ALFONSO BERARDINELLI, IL CRITICO SENZA MESTIERE – MONDADORI, MILANO 1983

I saggi di letteratura che Alfonso Berardinelli pubblica da una decina d’anni (preferibilmente su Quaderni Piacentini) e che ora ha raccolto in volume, sembrano riconducibili a una unico denominatore nello stile e nella sostanza. Lo stile, secco e netto fino alla lapidarietà, nasce da un’impazienza che invano cerca di attutire con l’ironia e il sarcasmo l’indignazione in cui spesso si condensa. La tesi che viene ribadita anche violentemente in tutto il volume fa del suo autore un isolato e lo esporrà probabilmente alle reazioni di chi da questa tesi si sentirà offeso: la critica accademica e un certo snobismo intellettuale del pubblico di sinistra. Berardinelli afferma che letteratura e critica sono state suicidate (per dirla con un’espressione in voga 15 anni fa) da chi le pratica professionalmente, e che possono essere resuscitate – loro malgrado – solo da chi ne fruisce non professionalmente: dall’ «attenzione disinteressata» del lettore «anarchico» di cui parla Enzensberger, o dal critico senza mestiere, quello che non concede nulla né all’ipercriticismo degli accademici, né alla chiacchiera gergale del giornalismo. Il critico-nuovo, auspicato da Berardinelli, deve recuperare una solidarietà con il lettore-nuovo che, oggi, è schiacciato tra l’efficientismo illuministico degli scienziati del testo (semiologi, psicanalisti, ecc.) e il fagocitante misticismo degli autori titanici, esoterici, edonisti. A incarnare questi due aspetti totalizzanti e totalitari della letteratura odierna, si ergono due simboli molto amati dalla sinistra del nostro paese: Umberto Eco e David Cooper, «l’esperto e il santone», che «dandoci troppo e troppo poco, dimostrano di funzionare entrambi come agenti della consolazione e gestori della frustrazione…celebrano l’ennesima metamorfosi dell’ideologia tardoborghese in cui anneghiamo».

Esperti e santoni, che sembrano vincere sia nelle università sia nei mass-media, in realtà soffocano il piacere della «lettura come esperienza», «azzerano la letteratura in quanto insieme di opere complesse con le quali autenticamente misurarsi», disorientano il pubblico. A un esemplare di questo pubblico disorientato e deluso, pieno di entusiasmi ma castrato nelle aspirazioni, Berardinelli presta la sua voce: AZ, «estremista moderato», lettore onnivoro e critico non ortodosso, è il protagonista del saggio più originale del volume (Vie d’uscita. Ovvero: le disavventure di un lettore). Rimasto legato a una visione sessantottesca del prodotto culturale, AZ non ama troppo indagare nelle pieghe del testo (altri lo fanno con maggiore sapienza, guastandogli alla fine il piacere di leggere), ma tende a recuperare in esso il valore (o disvalore) politico. Sentendo il bisogno di un «punto di vista, di una serie di affermazioni credibili e coerenti», AZ si immerge nella lettura di alcuni best-seller, di autori molto stimati dalla intellighenzia nostrana, e ne ricava un’impressione insieme tragicamente e comicamente negativa: assumendo i panni dell’ingenuo che si fida soprattutto del suo buon senso, AZ fa crollare il palco su cui erano stati issati a forza i campioni della nuova scrittura: Handke «aggraziata benché lugubre silhouette»; gli specialisti della crisi (Cacciari e Rella); asburgici che hanno fatto di Vienna «l’ombelico estetico-filosofico del mondo»; il teologo di sinistra Baget Bozzo, che «annuncia con un paio di ambigue formule l’avvento di una mistica post-moderna, non molto impegnativa e faticosa»; Arbasino, scrittore itinerante, in cui «c’è una monotonia dell’iperbole, un muoversi sempre allo stesso ritmo, alla stessa velocità, senza mai cambiare marcia alla sintassi, senza mai una pausa, un momento di meraviglia o di dubbio, una tentazione di sedersi». La riduzione di questi autori alla loro effettiva rilevanza, ha il grosso merito di far sentire meno solo chi, leggendoli, aveva dubitato del loro spessore, senza avere tuttavia il coraggio di prendere le distanze dal coro degli osanna della critica che fa opinione (L’Espresso, Alfabeta, Il Manifesto), pena l’essere segnato a dito come qualunquista, o peggio, come reazionario. Berardinelli, che da quel coro è uscito, cita altri nomi cui s’è dato troppo credito: Beckett, Borges, Barthes, Blanchot: «La sopravvalutazione ormai canonica di tali scrittori appartiene alla recente istituzionalizzazione di un estremismo letterario di superficie che esalta sterilità e tautologia: il contenuto storico ed empirico evapora, risolvendosi in labirinto metafisico e in autofagocitazione del soggetto nell’atto della scrittura».

Due sono gli esempi di buona letteratura che Berardinelli scorge nel panorama delle patrie lettere, e di questi esempi fa due bandiere: Volponi e Giudici, non abbastanza considerati e apprezzati dal pubblico e dalla critica. Giudici, soprattutto, che costituisce «l’episodio più imponente di realismo poetico dell’intero dopoguerra», si ritrova stretto tra le due tendenze già individuate nella critica e ben consolidate anche nella poetica degli ultimi anni: da una parte i mistici del verbo, gli innamorati della parola, dall’altra i tecnici della dissoluzione del senso e i soloni del materialismo in versi. Giudici viene letto con condiscendenza da chi non gli sopravviverà nemmeno collettivamente. Berardinelli giustamente ne fa un simbolo, ridimensionando al suo cospetto quei nuovi poeti che, in un saggio del ’75, aveva considerato con eccessiva attenzione.
Anche gli altri saggi del volume, del tutto alieni dall’imperturbabile diplomazia che veste l’omogeneizzata critica contemporanea, sembrano vantare la loro evidente umoralità, le loro espresse idiosincrasie: la polemica contro la teoria letteraria è il leit motiv di tutti. Ed è una guerra senza risparmio di colpi, ricca di provocazioni, di scherno, di rabbia: le argomentazioni più incisive sono condensate in  Chirurgia estetica, ove si accenna pure a un’ipotesi che andrebbe sviluppata: la necessità di una critica didattica e di un uso anche pedagogico della letteratura (Berardinelli ha pubblicato, ed è bene ricordarlo, un libro di versi dal titolo emblematico Lezione all’aperto). Proprio lo stile, più che i contenuti, risulta irrispettoso dei miti e irriverente ai riti della cultura odierna, a come a AZ veniva imputato «il modo in cui le cose sono dette», a Berardinelli verrà rinfacciata la forma più della sostanza, e i suoi più evidenti pregi potranno essere ribaltati in difetti. In primi luogo, la leggibilità, in un momento in cui fumosità, sentenziosità oracolare, allusività, sono segni riconoscibilissimi di appartenenza a una casta: da quanto non leggevamo critica letteraria divertendoci (addirittura!), e senza dover analizzare periodo per periodo più volte, nel timore di aver frainteso? Inoltre, la violenza dei j’accuse, la trasparenza degli obiettivi, l’assolutezza utopistica dei fini da raggiungere potranno calamitarsi addosso l’accusa di moralismo, mentre questo loro sguardo vasto e non mortificato da settorialismi scientifici, iroso e non condiscendente, dovrebbe riportare alla mente altri critici “totali”, che non limitavano la loro indagine alla letteratura, ma spaziavano su cultura, società, politica: Pasolini e Fortini. Con una differenza fondamentale, però: che la severità luterana, tutta nordica di quelli assume una qualche presunzione da primi della classe, là dove il feroce sarcasmo romano di Berardinelli, portandosi dietro «il suo mondo, le sue esperienze» tende a farsi portavoce di un pubblico più vasto, di una generazione che è stata sconfitta politicamente, sì, ma rimane tuttora irriducibile a schemi.

«abiti-lavoro» n. 7/8, 1984