CARL G. JUNG, RISPOSTA A GIOBBE — BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2012

«Il libro non dev’essere altro che l’interrogante voce di un singolo, che spera o attende d’incontrare la pensosità dei suoi lettori». Così scriveva Carl G. Jung nel tentativo di giustificare «scherno e sarcasmo» spesso affioranti in questo suo volume del 1952, in cui si era proposto di affrontare da psichiatra i dilemmi fondamentali della visione religiosa, quali si esprimono nelle Sacre Scritture.
E soprattutto di approfondire la questione più problematica e imbarazzante per chi crede, cioè la giustificazione del male e della sofferenza, e la loro conciliazione con la fede in un Dio buono e paterno. Partendo quindi dall’esame del libro di Giobbe, e da questa figura emblematicamente giusta e pia, costretta a patire crudeli sofferenze morali e fisiche, che ardisce interrogare Yahwèh, e «attende aiuto da Dio contro Dio», lo psicanalista svizzero prende quasi rabbiosamente le parti del mite oppresso, dell’uomo indifeso e perseguitato, contro la «selvatichezza e perversità divina… un Dio smodato nelle sue emozioni… roso dall’ira e dalla gelosia». La colpa di Giobbe, secondo Jung, risiede nella sua coraggiosa intelligenza e indipendenza di giudizio: «Giobbe individua l’antinomia interna di Dio, e con ciò la luce della sua conoscenza personale raggiunge essa stessa una numinosità divina». Nella sua istintiva identificazione con il personaggio biblico, Jung mena fendenti rabbiosi contro la potenza sovrumana del creatore: «Quest’uomo abbandonato, indifeso e senza diritti, alla mercé del suo nemico, appare a Yahwèh tanto manifestamente pericoloso da ritenere necessario demolirlo con i colpi della sua artiglieria più pesante».

E quindi l’ansia esegetica dello psicanalista arriva polemicamente ad affrontare non solo le intenzioni inconsce di Dio (talmente invidioso dell’uomo da volersi incarnare nel Figlio), ma tutta la storia dell’Antico e Nuovo Testamento, e addirittura dei testi apocrifi (quindi parte della Genesi e il Libro di Enoch, Ezechiele e il Salmo 89, i Vangeli e l’Apocalisse) e dei più importanti protagonisti delle Scritture.
Di tutti Jung traccia ritratti impietosi. «Nel carattere di Cristo si fa notare una certa irascibilità e, come spesso avviene nelle nature emotive, pure una certa mancanza di autoriflessione»; «Pietro possiede poco dominio di sé e un carattere instabile»; «Paolo appartiene a quelli il cui inconscio era in preda a turbamento e dava luogo a delle estasi di rivelazione», «Giovanni potrebbe avere facilmente dei cattivi sogni che non appaiono nel suo programma cosciente… una vasta rete di risentimenti e di pensieri di vendetta».

In queste personalità poco equilibrate, in preda a irrazionali e ingestibili turbamenti, Jung rileva un fondamento comune a tutti i tipi psicologici religiosi: «Nell’inconscio è presente tutto quanto è stato respinto dal conscio, e quanto più il conscio è cristiano tanto più l’inconscio si atteggia a pagano». Forse solo di Maria, di cui nel 1950 era stato proclamato il discusso dogma dell’Assunzione, Jung riesce a salvare l’aspetto simbolico di Mediatrix archetipica, risalente ai miti orientali della Donna-Sole, della Sakti indiana, della Sophia alessandrina: mito necessario all’umanità (e incompreso dai protestanti), nella sua aspirazione alla pace, all’equilibrio, all’intercessione materna.
Tesi stimolanti, queste junghiane, anche se indubbiamente datate dal punto di vista dell’antropologia e della storia delle religioni, e comunque rivelatrici dell’ego ipertrofico di molti indagatori della psiche, sempre pronti a scandagliare isterismi e patemi altrui, individuali o collettivi, sorvolando sui propri complessi e incoerenze comportamentali.

 

«incroci on line», 5 aprile 2015