovuto chiuderti”.

Infine l’eroe per antonomasia: “E anche ETTORE morì come gli altri / … Ettore amava Andromaca ma infine / Il suo viso stornò dalla mente / A lei ritornò cieco / Spossato spento / Solo volendo esser lavato e arso / E che avvolte in soffici stoffe / Le sue ossa tornassero alla terra”.

L’originalità del classicismo di Alice Oswald, in questa rielaborazione dell’Iliade attraverso la strage di tante giovani vite, risiede soprattutto nell’accompagnare le secche note biografiche con similitudini di trasparente lirismo, proprio dello stile omerico. In tale maniera la sofferenza umana (la crudele agonia, il lutto dei familiari, il crollo di ogni speranza nel futuro, il disonore della sconfitta) viene confrontata e assorbita nel dolore di tutti gli esseri viventi, animali e piante, e nello scorrere imperturbabile del tempo cosmico. Il “come” introduttivo a ogni metafora è insieme livellante e consolatorio, e acuisce l’emozione che tutti proviamo di fronte a qualsiasi definitivo epilogo dell’esistenza: “Come quercia colpita dal fulmine / Lancia le braccia in aria e arde”, “Come bimba s’aggrappa / Ai vestiti della madre che ha fretta / Vuole aiuto vuole braccia / Non vuole lasciarla andare”, “ Come famiglie d’uccelli che becchettano al fiume / Centinaia d’aironi e oche e cigni dal collo lungo / Quando un tizzone d’aquila famelico carbone rovente / Giù dal cielo si fionda in ali erompendo”.  E infine: “Come foglie chi può scrivere la storia delle foglie / Il vento ne soffia a terra i fantasmi / E primavera alita nuova foglia nei boschi / Migliaia di nomi migliaia di foglie / Quando li si ricorda si ricordi questo / Corpi morti ne sono il lignaggio / Che conta non più delle foglie”.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 11 agosto 2021

 

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OTTIERI

OTTIERO OTTIERI, POEMETTI – EINAUDI, TORINO 2015

Einaudi ripubblica tre poemetti di Ottiero Ottieri (usciti nell’ 88, nel 91 e nel 93), con un’esauriente prefazione di Valerio Magrelli. Ottieri, nato a Roma nel 1924 da una nobile e ricca famiglia toscana, romanziere di successo, sceneggiatore e figura di spicco dell’editoria, sposò Silvana Mauri, nipote di Valentino Bompiani, da cui ebbe due figli: la scrittrice Maria Pace e Alberto, attuale presidente di IBS e Messaggerie Libri. Breve premessa per inquadrare il milieu intellettuale e sociale in cui si mosse, con tormentata inquietudine, l’autore di questo libro, vissuto tra Roma, Milano, Ivrea, Pozzuoli e la Versilia, con frequenti ed estemporanei soggiorni all’estero. Ideologicamente orientato a sinistra, pativa tuttavia una sua esclusione dal mondo del proletariato proprio a causa della sua elitaria appartenenza all’ ambiente alto-borghese, in qualche modo finendo per vantare narcisisticamente questo suo dualismo culturale e di classe. Tutti e tre i poemetti, composti in cinque anni di ossessivo scavo interiore, con soffocanti tentativi di ancoraggio morale e politico, ruotano esclusivamente e angosciosamente intorno alla sua biografia, con l’esibito desiderio di costruire un personaggio da celebrare e offendere, da straziare con uno scandaglio psicologico di implacabile severità, e da consolare con divertito ma orgoglioso autocompiacimento. Lo stile, che Ottieri stesso definì «scivolosa…prosa rimata» e «funambolismo verbale», è coerentemente narrativo, veloce, colloquiale, con frequenti inserti di locuzioni quotidiane e termini volgari, quasi logorroico e sempre autoreferenziale, talvolta ironicamente allusivo alla più collaudata tradizione letteraria.
La prima raccolta, Vi amo, consta di nove composizioni dedicate a vari amori: i figli («io vi amo non voluti figli…Terribili pubblici ministeri / voi siete…»); antiche amanti suicide; le spiagge tropicali; diversi personaggi principeschi; la passione per i cocktails e la vita mondana; la sua Milano odiosamata («città senza cielo / terrore d’ansia e di suoni»), con la seducente attrattiva dell’elegantissima Via Spiga.
Nella seconda sezione, L’infermiera di Pisa, Ottieri si confronta, servendosi di una spiazzante e vivace leggerezza, con il tema sofferto dei frequenti ricoveri in cliniche psichiatriche, dopo anni di sedute junghiane a Milano e a Zurigo, per cercare di vincere il suo male oscuro, non provocato solo da depressione e bipolarismo, ma soprattutto dalla dipendenza dal sesso e dall’alcol, e da un costante sentimento di inadeguatezza («Tra nevrosi e psicosi, / analisi e benzodiazepine, trascorsero decenni»; «Mantiene psichiatri, psicoanalisti, / psicologi, assistenti sociali, / infermieri, tassisti e baristi»). Preso da una senile e incontenibile passione erotica per un’infermiera pisana, il poeta sbeffeggia se stesso e il suo «sessuale delirio» («Voglio con atletico cazzo / penetrare una stupida fica»), duellando testardamente contro le imposizioni mediche dei luminari della casa di cura, che sfotte sarcasticamente chiamandoli per nome (Cassano, Perugi, Mignani….), convinto che l’unica sua possibile salvezza risieda nelle cure amorose della bella toscana in camice blu.
Il terzo e più esteso poemetto, Il palazzo e il pazzo, torna sui temi assillanti delle precedenti raccolte: il sesso («Il mio dongiovannismo sordido / e tremebondo») e la psicanalisi («Nella mania e nella malinconia / io sono implacabile»). Ma a queste ossessioni se ne affiancano insistentemente altre: l’alcol («Bevvi / dodici bottiglie di rosso di seguito; io non concepisco / le realtà senza birra») e la passione politica («Ho sempre sostenuto che la classe operaia / non deve fidarsi / degli intellettuali»). Prendendo a pretesto un solitario rientro nel palazzo di famiglia a Belverde, nel senese, motivato dalla decisione dei suoi figli di vendere la proprietà, Ottieri, allergico a qualsiasi aspetto pratico-amministrativo dell’esistenza, si misura con il presente e il passato suo personale e dell’ambiente che lo circonda. I «cari luoghi» della sua adolescenza gli appaiono dopo anni oltraggiati dal capitalismo nella natura, nel paesaggio e nel carattere degli abitanti, da cui il poeta si sente estraniato e osservato con sospetto e rancore («tutto il paese mi considera / un verme»). A chi scrive non resta ormai nessuna fede, né in Marx («L’orrido mito marxiano non termina / che con il termine della povertà mondiale. / Allora la televisione potrà tutto; Insomma, che fa / un ex comunista?»), né in Freud («Mentre si cercano / le terapie brevi, le si fanno / interminabili»). Rimane soltanto un’adesione sofferta a una corporeità vissuta come condanna, e la devozione a un IO «scorticato vivo», che spadroneggia imperioso e fragilissimo: unica verità cui ancorarsi. «Sono un uomo senza fantasia,  / autobiografico perso».

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Poemetti-Ottiero-Ottieri.html;     19 settembre 2015

 

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OTTIERI

OTTIERO OTTIERI, DONNARUMMA ALL’ASSALTO – GARZANTI, MILANO 2014

L’interesse di Ottiero Ottieri (Roma 1924-Milano 2002) per la psicanalisi si coniugava con quello per la sociologia, ed entrambi animarono la sua produzione letteraria a partire dagli anni ’50, anni di vivace sviluppo industriale e di apertura verso nuovi modelli interpretativi dei comportamenti individuali all’interno della collettività. Assunto all’Olivetti nel 1953, in un ambiente professionale sensibile al contributo intellettuale di altri nomi di rilievo del mondo della cultura italiana (Geno Pampaloni, Paolo Volponi, Giovanni Giudici, Franco Fortini), venne poi inviato a Pozzuoli per seguire la creazione di un nuovo e avveniristico stabilimento, con l’incarico di selezionare il personale. Durante il periodo trascorso al Sud approfondì le tematiche relative al mondo del lavoro, all’alienazione operaia, allo sfruttamento capitalistico. Ne trassero linfa creativa due romanzi che diedero avvio al filone della cosiddetta “letteratura industriale”: Tempi stretti (1957) e Donnarumma all’assalto (1959), quest’ultimo pubblicato da Bompiani, dopo un rifiuto dell’Einaudi, determinato dal giudizio negativo di Calvino.

Riproposto da Garzanti in varie edizioni a partire dal 1990, il romanzo rimane il più celebre e celebrato tra i molti usciti dalla penna dell’autore, non solo per le problematiche relative al contrasto tra il progresso tecnico ed economico del nord e l’arretratezza culturale del meridione, ma anche per lo stile spaziante tra il resoconto cronachistico, l’introspezione psicologica e la critica politico-ideologica.

Scritto in forma autobiografica, narra l’esperienza di uno psicologo delegato da una grande azienda settentrionale a scegliere il personale da assumere in una nuova filiale impiantata in Campania, vagliando quarantamila domande presentate da aspiranti diversissimi: contadini analfabeti, infermieri, attori di varietà, donne di fatica, “pescatori, baristi, bagnini, custodi dei Riformatori”: tutti motivati dal miraggio di ottenere un’occupazione stabile e remunerata. Scisso tra il dovere di ottemperare alle esigenze dell’industria per cui lavora e la crudele realtà di un modello imprenditoriale indifferente ai destini individuali delle maestranze, oscillante ideologicamente ed emotivamente tra pietas e irritazione di fronte all’eterogeneità delle situazioni esaminate, il protagonista redige un diario della sua tormentosa vicenda professionale, che iniziata un lunedì di marzo, si protrae fino ad autunno inoltrato. “Sono entrato per la prima volta, all’improvviso, nel laboratorio psicotecnico. C’erano i candidati, seduti ai banchi, e hanno alzato il capo dai fogli dei test per osservarmi”. La scelta degli uomini e delle donne da impiegare è condizionata da rigide regole imposte dall’azienda, e lascia poco spazio di intervento al selezionatore: di ogni candidato si valutano le attitudini mentali e fisiche, senza tener conto delle sue condizioni economiche e familiari. Sottoposti a prove scritte e di coordinazione manuale, gli esaminandi sono in difficoltà nei colloqui e nei test verbali, a disagio con l’italiano ufficiale che risulta loro estraneo. “Mi scusate, dottore. Ma voi siete il pizzicologo? Dicono che quando vi avvicinate voi, capite se uno è intelligente o scemo”. Tentano ogni strada per ottenere il posto, dalla raccomandazione alla corruzione, dalle minacce alla supplica, dall’ossequio alla rivolta: “Io sono alfabeta, lì dentro c’è scritto. Io sono alfabeta con sette figli, ma mi piace di faticare, devo mangiare. Io vi servo più di tutti gli altri”. Il funzionario riflette su se stesso e sulla sua mansione, teso tra solidarietà e rabbia, compassione e sospetto: “Non è facile avere tutta la coscienza tranquilla”, riflette assolvendosi, consapevole di dover decidere tra le reali abilità e “una graduatoria del bisogno”.

Lo stabilimento diventa insieme moloch e totem, a cui sacrificare la propria esistenza e individualità, la coscienza e il rispetto di sé, in omaggio alle esigenze capitalistiche della produzione: “Sulla collina sopra il paese, esce, sorge la fabbrica: come un castello orizzontale di vetro, fluorescente di luci fredde. C’è il neon dietro i vetri. Gli abitanti della costa, i pescatori possono vederla così irraggiungibile da ogni punto del golfo”. Visitato quotidianamente nei vari reparti da “turisti stranieri, giornalisti, ministri, sociologi e architetti” (anche un disincantato e idolatrato Eduardo Dee Filippo rende omaggio al personale e alle macchine), diventa il fiore all’occhiello della lungimirante generosità dell’imprenditoria settentrionale nei riguardi del Sud. Che tuttavia nei suoi abitanti e nelle istituzioni rimane recalcitrante, sospettoso, e sostanzialmente inadeguato alle aspettative padronali. “Questo stabilimento è venuto a sollevare le nostre miserie. È anche un’opera di misericordia”, afferma un prete nel corso di una cerimonia, sorvolando sui turni massacranti, sull’alienazione prodotta dai movimenti ripetitivi, sull’assenza di rapporti interpersonali.

I candidati si chiamano Accettura, Bonocore, Santoro, Rubino, Bellomo, Papaleo, Straniero, e appunto Donnarumma.  Antonio Donnarumma fa la sua comparsa esattamente a metà romanzo, prototipo del disoccupato meridionale degli anni ’60, privo di qualifiche ma convinto del suo diritto naturale al lavoro: rifiuta le trafile burocratiche e il rispetto delle regole, contesta le gerarchie, diffida della carta stampata, è pronto a provocare con la violenza chi gli nega attenzione e ascolto: “Io debbo lavorare, io voglio faticare, io non debbo fare nessuna domanda. Qui si viene per faticare, non per scrivere”. Anche fisicamente risponde a uno scontato cliché: “Aveva il petto quadrato in un maglione, i capelli grigi a spazzola, gli occhi duri… con la faccia atona e regolare sotto la fronte bassa”.

L’indagine sociologica dello scrittore-psicologo Ottieri ammette tutti i propri pregiudizi nei confronti dell’oscurantismo dei meridionali, ritenuti pigri, immaginosi, disorganizzati, sensuali, svogliati, scialacquatori, superstiziosi, intellettualmente sterili: “tutti i luoghi comuni intorno al mezzogiorno mi tornano a galla, veri”. Ma l’industrializzazione forzata è considerata l’unica possibilità di sviluppo e salvezza, contro il male atavico della disoccupazione, della miseria, dell’ignoranza: “In fabbrica miglioriamo, loro e noi. Ci comprendiamo e ci assomigliamo, uniti dalla stessa produzione, cioè dalla stessa sorte. Quando si sta in officina ognuno al proprio posto, si smorzano i loro fuochi pirotecnici e le nostre sciocche, fredde presunzioni si riscaldano. Lo stabilimento fa gli uomini uguali, asciuga gli umori, riduce i vizi del carattere”. Quando le assunzioni vengono infine completate e il selezionatore, esaurito il suo compito, può tornare al nord, rimane l’inquietudine degli esclusi dal reclutamento e dal progresso, una rabbia feroce che si esprime in piccoli sabotaggi e infantili attentati, minacce verbali, telefonate anonime e persino tentati suicidi.

Giuseppe Montesano, nella sua analitica ed appassionata prefazione al volume garzantiano, afferma che “c’è qualcosa di oscuro, in Donnarumma all’assalto, una sorta di sordo brontolio minaccioso che non esplode mai in tempesta”, ed è il contrasto insanabile tra l’irosa sfiducia dei disoccupati che aspirano a un posto di lavoro e “il funzionario che ha fede nella fabbrica-modello, nella razionalità di un nuovo umanesimo e nell’efficacia della psicologia industriale”. Nord contro Sud, specializzazione contro dequalificazione, città contro campagna, progresso contro arretratezza. “Lo psicologo sa che il suo lavoro è «immorale» perché è una difesa contro il dolore altrui, e perché dove la Storia ha piegato gli uomini non può esserci neutralità”, scrive ancora Montesano. Tale dilemma, se dopo settant’anni non riguarda più il nostro meridione, rimane invece pressante nel baratro che divide l’Occidente iper-sviluppato e le zone del mondo tuttora deformate dalla povertà e dalla sofferenza. L’utopia di un progresso giusto ed egualitario grazie alla crescita tecnologica e finanziaria, continua a sopravvivere solo nel limbo dell’irrealtà.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 3 agosto 2021

 

 

 

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OTTO MARZO E MIMOSE

OTTO MARZO E MIMOSE

Vengo da una famiglia di donne, ho frequentato solo classi femminili, sono madre di due bambine, e questo ha senz’altro determinato una mia sostanziale estraneità al misterioso universo della mentalità maschile. Nutro il dubbio di aver addirittura scelto mio marito come compagno di vita perché mi è parso subito lontanissimo dallo stereotipo della virilità comunemente intesa. Ho vissuto il femminismo con la naturalezza un po’ sventata di chi si trova a lottare per idee che considero ovvie, per conquiste che ritiene scontate.

Solo ora, da questo privilegiato osservatorio dell’emigrazione svizzera, e davanti all’amara constatazione di una sostanziale débâcle dell’utopia dell’uguaglianza, mi accorgo che tali idee e conquiste ovvie e scontate non sono. Ricordo altri 8 marzo della mia vita: caroselli di ragazze infiorate, con zoccoli neri e gonne coloratissime, che si scioglievano per intrecciarsi di nuovo (ridenti, irridenti) in Piazza del Duomo a Milano, cantando slogan più sfrontati che minacciosi («Tremate, tremate, le streghe son tornate…»). Oppure il mio primo 8 marzo da mamma, a Roma, con una stupenda e canuta ultrasettantenne che copriva di mimose la carrozzina della mia bimba. Quell’allegria di essere donna (orgoglio della propria femminilità, sensazione di sorellanza complice con le altre) io non sono più riuscita a ritrovarmela intorno (o dentro?) qui in Svizzera. Colpa del rigido sessismo, della evidente discriminazione legislativa vigente nel paese che ci ospita? Colpa dell’ambiente emigratorio, ancorato a concetti retrivi quando non francamente ottusi e persecutori, per cui il ritornello dei miei nonni veneti «che la piasa, che la tasa, che la staga in casa» è tuttora il più calzante sulla piazza e nelle mura domestiche? Da una Milano provocatoriamente “rosa” mi sono trovata catapultata in una grigia Zurigo-little Italy. In cui la domanda più insistente nelle presentazioni continua a essere «Signora o signorina?», l’augurio più esaltante ai matrimoni «Figli maschi!», il commento più acuto di fronte a una violenza subìta «Se l’è cercata…»; un mondo in cui l’arma di offesa più utilizzata è la battuta volgare o la telefonata/lettera anonima, in cui il pettegolezzo, l’invidia, la maldicenza trovano nella donna (soprattutto se non perfettamente “allineata” alle aspettative ed esigenze comuni) il capro espiatorio preferito.

Festeggiamo l’8 marzo? Festeggiamo l’8 marzo! Non brinderò, tuttavia, al compagno aperto e femminista che però non c’è una volta che se li lavi lui, i calzini; né alla donna emancipata, manager in carriera che sfida il maschio usando i suoi metodi peggiori, i suoi colpi più bassi; né al gene XX in quanto tale, capacissimo di farsi più male di quanto gliene abbia mai inflitto il gene XY. Brinderò alle bambine, a tutte le bambine, da quelle in gestazione alle adolescenti, augurando loro di non dover pagare qualsiasi atteggiamento anticonformista quanto continuano a pagarlo le loro mamme, di non doversi sentire in colpa se aspirano ad esercitare la loro intelligenza autonomamente, di non doversi scusare se nutrono qualche ambizione che non sia puramente casalinga… Brinderò in particolare alle mie figlie, che nel 2000 avranno quindici e ventun anni, e l’8 marzo dell’anno scorso mi hanno regalato una rosa dell’ EPA che suonava «Tanti auguri a te» se le si premeva un petalo. Per loro due, streghine dolcissime, tornerò a cercare mimose, intonerò canzoni passate di moda, come quella spavalda e innocente «sebben che siamo donne, paura non abbiamo…».

 

«Agorà» (Svizzera), 8 marzo 1989

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OZ

AMOS OZ, IL RE DI NORVEGLIA – ZOOM FELTRINELLI, MILANO 2012

Tra i racconti di Amoz Oz (romanziere e saggista israeliano, nato a Gerusalemme nel 1939, influente intellettuale dalle posizioni politicamente conciliatorie e social-democratiche), questo Il re di Norvegia è uno tra i più felici, per acume psicologico, levità descrittiva e delicata ironia. Si sorride, leggendolo, non si ride: e anzi ci si sente coinvolti in un sentimento di solidale e comprensiva simpatia umana per l’evidente inadeguatezza del protagonista nel rapportarsi con il prossimo.

Zvi Provizor, scapolo cinquantacinquenne, fa il giardiniere nel kibbutz Yekhat, e ama in maniera incondizionata il suo lavoro, a cui dedica ogni attenzione, cura e pensiero. “Si alzava ogni mattina alle cinque, spostava gli innaffiatoi, rastrellava la terra nelle aiuole di fiori, piantava e potava e bagnava, tagliava l’erba con quella macchina rumorosa, spruzzava i disinfestanti chimici, spargeva e interrava letame e fertilizzante”. Emotivamente sensibile e introverso, si rivela particolarmente propenso e interessato a qualsiasi avvenimento tragico accada nel mondo, andando a scovare nei quotidiani e nelle cronache radiotelevisive proprio le notizie più drammatiche, scandalose e catastrofiche che vengono riportate, per poi riferirle a chiunque incontri sul lavoro o al bar: “terremoti, aerei precipitati, crolli di edifici con vittime, incendi e alluvioni”. Raccoglie necrologi e immagazzina nella memoria i lutti di tutto il kibbutz, creandosi così una fama funerea di menagramo tra i colleghi, che tendono a isolarlo anche a mensa, e ne commentano sarcasticamente la riservatezza e la sessuofobia. Inaspettatamente però, Zvi Provizor incontra una vedova, Luna Blank, insegnante dall’indole artistica e romantica, e stabilisce con lei un rapporto di reciproca e casta amicizia, fatta di scarse confidenze e molti sospiri. “Lui si sedeva sulla destra della panchina di sinistra, in fondo al prato, e lei non lontano, sulla sinistra della panchina di destra. Lui le parlava e strizzava gli occhi, lei stropicciava il fazzoletto fra le dita”. Quando tuttavia Luna azzarda un approccio fisico appena più confidenziale, il mesto giardiniere si ritira spaventato, e alla donna delusa non resta che lasciare il kibbutz, rifugiandosi all’estero. Zvi Provizor, quasi sollevato dalla partenza di lei, torna alla sua monotona esistenza, tra fiori e piante grasse, immergendosi con sempre più angosciata e morbosa curiosità nella cronaca nera dei notiziari e dei giornali: per lui la notizia della morte del re di Norvegia, da tempo malato di tumore, rimane il massimo della sofferenza sopportabile con cui confrontarsi.

Amos Oz osserva, racconta, scuote la testa, sorride.

 

© Riproduzione riservata    

https://www.sololibri.net/Il-re-di-Norvegia-Oz.html           15 ottobre 2018

 

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OZ

AMOS OZ, RESTA ANCORA TANTO DA DIRE – FELTRINELLI, MILANO 2023

Amos Oz (Gerusalemme 1939Tel Aviv 2018), tra i più noti  scrittori e saggisti d’Israele, poco prima di morire tenne una conferenza all’università di Tel Aviv, il cui testo è stato pubblicato da Feltrinelli con il titolo Resta ancora tanto da dire. È interessante rileggere questo documento, che mantiene pregi e difetti di ogni comunicazione orale trascritta per la lettura (vivacità, arguzia, improvvisazione, ma anche disorganicità e gusto provocatorio), nei giorni terribili che il mondo sta vivendo a causa della guerra in corso.

Prima di addentrarci nella disamina del pamphlet in questione, è forse opportuno ricordare qual è stata la vicenda biografica di Amos Oz. A partire dal suo vero cognome, Klausner, ripudiato per l’insanabile contrasto che lo contrappose al padre, sionista di destra, dopo il suicidio della madre avvenuto quando lui aveva solo dodici anni, con la conseguente decisione di lasciare la casa di famiglia e di entrare nel kibbutz di Hulda. “Oz” in ebraico significa “forza”, e il ragazzo Amos ne ebbe molta, riuscendo a conciliare i lavori agricoli nei campi sia con gli studi, conclusisi con la laurea a Gerusalemme e poi con la specializzazione a Oxford, sia con la scrittura, praticata assiduamente dai ventidue anni in poi. Sposo di Nilli e padre di due figli, docente di letteratura alla Università Ben Gurion del Negev, aveva prestato servizio di leva nelle forze di difesa israeliane sia nella guerra dei sei giorni sia durante la guerra del Kippur.

Le sue posizioni sono sempre state conciliatorie nella sfera politica e social-democratiche nella sfera socio-economica. Tra i primi intellettuali israeliani a sostenere la soluzione dei due Stati, aveva dichiarato in un articolo del 1967 sul giornale laburista Davar: “Anche un’occupazione inevitabile è un’occupazione ingiusta”. Nel 1978 fu uno dei fondatori di Peace Now. opponendosi all’attività colonizzatrice sin dall’inizio e sostenendo gli Accordi di Oslo e le trattative con l’OLP, con simpatie per le posizioni laburiste di Shimon Peres. Se nel luglio 2006 Oz aveva appoggiato l’esercito israeliano durante la guerra con il Libano, più recentemente in una conferenza comune con Grossman e Yehoshua dichiarò invece che Israele aveva esaurito il suo diritto all’auto-difesa.

Autore di romanzi di successo che indagano soprattutto le relazioni di coppia o generazionali (l’autobiografico Una storia di amore e di tenebra, Michael mio, Un giusto riposo), si è occupato della situazione politica del suo paese in molti interventi sulla stampa internazionale e nei due saggi In terra di Israele (1983) e Contro il fanatismo (2004), quest’ultimo stampato, distribuito e tradotto in varie lingue a sue spese per favorirne una diffusione capillare. I concetti fondamentali di Contro il fanatismo (secondo cui il conflitto israelo-palestinese non è una guerra di religione o di culture, ma piuttosto una controversia possessoria da risolvere con un compromesso) sono stati ripresi appunto nella conferenza del 2018, e si riducono principalmente a tre.

Lontano in ugual misura da ogni fanatico estremismo come da un pacifismo imbelle, Oz non ritiene che il male assoluto sia la violenza, bensì l’aggressività e la sopraffazione, che vanno decisamente fermate con la forza. Hitler non è stato sconfitto da una colomba con il rametto d’ulivo nel becco, ma dalla forza militare. Tuttavia non è con l’esercito che si può curare una ferita, e la ferita putrescente aperta da un secolo tra Israele e Palestina va sanata, non con “il bastone” dell’oppressione, della deterrenza, dell’esibizione muscolare, ma attraverso l’uso di una lingua di cura, una base di colloquio comune, nella comprensione e accettazione dei reciproci diritti ad esistere.

In secondo luogo, è necessaria, ineludibile, la creazione di due stati: “Se non ci saranno qui, e piuttosto presto, due stati, allora ce ne sarà uno solo. E se dovesse sorgere qui un solo stato, non sarebbe uno stato binazionale. Sarebbe, prima o poi, uno stato arabo dal Mediterraneo al Giordano”, con gli ebrei ridotti a una minoranza senza rilevanza politica, così come è successo ai cristiani in tutto il Medioriente. Non esiste la possibilità di un unico stato multietnico prospero e pacifico, eccezione realizzata nel mondo solo dalla Svizzera. Tutti gli altri stati multietnici che hanno tentato la strada della bi-nazionalità sono incorsi in rovinosi fallimenti, e solamente la Cecoslovacchia è riuscita a creare due repubbliche separate senza spargimento di sangue.

Oz come terzo punto della sua lezione affronta la questione del sionismo, contestando l’idea che il rientro in Israele degli ebrei dispersi dalla diaspora sia stato determinato da un malinteso sentimento nostalgico di “ritornismo” o dalla ricerca di una spiritualità originaria. In realtà, era stata la consapevolezza (avvertita anche dai suoi nonni ucraini) di non avere un “altrove” in cui essere accolti, a spingerli a stabilirsi nella “Terra dei Padri”, pur sapendo che non avrebbero potuto trovare nello spazio qualcosa che si era perduto nel tempo. Non avrebbero lasciato l’Europa “se non fosse stato per la sofferenza, le persecuzioni e la scoperta che non c’era alternativa se non la reclusione nel ghetto o la totale assimilazione. Tutto ciò non deriva dal desiderio di ritorno. Non deriva soltanto né principalmente da ‘l’anno prossimo a Gerusalemme’. La verità è che non c’era altro luogo dove andare”.

Dopo essersi soffermato, con profonda tristezza, sull’odio secolare che gli ebrei hanno catalizzato su di sé in ogni epoca e luogo, Amos Oz conclude tuttavia il suo saggio con una nota di speranza non illusoria: “Nulla è irreversibile”, si può sempre cambiare. Mentalmente, caratterialmente, culturalmente, politicamente. Una diversa leadership in Israele e in Palestina potrebbe finalmente indicare la strada di un accordo: “Su, dai, facciamolo. Sarà difficile, complicato, doloroso, ma facciamolo e chiudiamo la faccenda una volta per tutte”.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 28 ottobre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

OZICK

CINTHIA OZICK, LO SCIALLE – FELTRINELLI, MILANO 2003

Una voce importante dell’America letteraria, quella di Cinthia Ozick (autrice poco conosciuta da noi, quanto invece letta, discussa ed esaltata negli USA) ha scritto che «i racconti dovrebbero giudicare e interpretare il mondo…la letteratura dovrebbe redimere, interpretare e decodificare il mondo, essere creata a forza per il bene dell’umanità».

Decisamente fuori moda, questo richiamo all’eticità dello scrivere esprime l’attenzione partecipe ai sentimenti più fragili delle persone comuni, la scelta non occasionale di protagonisti quotidiani in qualche modo “banali”. Ma con un senso forte della storia, e un rispetto profondo – quasi religioso – del mistero inspiegabile che sta all’origine della vita e di ogni morte. E soprattutto con una moralità sofferta, non beghina, attraverso cui il destino degli uomini, singolarmente e nella loro collettività, viene «interpretato e giudicato».
Nei due racconti che Feltrinelli ha pubblicato sotto il titolo Lo scialle (Feltrinelli, 2003), è l’olocausto l’evento che la Ozick assume come sfondo, alibi e ragione ultima del suo narrare. Un evento da lei non vissuto in prima persona (è nata nel Bronx nel 1928 da una agiata famiglia di ebrei russi emigrati), ma reinventato e raccontato senza l’inevitabile autocommiserazione del “c’ero anch’io”, e invece con l’indignato furore di chi non vuole tacere.
Nel primo, brevissimo racconto, adamantino nella sua tagliente asciuttezza, una giovane donna ebrea nasconde in uno scialle la sua bambina per alcuni mesi, sia durante l’estenuante marcia verso il lager, sia nel lager stesso. La bambina è bionda, ha gli occhi azzurri, lineamenti poco ebraici: frutto di uno stupro subito dalla madre da parte di un nazista. Scheletrica, gli arti ridotti a stecchi, succhia le mammelle secche della mamma: ha imparato a stare zitta, a nascondersi, a nutrirsi non solo metaforicamente dello scialle materno, che continuamente intride di saliva. La cugina Stella, infreddolita e gelosa, glielo sottrae. La bambina esce allora dalla baracca per cercarlo, urla di disperazione per la prima volta da quando è nata, «ondeggiando sulle gambette a matita» nel mezzo del campo. Un nazista la vede, la afferra e la schianta a morire fulminata sul filo spinato che circonda il lager. Raramente un’immagine è riuscita a rappresentare in così brevi spezzoni narrativi l’atrocità, la bestialità dell’olocausto. Emblema della gratuità del male, la bambina Magda schizzata contro il reticolato, e la madre, testimone ammutolita della sua fine, rimangono impresse come poche altre figure nella mente del lettore.
Così come non facilmente dimenticabile è la vicenda della stessa Rosa, protagonista del secondo, più lungo racconto. Scampate al campo di concentramento, Rosa e la nipote Stella si rifugiano in America, rimanendo però estranee e indifferenti alla cultura superficiale e vincente degli USA. Rosa apre un negozietto di anticaglie e roba usata nella speranza di poter comunicare ai clienti del Nuovo Mondo (il suo nuovo mondo) la sua terribile esperienza di scampata. Ma l’America è un altro continente, la gente non è interessata alla tragedia che ha sconvolto l’Europa. Dopo trent’anni di questa non-vita, Rosa sfascia il suo negozio, abbandona Brooklyn e si ritira coerentemente a non-vivere in una squallida casa per anziani in Florida. Prova ad agire come tutti: vecchie illuse di fermare il tempo con il fondotinta, vecchi ringalluzziti da un incontro. Accetta anche la corte discreta di un ebreo più anziano di lei, frequenta con lui una tea-room, lo invita nella sua stanza. Ma realtà e immaginazione, memoria e rimozione si confondono, Rosa è preda di allucinazioni sempre più frequenti, scrive lunghe e appassionate lettere in polacco alla figlia morta ma che finge viva ed affermata professionista in uno degli States. Si aggrappa a un feticcio, lo scialle che Magda bambina succhiava nel lager, per sopravvivere al guado della non esistenza cui è costretta, da quando i nazisti («i ladri») le hanno negato anche la semplice possibilità di dimenticare, inchiodandola per sempre a una memoria insidiosa, feroce. «- Senza una vita – rispose Rosa – si vive dove si può. Se tutto quello che si ha sono i pensieri, è lì che si vive -. – Lei non ce l’ha una vita?-  – I ladri me l’hanno portata via -».

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Lo-scialle-Cinthia-Ozick.html;    30 novembre 2015

 

 

RECENSIONI

PAGNANELLI

REMO PAGNANELLI, QUASI UN CONSUNTIVO – DONZELLI, ROMA 2017

Remo Pagnanelli, poeta e critico letterario, nacque il 6 maggio 1955 a Macerata, dove morì suicida il 22 novembre 1987, trentaduenne. Fondatore nel 1980 della rivista «Verso», esordì l’anno successivo come poeta con la plaquette Dopo, cui fecero seguito Musica da Viaggio, Atelier d’inverno e il poemetto L’orto botanico, per il quale ottenne il premio internazionale “Montale 1985”. Vennero pubblicati postumi l’ultima raccolta di versi Preparativi per la villeggiatura ed Epigrammi dell’inconsistenza. Tra i suoi scritti critici, due studi su Vittorio Sereni e su Franco Fortini. Nel 2000 Daniela Marcheschi curò per “Il lavoro editoriale” l’antologia Le poesie, e oggi la stessa Marcheschi ripropone per Donzelli una ricca scelta di versi di Pagnanelli tesa a indicare al lettore la compattezza tematica, la profondità meditativa e gli sviluppi della ricerca formale della sua scrittura, mettendo in luce come il giovane intellettuale marchigiano abbia vissuto la cultura “con uno slancio di integrale umanità, con una serietà di studi e generosità rare, [facendo] della poesia il crogiuolo della sua esistenza e dell’intera sua esperienza di uomo”.

Pagnanelli lesse con attenzione critica la maggior parte dei poeti italiani contemporanei, ricavandone insegnamenti estetici e morali, convinto com’era che la letteratura fosse necessariamente maestra di vita e occasione di crescita interiore: ad essa demandava soprattutto la riflessione sulle domande fondamentali dell’esserci, interrogandosi laicamente sul destino dell’uomo e sulla morte, sull’inconsistenza del reale e sull’imprevedibilità del caso, sul rapporto con la propria corporeità e sull’amore. Leggere oggi le sue poesie, così eticamente severe e crudelmente interrogative, alla luce della sua scelta finale è ovviamente pretestuoso e sbagliato: eppure la delusione per la banalità del quotidiano, per la sordità dei più verso la bellezza della natura e dell’arte, per la decadenza corrotta della politica per cui aveva nutrito ingenue aspettative, fece presto di lui e della sua lotta contro la banalità un combattente spuntato, sfinito. «L’hidalgo è stanco», scriveva in una delle ultime composizioni. Che possiamo commentare forse proprio partendo da quella che conclude il volume in questione, dal titolo umilmente dichiarato (Quasi un consuntivo): «La luce più vasta è il buio, / questo già lo sapevamo, / non la più penetrante però…, / come la luna ch’è un faretto, / sul palcoscenico all’aperto. / Centra e si sposta ovunque, / al contrario non si muove / ma è dappertutto la medesima. / Detto tutto».

La luce, il faro a cui guardare perché illumini la nostra strada, aldilà di ogni illusoria e semplicistica fede, è un richiamo costante in questi versi: «quella luce non la potrai raccontare / non c’è uomo o donna assiepati ad ascoltarla / dato che estremamente muore e dice addio…», «mi godo questa Luce ultima / della fine senza fine. // Profonda / quanto più nel ritrarsi / pare scalfire. / Che non possiede, / che spossessa le cose e te, / riducendo all’osso e al bianco. // Quant’altra sotto ne dorme / che la pioggia non offusca».

Consapevole della sua estraneità nei riguardi dell’esistenza comune («Mia ombra mio doppio, / talvolta amico ma più spesso / straniero che mi infuria ostinato, / mio calco che nessuna malta riempie…»), Remo Pagnanelli  sapeva di non poter contare su alcuna «divinità felpata» protettrice o consolatrice («Riprova Zaccheo, risali sul sicomoro / per vedere il Signore se mai passi»), e allora tentava di appellarsi alle persone intorno: amici, parenti, donne da amare, già certo di non poterne ottenere ascolto o aiuto: «Che altro di strabiliante chiedevo per me, / da lasciarvi tutti così sorpresi e non piacevolmente, / niente che già non si sapesse e di cui fosse / taciuto e da tanto», « ‒  starò, è certo, fra amici ma non / volevo dire questo, domandavo / ben altro». Eppure, superando ogni delusione, ogni ostica resistenza esterna, da poeta dell’interiorità qual era, riusciva a comunicare nella sua scrittura la splendida gratuità di ogni apparizione naturale, della luna come della vegetazione più minuta, delle sfumature umbratili del paesaggio, delle movenze leggiadre di «strane fanciulle», dell’attesa delle festività, del ricordo di gioie infantili: insomma qualsiasi «beltà ornata e beltà disadorna», erede in questo del luminoso esempio dell’amato Leopardi. «In questa fase dell’anno tutto sanguina. / Il fiume sfinendosi non s’inazzurra più, / lo percorre un alito di schegge cenere / che espelle gli ori del tramonto. // pare impossibile, ma dalla magrezza /degli olivi tremanti, dalla magrezza / arida e esangue, fluisce non so che / polline o sudore».

In uno stile tutto suo, classico senza essere tradizionalista, limpido e consueto nel lessico, indifferente a metrica, rime e artifici sintattici, rivelando talvolta qualche eco montaliana (ad esempio nel bellissimo trittico I lari), ma fatta propria e riassimilata con originalità, Pagnanelli si affidava a un ritmo modulato dal pensiero, perché era proprio la riflessione filosofica a costituire l’ossatura del suo poetare, condizionandolo, sorvegliandone le soluzioni stilistiche, con coerenza stringente. Testamentaria e tombale, indice del «rigore insanguinato» di cui si sapeva orgogliosamente vittima, ci appare una sua austera e razionale definizione della morte, che potrebbe essere assunta ad esergo dell’intero volume: «La morte sta nell’eliminazione di ogni suono e residuo linguistico. Di conseguenza non sarebbero praticabili incontro con ombre, dèi, fate, cioè alcuna consolazione da scribi. Attraverso questa porta senza referenti si può dimenticare e essere dimenticati, non possedere né essere posseduti. Addio storia, addio natura». Non dimentichiamolo, questo giovane favoloso e inflessibile. Continuiamo a leggerlo, a capirlo.

© Riproduzione riservata      «Il Pickwick», 13 gennaio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PALERMO

ANTONELLA PALERMO, IL GIUNCO E LA STATUA – VYDIA, MONTECASSIANO (MC) 2024

 

Antonella Palermo, giornalista di origini molisane, vive e lavora a Roma, occupandosi di informazione culturale e attualità internazionale. La sua terza pubblicazione in versi, Il giunco e la statua, edita da Vydia, è introdotta da un’intensa, empatica e sapiente prefazione di Elena Santagata, che ne mette in luce non solo lo stile controllato e piano, fedele a “modulazioni anti-sperimentali”, ma anche l’equilibrato rapporto tra ambientazioni esterne e risonanze interiori, quale si evince dai contenuti della sua scrittura poetica.

Quindi ci imbattiamo in oggetti e persone che affollano le stanze o altrimenti le disertano, creando sospensioni, inquietudini e trasalimenti emotivi. Presenze e assenze, entrambe osservate analiticamente, descritte con attenzione partecipe, e vissute con il pathos di un’acuta sensibilità. La conclusione delle singole composizioni, ridotta a pochi o addirittura a un solo verso, esprime spesso una valenza gnomica e imperativa, rivolta più alla stessa autrice che ai lettori, quasi fosse motivata da un’ansia esplorativa che richiede di essere controllata razionalmente.

La raccolta, dedicata al padre morto dopo una sofferta malattia, si scandisce in tre capitoli.

Il primo è emblematicamente intitolato   Il tavolo al centro, a indicare l’elemento dominante di un cenobio familiare non sempre affettuoso: “Ci si sbranava per minuzie // qui ora si gioca al minimo, / le voci attutite, / sentire il vuoto sotto / anche se poggiamo i piedi”. Letti, sedie, divani, mensole, valigie: l’abituale arredamento domestico “si specchia / in un cuore imploso / e smemorato”. L’interno, con l’odore di cavolo bollito, il torsolo di mela ossidato, la polvere che si accumula sui mobili, l’assedio di mosche e formiche, riacutizza un cocente senso di disillusione per le “antiche sicurezze” crollate. Ma anche il fuori, visualizzato in vetrine spoglie, mendicanti, campanelli di ottone sulle porte, suscita una gelida vertigine, derivante dal rapporto tormentoso con un’alterità ostile.

La seconda breve sezione, L’ammanto, è un tenero omaggio al padre contadino, ridotto dalla malattia a esile giunco, a statua di Giacometti, a reliquia fossile. L’uomo che aveva usato tutta la sua forza “per spostare zolle / costruire il pozzo, tirar su gli ulivi” ora, nel suo giaciglio di ospedale, ha perso la voce, respira con l’ossigeno, non controlla più i movimenti. Giustamente la prefatrice parla di un’adesione di Antonella Palermo a un canone di “poesia terminale” inaugurato dalla Serie ospedaliera di Amelia Ros selli, e recentemente frequentato da numerosi autori, con la rievocazione delle dolorose agonie dei genitori, la riflessione sulla memoria e sulla morte, e quindi la finale elaborazione del lutto.

Nell’ultima parte del volume, La parola si arrende, la scrittura si immerge invece nel brulicare della vita, tra paesaggi, situazioni, e frequentazioni personali diverse. I viaggi (Sicilia, Sardegna, trafficate metropoli) presentano l’opportunità di godere nello stesso tempo di “solennità e grazia”, di “Girasoli maestosi / su giacimenti di sterpaglie”, di prolungati silenzi infranti dai “clamori dei bambini”.

Ma nonostante questo vorticare di distrazioni, di incontri, di eventi e località da scoprire, “Non diluisce la piena del dolore”. La poeta esamina con severità il suo atteggiamento di fronte all’esistenza, interrogandosi: “Posso rigare dritto, con voracità, o / ricominciare a dubitare”. Al bivio tra scelte diverse, generose o egoistiche, vitali o deprimenti, prova uno slancio di solidale amicizia nei riguardi della realtà: “Vorrei rammendare gli scheletri del mondo”.

E la parola finale, quella che si arrende al proprio potere trasformatore, è infine rivolta all’altro da sé, che sia un amico, un amore, un fantasma implorante soccorso: “Appòggiati”, gli dice.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net       6 febbraio 2024