THOMAS BERNHARD, IN HORA MORTIS – SE, MILANO 2017

Chi ama Thomas Bernhard non dovrebbe lasciarsi sfuggire questo volume, appena riproposto in una raffinata edizione da SE, con ricche note biografiche e bibliografiche, un’interessante appendice iconografica di foto che ritraggono l’autore dall’infanzia alla maturità, e soprattutto con un’esaustiva e appassionata postfazione del germanista Luigi Reitani, a cui si deve anche la nuova traduzione.

In hora mortis, è un breve poema diviso in quattro sezioni, in cui l’ateo Thomas Bernhard affronta, con la consueta rabbiosa e angosciata inquietudine, l’Assoluto, che chiama filialmente e in maniera ossessivamente ripetuta “Signore” (Herr), aggrappandosi allo scampo di una millenaria tradizione religiosa. Scritto nel 1958, fa parte della produzione poetica giovanile di Bernhard, poco considerata dalla critica, e solo recentemente rivalutata come fase preliminare e introduttiva alla sua più considerevole attività letteraria in prosa. In quegli stessi anni, il genio saliburghese (nato nel 1931 in Olanda, frutto di una relazione illegittima, dal cui stigma si sentì marchiato per tutta la vita) scrisse altri tre volumi di versi, recentemente pubblicati in Italia da Crocetti e Guanda, che evidenziano sia il suo rapporto conflittuale con la famiglia e l’asfittico ambiente culturale austriaco, sia l’intenso desiderio di recuperare un’avvolgente intimità con la natura, terragna e cosmica. Quest’ultimo aspetto è presente anche nelle poesie di In hora mortis, in cui la campagna (la terra, le stalle, gli animali, i contadini) offre un suo humus di antico simbolismo sacrale – fatto di giaculatorie e riti scaramantici, più vicini alla superstizione che alla fede -, e il cielo rimane immobile e inavvicinabile, specchio di indifferenza e gelo:

«Selvaggio cresce il fiore della mia ira / e tutti vedono la spina / che nel cielo affonda / stillando sangue dal mio sole / cresce il fiore della mia amarezza / da quest’erba / che i miei piedi lava», «un merlo  che non canta / e la mia scrittura nel cielo / straniera alle erbe / Signore mi tormenta la stella», «Signore che mi lasci inginocchiare su neve e ghiaccio / per una preghiera / e la grazia di un cielo lontano», «Signore la mia preghiera crea dalla notte e dal timore / il sole / e la luna», «Signore / che non vuoi la mia preghiera / e divori la mia supplica / sul dorso di stanche stelle / di floridi campi / di tetri cortili / che erigi la mia tomba / che mi uccidi con una scure».

Come risulta evidente dai versi sopra riportati, potentissima è l’eco profetica veterotestamentaria di Isaia, Geremia e dei Salmi (cfr. Sal 10. 17. 87. 129), nella loro implorante richiesta di aiuto, nella loro violenza vendicativa e nella spirale opprimente di colpa-penitenza-redenzione. Ma si avvertono pure risonanze dalle litanie medievali, dalla letteratura pietistica del 1600-1700, fino alle eredità espressionistiche di molti autori di lingua tedesca (Benn, Trakl, Bachmann, Celan), giustamente sottolineate dal curatore del volume Luigi Reitani. Il tema della morte, che campeggia già nel titolo, è predominante in ogni sezione. Cadenzato da pause di silenzio, da gridi penetranti e da una tenebrosa musicalità da requiem, esso si rifà alla tradizione degli “Sterbebüchlein”, trattatelli religiosi che insegnavano ai fedeli l’ars moriendi, esortandoli alla meditazione interiore prima dell’incontro supremo con Dio. Ma qui l’assalto al cielo di Bernhard non ha nulla di docile e rassegnato, piuttosto assume i toni di una sfida irosa, esibendo un disperato bisogno di consolazione, l’ansiosa ricerca di una risposta, e insieme il blasfemo rifiuto di ogni acquiescente devozionismo: c’è insomma in queste poesie giovanili già tutto il grande narratore che conosciamo e amiamo di più, la sua tormentata angoscia, il suo urlo di ribellione contro un destino ostile, contro un Deus absconditus e silenzioso da cui si sente tradito e condannato.

 

© Riproduzione riservata               «Nazione Indiana», 25 settembre 2017