ELISABETTA RASY, SCRIVIMI – NOTTETEMPO, ROMA  2011

Le edizioni Nottetempo pubblicano nella collana  I sassi  libriccini di narrativa, saggistica, poesia limitati alla quarantina di pagine. Non si tratta di capolavori, non propongono idee nuove o sconvolgenti, non provocano né alimentano dibattiti e polemiche. Ma offrono una lettura generalmente piacevole, in uno stile dignitoso ed elegante: con i tempi che corrono, non è poco.
Così questo racconto di Elisabetta Rasy, che ho letto in treno passando un quarto d’ora di distesa non-concentrazione. Un avvocato di Roma narra in prima persona la fine dello zio materno, novantenne malato di vecchiaia, stanchezza e forse di Alzheimer. Il nipote vorrebbe fare in modo di trattenere il «soffio dell’esistenza in quel corpo che andava trasformandosi in un pesante fantasma di carne stanca e muscoli infiacchiti». Ovviamente lo zio non era sempre stato così, malandato e inebetito; bancario di ««radicale e altera energia», lo zio Enrico era stato «possente atletico e indecifrabile come un cavallo di razza … formale e austero, lesinava i gesti espansivi e le parole». Aveva avuto anche una moglie, sudamericana dolce e bellissima, che però l’aveva lasciato dopo solo un anno di matrimonio: quindi un’esistenza solitaria e orgogliosa, silenziosa e dedita esclusivamente allo sport e al lavoro. Poi la malattia, e il nipote da lui aiutato e seguito per tutta la vita gli cerca delle badanti che lo assistano giorno e notte, anzi, che divengano quasi angeli custodi, amorevoli e fedeli. La custode delle notti malate del vecchio è una giovane cilena, Isabel, che allevia l’immobilità incosciente di lui facendogli ascoltare sempre lo stesso disco, un tango intitolato Scrivimi, che gli aveva regalato decenni prima la moglie sudamericana. E mentre assiste il vegliardo, la giovane Isabel scrive lunghe lettere d’amore al fidanzato cileno, che non le risponderà mai. Quando il vecchio muore, la ragazza chiede al nipote come regalo d’addio proprio quel disco: e il racconto finisce in sordina, quasi con l’imbarazzo di trovare un finale adeguato a una storia che non dice molto. E così, anche il finale rimane sospeso, e non dice molto.

 

«Leggere Donna» n.156, luglio 2012