BIANCAMARIA FRABOTTA, IL RUMORE BIANCO – FELTRINELLI, MILANO 1982

«Bianco» è una parola chiave per penetrare tra i rumori di questo libro di Biancamaria Frabotta, che si intitola appunto  Il rumore bianco. «Bianco»» non si dice, di solito, del silenzio? Non è al silenzio che colleghiamo il candore della neve, che cade senza produrre suono, che attutisce qualsiasi vibrazione acustica? E quale colore può avere il rumore, se non una tinta violenta (il nero, il rosso, un giallo fosforescente?). Un rumore bianco pare un’offesa al senso comune, anzi un’ipotesi di sospensione del senso, di attesa/sorpresa: in questo titolo c’è già poesia. Ma nell’intenzione che lo ispira c’è anche dell’altro: una motivazione più sottile, una provocazione più acuta. Nel linguaggio scientifico, rumore bianco viene definito il suono prodotto dalla collisione delle molecole immerse nel fluido della loro corsa. Un rumore che può essere assordante ma che il nostro orecchio non percepisce. Presente nell’aria intorno a noi, dentro di noi; possiamo chiamare rumore bianco anche quello della poesia, con i suoi suoni e i suoi silenzi. Alle parole dette, più che a quella letta in silenzio, la Frabotta affida il compito di comunicare poesia (vedi anche un suo interessante articolo, Il poeta in palcoscenico su Il Manifesto del 27 dicembre 1981): e i lettori sono immaginati «accecati…ammutoliti, …altro che come un orecchio / un ombroso orecchio guardone», un pubblico di ascoltatori. Queste poesie sono infatti da leggere a voce alta, sonore, nervose, asseverative. Ma di tanto in tanto la voce si concede, quasi a raccogliere respiro e dolcezza, la pausa riposante del più cantato dei versi, l’endecasillabo. E può essere un endecasillabo provocatorio, come una spallata data apposta («Spremi la resina il pimento il piscio»); è comunque una distrazione, una concessione all’orecchio desideroso di refrain. In queste pagine letteratissime, lontane dalla discorsività e da ogni spontaneismo, si è sorpresi da qualche arcaismo come da un vezzo (cui talvolta Frabotta indulge anche in prosa): l’aggettivo che precede il nome («la tua sudata pelle»), o l’avverbio che precede il verbo («per finalmente esserci», «sfrontatamente ridere»). Subito dopo si è magari costretti a sbrogliare i mille fili delle tecniche raffinate dell’inversione sintattica, dell’eliminazione della punteggiatura, della divisione delle parole a fine verso non giustificata da altro che dalla scansione metrica. Ancora una volta un omaggio alla voce, e non fa niente se è un’offesa all’occhio («Monade chiac / cherina», ««lenzuolo inzu / ppato»). Ci siamo abituati a leggere – o a scrivere- un certo tipo di poesia femminista, molto didascalica, a volte rancorosa, oppure privata in modo totalizzante. Questa della Frabotta è senz’altro poesia femminista, nei contenuti più che nella forma. Il linguaggio femminile, nonostante le molte teorizzazioni, sembra non riesca a inventarsi («Anche se oggi ti rendo l’onore delle armi / il fuoco sacro dell’imitazione»). Gli strumenti poetici sono sempre quelli, bisessuali, come li vuole chiamare Porta nell’introduzione al libro. E i temi sono quelli propri di una poesia femminista, ma né didascalica né rancorosa, semmai fiera, altera («Non come te poeta io sono / io sono poetessa e intera / non appartengo a nessuno»). Le altre, le donne, le sorelle sono presenze concretissime nelle due prime sezioni del volume, amate irrazionalmente ma anche razionalmente giudicate: «Prepolitiche / da sempre e scorrette agitano / l’ascia bipenne dei moicani e scuotono le piume. / Vi offriamo perline colorate per piombo. / Siamo già spaventate dall’urlo dei cani. / Cerchiamo di farvi paura».

Oppure: «Amiche che così identiche vi fa uniche / il guerriero pudore declinante / l’irragionevolezza del passo». Il rapporto con loro è tormentato («E’ la vita che vi debbo o / il suo estinguersi per sempre?», «Lasciami / correre a nascondermi fra le macerie / per paura e vergogna delle sorelle che / ci rapano la testa come a donne di partigiano / incinte di seme tedesco»), ma basato sulle certezze di una sorellanza: «Insinui perché la tua razza così ti vuole. / Lei invece mi dà già la sua solidarietà. / La vedi? Là, dall’altro marciapiede».

Anche il privato entra in questa poesia, ma in maniera pudica e riservata, «Un bambino che di parlare non ne vuole sapere». Un privato chiuso, che non rivela niente di sé, che potrebbe essere il privato di tutti: ci sono le altre, c’è un lui, una lei. Un privato che irrompe con un “tu” personalizzato, subito però dirottato sul piano dell’oggettività, dell’impersonale, del pubblico; dal tu al lei/lui al loro, nella stessa poesia, lo sguardo interno può diventare occhiata esterna. Il rapporto con l’altro non è mai abbandonato, ma sempre vigile, ostile: il maschio è appunto il lui, oggetto di indagine, in definitiva estraneo. Non c’è un uomo in particolare, nessuna storia o relazione personale è privilegiata: di questi corpi virili si vedono sempre e solo i fianchi, le spalle, girati dall’altra parte, in una loro chiusa indifferenza. Delle loro menti si intuisce una comune abilità nel tessere inganni di parole, nel sezionare argomenti con logica angusta. Questa logica maschile è incomprensibile, temuta perché vincente seppure povera, condannata dalla sua rigidità. E’ la severità di Abelardo, «disperso» nelle sue trame di pensiero, «idee intricate», la cui «sapienza non vale misurare l’ardore di vegetale» rispetto al coraggio, alla voglia di vivere di Eloisa. Se filosoficamente domina Abelardo, è Eloisa la «morbosa, terragna» che ha il suo regno tra i meli, le foglie, i passeri, l’acqua, le alghe. L’eterno duello tra cultura e natura ha trovato i suoi emblemi, un Abelardo ascetico, un’Eloisa «prensile mobile radice», che preferisce «le corde di terra / e non una mongolfiera vuota di vento». Il verso finale di questo poemetto e del libro suggerisce una meta a chi scrive, donna, poesia di donna: «si emigra al sud, a ali spiegate».

«Produzione e cultura» n. 26/27, giugno 1982