ALFONSINA STORNI, POEMAS DE AMOR – CASAGRANDE, BELLINZONA 1988

Il Ticino è terra di frontiera e, come tale, ha ovviamente elaborato una cultura di frontiera, in bilico sempre tra l’attrazione – e il senso di inferiorità – per ciò che è diverso, pur essendo vicino, e il rifiuto del confronto, con la conseguente chiusura e provincializzazione. Va dato atto a questo Cantone, tuttavia, di avere negli ultimi decenni cercato ostinatamente una terza via alla riscoperta della propria identità, alla modulazione di accenti culturalmente nuovi. Ne sono una riprova i vivaci fermenti che animano le città ticinesi in campo editoriale, giornalistico, cinematografico e televisivo, ma anche sociale e di costume. A questi sforzi noi italiani in Svizzera dovremmo guardare con maggiore interesse e simpatia, cominciando magari a studiare gli autori ticinesi più noti e le nuove promesse con l’attenzione che meritano. Nell’ottica di un recupero di autori sottovalutati o misconosciuti va letta ad esempio la proposta delle Edizioni Casagrande di Bellinzona, che offrono al pubblico italofono l’elegante volume Poemas de amor di Alfonsina Storni. La Storni nacque a Sala Capriasca nel 1892, e a soli quattro anni seguì i genitori emigranti in Argentina. Fornita di un carattere indomito, e di una coscienza femminile insolita in quegli anni, Alfonsina conobbe le difficoltà e i patimenti di una vita controcorrente. Inquieta, visse tra San Juan, Rosario e Buenos Aires, adattandosi a svolgere un po’ tutti i lavori: da operaia in un berrettificio a sorvegliante scolastica, da corista a cassiera, da impiegata a direttrice di collegio, finché non le riuscì di vivere della sua arte, corrispondente dei principali quotidiani argentini e collaboratrice di importanti riviste letterarie. Insieme con le contemporanee Gabriela Mistral, cilena, e Juana de Ibarbourou, uruguayana, formò la triade più nota della poesia femminile sudamericana del primo 900, riscuotendo ampio successo di critica e di pubblico. Il suo anticonformismo, la sua fervida vitalità e l’intraprendenza intellettuale che la caratterizzarono non bastarono tuttavia a metterla al riparo da crisi depressive e dal suicidio, avvenuto nel 1938: Alfonsina, quarantaseienne, si gettò nell’Atlantico a Mar de Plata. Questa sua scelta, tuttavia, non si può comodamente liquidare come desiderio di annullamento, o volontà di porre termine alla sofferenza, ma va letta come intenzione di fondersi, nel mare, con il tutto (si vedano le poesie Partenza, Dolore, Un cimitero che guarda il mare, Io in fondo al mare, e l’ultimissima Vado a dormire), e necessità di sopravvivere oltre la morte. Già nel 1973 la Fondazione Ticino Nostro aveva dedicato alla poetessa una poderosa antologia, in cui la produzione in versi della Storni veniva classificata tematicamente, secondo un criterio piuttosto discutibile. Sarebbe stato assurdo fare di un’autrice così poco ticinese (come cultura e carattere) e impregnata, invece, di vita argentina, un vessillo di elveticità, e giustamente il prefatore di allora scriveva: «Non si tratta da parte nostra di un omaggio senza provate giustificazioni, si tratta piuttosto di un debito che il paese d’origine intende riconoscere, della sconfessione di una possibile dimenticanza e indifferenza».

La stessa giustificazione vale, a 50 anni di distanza dalla morte della poetessa, per la traduzione e la pubblicazione di questi Poemas de amor, usciti per la prima volta a Buenos Aires nel ’26. Il volume, a cura di Franca Cleis, Marinella Luraschi, Pepita Vera, si apre con un saggio in spagnolo e in italiano della studiosa argentina Beatriz Sarlo che, in maniera ideologizzante e pregnante, ripercorre tutto l’iter poetico della scrittrice, dall’iniziale retorica tardo romantica della prima raccolta, alla gradevole cantabilità delle poesie erotiche e femministe («Io sono come la lupa. Me ne vado sola e rido del branco…»), fino all’abbandono della soggettività per un più accentuato cerebralismo delle ultime prove. Esemplari di questo processo evolutivo sono appunto i Poemas, brevi prose liriche che, se non conoscono la scansione in versi, hanno tuttavia lo stesso incanto e leggerezza delle poesie. La suddivisione dell’opera in quattro momenti (sogno, pienezza, agonia, notte), che acutamente le curatrici attribuiscono alla reminiscenza di un sonetto di Emily Dickinson, ripercorre l’emozione femminile dell’innamoramento, a partire dall’esaltazione vissuta quasi con furore mistico, attraverso la follia consapevole dell’impeto del proprio eros, per arrivare all’umiliazione della preghiera, della questua, e alla notte dell’abbandono, raccontata in un’unica, memorabile, composizione: «Dal tuo essere mortale estraggo ora – ormai distante – l’aeriforme fantasma che coi tuoi occhi guarda e con le tue mani accarezza, ma che non ti appartiene. E’ mio, totalmente mio. Mi rinchiudo con lui nella mia stanza e quando nessuno, nemmeno io, sente e quando nessuno, nemmeno io, vede e quando nessuno, nemmeno io, sa, prendo il fantasma tra le mie braccia e all’antico ritmo del pendolo, lungo, grave, solenne, cullo il vuoto».

 

«Agorà» (Svizzera), 4 gennaio 1989