PIER LUIGI LUISI, SUO PADRE ERA UN ALBATROS – SALANI, FIRENZE 1990

 

La casa editrice fiorentina Salani, di robusta e rispettabile tradizione nel campo dei volumi per l’infanzia, ha ripreso in questi ultimi anni a pubblicare con successo alcune collane che propongono sia collaudatissimi classici, sia volumi ingiustamente dimenticati degli anni ’40, sia nuovi o sconosciuti autori. Nella serie Gl’Istrici (sottotitolo «I libri che pungono la fantasia»), volumetti tascabili corredati da illustrazioni in bianco e nero, è uscita nel mese di marzo una storia un po’ fiaba e un po’ mito, un po’ viaggio e un po’ sogno, dal titolo nostalgico e misterioso : Suo padre era un albatros. L’ha scritto Pier Luigi Luisi, scienziato, professore al Politecnico di Zurigo ( si occupa di chimica macromolecolare dei biopolimeri), uomo dai vasti e poliedrici interessi culturali. Due anni fa aveva pubblicato, con prefazione di Dante Isella, un libro di racconti ambientati nell’Isola d’Elba. Si trattava allora di testi che coniugavano il realismo della memoria ritrovata (Luisi è appunto elbano) con una viva sensibilità pittorica: il ritorno al passato era pretesto per disegnare figure e ambienti tra sogno e risveglio, tra acquerello e incisione. In questo volume, invece, il fantastico e l’invenzione hanno nettamente la prevalenza: tra l’altro, il primo dei due racconti che lo compongono è stato segnalato al Premio Nazionale di narrativa fantastica J.R.Tolkien 1989. Protagonista della storia è una giovanissima malese, della tribù dei Senoi: si chiama Clau-Di-Tam, è insieme forte ed esile, degna figlia di una dolce indigena e di un grande e inquieto navigatore bianco. Dal padre ha preso la pelle chiara, i capelli scuri e lisci, la curiosità e il coraggio; dalla madre e dalla sua tribù la conoscenza rispettosa e ammirata di tutti i fenomeni della natura, la capacità di comunicare coi fiori e gli animali, e la rarissima dote di sapere interpretare i sogni che le arrivano dall’aldilà, sempre gravidi di significato e premonitori. Clau-Di-Tam vive con la sua tribù sulla riva del Grande Lago, che percorre in lungo e in largo sulla canoa; si spinge a esplorare la giungla, studia il volo degli uccelli, sa muoversi sinuosamente al ritmo di danze antiche, cavalca orsi e blandisce scimmioni, ma soprattutto sogna. I suoi sogni sono visioni luminose, dai colori splendenti, arazzi in cui intesse armoniosamente i tanti fili che la vita le ordisce. I Senoi le affidano il gravoso incarico di recuperare il sogno interrotto del capo del villaggio in agonia, onde evitare maledizioni e disgrazie che si abbatterebbero per sette generazioni sulla sua gente. Clau-Di-Tam riesce a portare a termine il suo compito, dopo aver sfidato il regno minaccioso dei demoni dei sogni, popolato da creature malefiche e orripilanti come in un quadro di Bosch. In questo mondo di incubi c’è più Artemidoro che Freud, ci sono più miti platonici (i due rospetti che abbracciandosi formano una palla suggeriscono una reminiscenza del Simposio) che studi sui neuroni…E Clau-Di-Tam che mangia funghi secchi per acquistare nuove virtù, che parla coi fiori animati e ha a che fare con una regina cattiva, ricorda molto la piccola Alice di Lewis Carroll, un’Alice più ingenua e istintiva, immersa nella natura. Alle soglie della pubertà, Clau-Di-Tam si imbatte nella tentazione della civiltà avida e corruttrice, personificata proprio dal mitico padre bianco, figura quasi conradiana, tornato su una grande nave alla ricerca del fungo dell’eterna giovinezza, che rende immortali e crudeli, come in un rinnovato mito faustiano. La ragazzina salva il padre, accompagnandolo nella sua avventurosa ricerca e strappandolo alle forze del male; lo convince ad accettare il corso naturale della vita e il suo declino verso la morte, e sceglie poi di non seguirlo in occidente, preferendogli «il mare amico…la spiaggia di sabbia bianca». C’è qualcosa, in questo immaginoso, tenero racconto che ricordi vagamente il mondo elvetico e gli interessi scientifici del professor Luisi? Forse lo spassoso episodio della lotta tra i Mischlinghi (il loro capo si chiama, programmaticamente, Entropio!), ricciuti, grassottelli e sporchi, che vorrebbero mescolare tutti gli elementi della natura in una fastidiosa varietà e confusione di caratteri e colori – giorno e notte, caldo e freddo, stagioni, alberi e animali -, contro gli Schwizerlinghi (guidati da Ornig!), silenziosi, composti, puliti e conformisti, che vorrebbero ovunque ordine, separazione degli opposti, rigore concettuale. Queste minuscole creature così differenti tra loro, ma costrette a vivere nella giungla, sembrano metafora evidente di una società – come quella svizzera- in sofferto conflitto razziale, e del mondo accademico, intellettualmente scisso tra caso e necessità.

 

«Agorà» (Svizzera), 6 giugno 1990