DAN FRANCK, LA SEPARAZIONE – RIZZOLI, MILANO 1996

Uno scrittore di successo, sceneggiatore abituato alle luci della ribalta, ebreo di sinistra cresciuto nella scia del maggio ’68, approdato a un laicismo ecologico e tollerante, insomma un interessante quarantenne parigino, sicuro di sé e della sua vita, si rivela improvvisamente fragilissimo, sbandato, disperato, quando sua moglie decide di lasciarlo, portandosi via i due bambini, di cinque anni e otto mesi. Torna ad essere, allora, il più tradizionale dei mariti, geloso, ricattatore, infantile. Capace di studiare e di mettere in atto ogni pratica di seduzione e convincimento, pur di trattenerla. Scritto in terza persona, con uno stile conciso, a volte sincopato, quasi a seguire i pensieri e i sentimenti altalenanti, a singhiozzo, dell’autore, il romanzo  La separazione di Dan Franck ha ottenuto nel ’91
il Premio Renadout, ed è stato trasposto sugli schermi con l’interpretazione di Isabelle Huppert e Daniel Auteuil. Si apre con la descrizione di una serata a teatro, in cui lui («Lui») tenta di prendere la mano di lei («Lei») che gli è seduta accanto, «distante e tesa», e non risponde alla sua stretta, o si ritrae. Lui insiste, le preme la spalla, le accarezza un ginocchio, e lei si irrigidisce, si scosta, infastidita. Al ritorno, in moto, non si appoggia alla sua schiena, non gli cinge i fianchi. A casa lo schiva, esce dalle stanze quando lui entra. Alle domande incalzanti del marito oppone annoiata resistenza («Non so, non mi capisco, sarà lo stress, saranno i bambini»). Però si cura di più, si veste con maggiore ricercatezza, a momenti è radiosa: altrimenti soprappensiero, malinconica, via da tutto. Fino a quando confessa di amare un altro, di vederlo regolarmente, di desiderarlo. Un altro («l’Altro»), non meglio precisato, mai descritto, ma onnipresente. Per un mese, dopo la rivelazione, non succede niente: i due si sorvegliano, scaramucciano, tormentandosi con sadismo. Poi lei sta fuori una notte, e lui crolla, impazzisce. Non mangia più, tenta improvvisi recuperi, la ricatta con la rivisitazione degli anni passati insieme, o con la sofferenza dei bambini, verso cui si accorge solo ora di nutrire un affetto morboso. Insieme vanno alla deriva, non hanno più gesti o parole in comune, non si chiamano nemmeno più per nome («Ehi!»); coinvolgono nella loro storia decine di vecchi amici, e parenti, tutti alle esequie di un amore, maledicenti o complici. Infine, la separazione arriva come il minore dei mali, i bambini rimangono a lei, lui pian piano si rassegna a una solitudine riempita di espedienti, non più rancoroso ma senz’altro sconfitto,e convinto che la moglie e i figli, anche se ormai lontani, in una casa che non è la sua, «quei tre resteranno per sempre i suoi».

 

«L’Arena», 21 giugno 1996