GERMANA CARBOGNANI, UN GRANDE MONDO DI DONNE – ALICE, COMANO 1991

I bambini che oggi affidano al Nintendo i loro sogni e le loro proiezioni fantastiche, le adolescenti che si costruiscono i loro oroscopi personalizzati con il computer, trent’anni fa avrebbero forse interrogato le lucciole o le stelle cadenti per ricavarne presagi meno specifici ma certo più suggestivi. Trent’anni fa, in Carnia, poteva accadere che una ragazzina chiedesse a un grillo rubato a un prato in una notte di giugno, tenuto prigioniero sotto un bicchiere per ore, e poi lasciato improvvisamente andare, di indicarle nella fuga quale direzione avrebbe preso il suo futuro. E se il grillo correva («oracolo, speranza e un po’ di fato») verso il fiume, verso l’ovest, «dritto dove non c’era più paese», esprimendo con naturalezza una sentenza che equivaleva a una condanna, quella ragazzina poteva sentirsi morire. Cresciuta, avrebbe – come moltissimi altri carnici – lasciato le sue montagne per una vita matrigna da spendere chissà dove, tornando ogni tanto, col cuore e con gli occhi, alla sua infanzia e alla sua gente, magari scrivendone un libro-diario, un libro-memoria e testimonianza, come questo Un grande mondo di donne, di Germana Carbognani, dal titolo rassicurante e materno. Germana Carbognani vive da molti anni nella Svizzera Interna, e in Ticino presso le Edizioni Alice ha pubblicato la sua autobiografia, seguendo l’incoraggiamento di Saverio Tutino, direttore dell’Archivio Diaristico Internazionale di Pieve Santo Stefano (Arezzo). Non mi sembra si possa equivocare, come hanno fatto alcuni autorevoli commentatori, definendo il volume femminista: semmai femminile, donnesco, in quanto non contemplante l’universo maschile se non come assenza, lontananza. Mondo di donne, da sempre, è il mondo carnico. Donne sposate giovani e già gravide, ingravidate poi ogni anno a Natale dai mariti emigrati che tornavano per le feste dalla Francia, dal Lussemburgo: donne con la gerla sulle spalle e i “scarpéz” di pezza ai piedi. Buone a far la polenta, a far figliare le bestie, a lavare d’inverno nell’acqua gelida, crescendo i figli (maschi robusti e di poche parole, femmine caparbie e forti come loro) senza svenevolezze. Germana Carbognani, ultima di tre sorelle, vissuta con la madre, le zie, la nonna, si definisce da subito autrice in quanto donna, e donna di Carnia: «guardavo la vita con altri occhi. Occhi non solo di bambina, ma di piccola carnica, fiera come tutte le donne carniche e felice di esistere…».

Il “grande mondo” che racconta – grande non solo perché osservato con sguardo infantile, ma perché effettivamente grande e generoso rispetto alla miseria di quello presente – ha scenari di esterni e di interni particolarmente suadenti: abeti silenziosi e noci carducciani, corvi in cielo e ricami di ghiaccio alle finestre, strade polverose e cortili col fieno da seccare. Dentro le case, poi, cassettoni e madie intagliate, acquai di pietra. Il tempo era cadenzato in riti che avevano la rigida scansione delle ore, della stagioni, degli anni: il giorno del bucato, il Nédal, le nascite e le morti, le serenate sotto i balconi e i matrimoni, le partenze con addii secchi. Poca pietà per la gente (partigiane e suore, puttane e violentatori, maestri e organisti ciechi, molti bambini cresciuti in fretta) e quasi nessuna pietà per gli animali: maiali macellati festosamente e gatti randagi uccisi per divertimento. Tanto intenerimento, invece, per gesti e abitudini scomparse, come l’infilarsi nel lettone tra le lenzuola gelide, a intrecciarsi le gambe con le sorelle, addosso un camicione di flanella su biancheria che si cambiava poco; la partita a tris giocata coi fagioli su pezzi di cartone, la fame addomesticata spiluccando le croste della polenta rimasta nel paiolo. E soprattutto il linguaggio, la lingua straordinaria e ricca di una regione antica e di confine. Un “lessico famigliare” non borghese, non ebreo, non di città: ma paesano, carnale e carnico, anzi “cjargnél”. Parlata aspra, tormentata e scabra come i monti scoscesi, i fiumi ripidi della Carnia. Il paese del sogno ha un nome poco pronunciabile: Pradiscjàs, ricalcato su nomi simili (Pradamano, Pradiélis, Pràdis), sibilanti e arrotati, inquieti come la gente che li abita. Libri di memorie recuperate, di paesi ritrovati, di nostalgie pudiche ne abbiamo letti parecchi, a cominciare dall’indimenticabile Libera nos a Malo di Meneghello per arrivare agli ultimi di La Capria: ciò che ci rende così teneramente vicino questo della Carbognani è forse il «parlarsi essenziale» di una zona che si è, finora, raccontata poco, e con rabbiosa malinconia per «un grande mondo» che si è perso, a volte a causa di un destino cattivo (il terremoto, il lavoro lontano), più spesso per l’indifferenza, per l’insipienza di tutti.

 

«Eco di Locarno», 22 febbraio 1992