JEAN PAUL SARTRE, LA RESPONSABILITA’ DELLO SCRITTORE – ARCHINTO, MILANO 2012

Bene ha fatto l’editrice Archinto a proporre questa prima traduzione in italiano della conferenza che Jean Paul Sartre tenne nel 1946 all’Unesco, offrendo al lettore la possibilità di meditare sulla tensione utopistica, di irriducibilità ideologica e insieme di archeologica ingenuità delle parole del filosofo francese. Chiusa da appena un anno l’esperienza tragica della seconda guerra mondiale, della resistenza al nazismo, con la sua ansia di libertà e la candida esigenza di una nuova giustizia sociale, l’intellettualità occidentale faceva i conti sia con i suoi complici e vili silenzi, sia con rivoluzionari orizzonti di engagement futuro. Sartre appare consapevole, elettrizzato e quasi spaventato dalla responsabilità che lo scrittore del secondo novecento ha nei confronti della società, e soprattutto nei riguardi degli oppressi (“l’infelice coscienza marxiana”!), in un’epoca in cui la comunicazione sta assumendo dimensioni prima sconosciute (quello che oggi definiamo “villaggio globale”, lui lo chiamava più romanticamente “one world”…). E molto insiste sull’ambiguità dello scrittore postbellico, stritolato tra la sua provenienza borghese, il suo ruolo di disvelatore dei meccanismi di oppressione sociale e politica, il suo dovere di denunciare qualsiasi sopruso, violenza, negazione della libertà.

«Lo scrittore scrive perché, in un mondo in cui la libertà è costantemente minacciata, si assume il compito di ribadire l’affermazione della libertà». Dovere della letteratura è quindi quello di trasformare la realtà, facendosi parola ed espressione: «La letteratura trasporta un fatto immediato, irriflesso, forse ignorato, sul piano della riflessione e dello spirito oggettivo»; e ancora : «Opprimere i neri non era niente finché qualcuno non ha detto ‘I neri sono oppressi’ ». La missione, il compito e la responsabilità che Sartre affida allo scrittore è quindi smisurata e gravosa, e oggi la sentiamo sperequata e illusoria rispetto al ruolo secondario che arte e letteratura rivestono in un mondo sempre più asservito e dominato dall’economia. Il “pentalogo” di compiti che delinea per l’intellettuale moderno ci appare ingenuo e utopistico. Chi mai si azzarderebbe oggi a definire lo scrittore un uomo libero, condizionato com’è dalle scelte editoriali, dal mercato, dalle mode filosofiche? Se è vero che gli intellettuali occidentali sono sempre stati legati a doppio filo al potere (un tempo militare, ecclesiastico, politico; oggi soprattutto mediatico e finanziario), chi affiderebbe ad essi, oggi, il riscatto degli oppressi, la critica delle classi dirigenti, la rivendicazione dei diritti calpestati? Sartre, già nel 1946, intuiva il paradosso in cui viveva e operava lo scrittore, se poteva scriverne: «Quando egli cerca di difendere la libertà di pensiero, non si sente la coscienza a posto, perché, nonostante abbia assolutamente ragione, in un certo senso difende soltanto la propria libertà: che cosa significa ‘libertà di pensiero’ per un’operaia che cuce stivaletti?», e ancora: «o parla tanto per parlare, ed è un commovente, puro e semplice idealista, o imbroglia le carte. In entrambi i casi sbaglia. Ondeggia senza tregua».

Questo scriveva più di sessant’anni fa il filosofo che rifiutò il Nobel: ma oggi le coscienze critiche della letteratura le troviamo nei salotti televisivi, nelle mortificanti classifiche dei best-seller, a contrastare l’esibito e forse giustificato disinteresse dei non lettori.

 

«Orizzonti» n. 42, 2013