ALESSANDRO FO, MANCANZE – EINAUDI, TORINO 2014

Quali siano le mancanze cui allude il titolo di questo delicato libro di Alessandro Fo, possiamo solo ipotizzare da vaghe tracce disseminate qua e là nel testo: forse i «Reliqua desiderantur», scritta posta in calce ai tre capitoli di cui si compone il volume (e allora ci viene in soccorso il latino, materia d’insegnamento dell’autore all’Università di Siena, in cui eccelle come traduttore egregio di Virgilio, Catullo, Apuleio, Rutilio Namaziano…). «Il resto manca», ciò che si è perduto rimane tra i desideri inespressi o irrealizzati. Come, forse, l’identificazione totalizzante con la poesia quando essa esprima e sveli «nella più favorevole posa, momenti alti, significativi (per assenza o per incuria di osservatore) negletti, dell’esistenza di cose e persone». Così, prosasticamente, il poeta chiarisce nelle esaurienti note finali. E ancora, più poeticamente, in versi in cui indica la mancanza come «insufficienza», «nostalgia di amorosa visione», «sera / priva d’angeli o di affetti». La poesia, nelle intenzioni dichiarate e spesso ribadite dell’autore, serve proprio a recuperare dolcezza, sensibilità, attenzione verso ogni aspetto della vita che ci circonda, facendoci crescere in consapevolezza e generosità, aprendoci a una visione meno materiale e scontata dell’esistenza. Alessandro Fo uomo di fede, più per una particolare e ormai in disuso disposizione dell’animo che per un’adesione (che pure esiste, si avverte concretamente salda tra le righe) al cattolicesimo. Una sorta di aspirazione quasi francescana al rispetto per ogni forma del vivere («scuotendo per i passeri / la tovaglia in balcone», «il lastricato / è cosparso di chiocciole. / Le schiaccio / involontariamente, / e mi dispiaccio / di sterminare vite, / anche minuscole», «mentre resto intento a una sua vena / (come fa a funzionare? / chi l’ha mossa e la fa così pulsare?)»). Muovendo da un doloroso evento biografico, come l’incidente stradale occorso alla moglie Francesca, o la morte del padre per tumore, il poeta inizia un suo percorso di conversione e rivelazione, una vera ascensione spirituale, che lo spinge a recuperare gli aspetti più tradizionali della nostra religione (le parabole evangeliche, la recita delle preghiere, la frequentazione della Messa…), e ad adottare un nuovo sguardo, più sorgivo, con cui affrontare l’esterno, nel tentativo di «accostarsi al divino non dalla devozione o dalla riflessione teologica, ma da quaggiù, sorprendendone infinitesimali particelle in questa realtà». Questa scoperta del divino nella bellezza, nella tenerezza, nella discrezione non compete infatti esclusivamente al sentire religioso, eppure ha in sé qualcosa che rimane magicamente epifanico. Alessandro Fo lo intuisce, con assoluta e commossa riconoscenza, nella musica, ad esempio. Soprattutto in Chopin, a cui dedica tutta la seconda sezione del volume: ritrovando nel suo compositore d’elezione («Ariel del pianoforte», «ponte arcobaleno», «un Virgilio polacco», «gioco di carezza e di abbandono») una sorta di alter ego, una corrispondenza alla sua stessa gentilezza, scandita nei preludi, nei valzer e negli studi più amati. Bellezza come dono imprevisto e imprevedibile, talvolta immeritato, che si concretizza nell’eleganza di sottili figure femminili incontrate per strada («L’infinita bellezza del creato / si rifrange in singole creature») e narrate recuperando stilemi stilnovistici (««Così vo cercand’io fra opachi effetti, / donna, quanto è possibile in altrui…»). Nell’ultimo capitolo del libro sono gli Angeli portatori di «una dimensione / di una metafisica dolcezza»: angeli carnali e insieme disincarnati, che si mescolano a noi nella vita quotidiana, figure salvifiche e illuminanti, in cui il poeta si imbatte sui banchi di una chiesa in una semideserta funzione infrasettimanale, o nelle stazioni, o in solitarie passeggiate senesi. Ragazze spaurite o trasgressive, anziane eleganti, preti indiani, archeologi in piscina, bambine incantate, giovani donne down, figure rese riconoscibili da «un’andatura appena un po’ sospesa / fra la fluidità e l’esitazione», che sembrano destinate da sempre al «mondo dei gentili», con lo scopo di riscattare la banalità, la sofferenza, la trascuratezza. A queste apparizioni miracolose il poeta pare voler accomunarsi, offrendo al lettore un ritratto di sé consapevolmente e orgogliosamente diverso da quello del letterato da salotto («Amo i versi, e altre schegge / di libri e vite», «Ero abbastanza felice, stavo bene / con i miei cari e le cose belle e vere / dentro i miei libri», «Amo la dissolvenza di me, della mia scia»). Nella volontà non tanto di proporre ai lettori soluzioni di vita, risposte fideistiche, quanto di suggerire trame, «filamenti che in modi anche eccentrici collegano punti, disposti chissà dove ‘a piacere’ oltre la nostra percezione». Alla poesia, quindi, Alessandro Fo demanda questo dovere di illuminare e salvare «le mancanze»: a questi suoi versi che sanno unire tradizione classica e ritmi più narrativi, fedeltà alla metrica dei settenari e gusto delle ripetizioni (unico artificio retorico, cui si affida più frequentemente che alla rima). Convinto della necessità di un messaggio espresso in contenuti – mai polemici, mai ironici, mai dissacranti – più che in velleitari sperimentalismi formali. Poesia che sappia saldare lo iato tra cielo e terra, eternità e tempo, Creatore e creature: «ispira diffidenza la poesia, / non convince la delicatezza, / poca gente è all’altezza dell’affetto, / quasi niente è il rispetto dell’amore». Alle mancanze, nostre e di tutti, essa può forse offrire una risposta.

«Caffè Michelangiolo», aprile 2014