ALBERTO MORAVIA, LA VITA INTERIORE – BOMPIANI, MILANO 1978

La vita interiore merita un dibattito che superi l’interesse letterario e diventi momento di verifica ideologica, perché questo libro si presenta già da adesso come best-seller, come terreno di scontro tra varie ipotesi interpretative e critiche. Inoltre, dovrebbe essere l’ultimo romanzo di Alberto Moravia (stando alle dichiarazioni dell’autore), cioè di colui che viene considerato il più importante scrittore d’Italia, il narratore per eccellenza della crisi borghese, l’intellettuale che “fa” opinione, che interviene sempre e su tutte le fondamentali questioni del paese. Ebbene, questo suo ultimo libro, mi sembra essere un omaggio che Moravia rende a se stesso e una omaggio reso alla protagonista di tutta la sua opera: la borghesia. Spiegherò il perché. Ne La vita interiore esistono temi e personaggi che sono un po’ la sintesi, la “codificazione” di temi e personaggi moraviani precedenti. Desideria che spia la madre e l’amante di lei che contano i soldi con venerazione sacrale, e che cerca di dissacrare il denaro in maniera piuttosto infantile, è Luca de La disubbidienza, che scopre i genitori davanti alla cassaforte e decide di distruggere i suoi risparmi. Desideria-madre-amante della madre, è quello che esisteva ne Gli indifferenti tra Carla-la madre-Leo. Il rapporto incestuoso con la madre, anche se più larvato, era già in Agostino. Ma tutto ciò, la ripetizione di cose più o meno già dette, è certamente un’operazione legittima in qualsiasi scrittore, e possiamo presumere che Moravia abbia inteso offrirci appunto una “summa” dei suoi argomenti, una carrellata riassuntiva di personaggi e situazioni. Operazione legittima, anche se non particolarmente originale. Criticabile mi sembra invece l’omaggio alla borghesia, sia come protagonista sia come interlocutore (pubblico). Moravia infatti costruisce il suo libro usando tutti gli ingredienti che oggi rendono: c’è perciò molta psicanalisi, c’è un pizzico di marxismo, c’è il femminismo, c’è il rapporto scrittore-testo scritto. Analizziamoli, allora, questi ingredienti. La psicanalisi è strumento essenziale attraverso cui si compone il rapporto tra l’Io dell’autore e la protagonista intervistata: ma gli schemi sono talmente tipici, talmente freudiani da risultare manualistici, e tutto il racconto-intervista ha in realtà il sapore di una confessione cattolicamente intesa, con quel tanto di morbosità insistita che spunta nelle domande provocatorie e quel tanto di masochismo autoflagellante di chi si confessa. Il marxismo c’entra, nel libro, tirato in ballo dalla rivolta studentesca (intuita più attraverso i blue-jeans e le scarpe da tennis che altro) e da sedicenti gruppi rivoluzionari armati. Ma l’immersione nella borghesia è tale che anche il personaggio proletario che dovrebbe contrapporsi a essa, ne risulta (come ha già scritto Pierrot sul QdL) una brutta copia. Al di fuori della classe borghese quindi non esiste nulla, se il proletariato non ha valori che non siano parodie di quelli borghesi, se anche il femminismo sembra non saper dare risposte o indicazioni valide: la protagonista è una donna giovane, Desideria, con un nome che è un augurio e un programma, con un’origine bastarda che potrebbe aiutarla a uscire dalle sue contraddizioni. Eppure del femminismo Desideria non recepisce nulla: non la gioia del sesso che per lei è tormento e ossessione, non la ribellione agli stereotipi in cui è consciamente immersa, non la solidarietà con le altre donne. L’erotismo che è uno dei caratteri dominanti del romanzo, sembra anch’esso rispondere a esigenze extra-testuali: è forse simbolico che non si sia un rapporto amoroso “normale” in tutto il libro. Desideria odia il suo corpo, perciò la continua masturbazione non è mai carezza, bensì violenza, negazione; Desideria tenta a più riprese di prostituirsi, subisce con soddisfazione maniacale lo stupro “liberatorio”; sua madre oscilla tra lesbismo (un lesbismo cattivo, padronale) e ansie di sodomizzazioni; dei tre uomini, uno sodomizza al grido di «Dammi l’America», l’altro -il proletario- è un puttaniere, il terzo è un prostituto. E’ evidente che tutto ciò cerca volutamente di rappresentare la distruzione e la negatività di un mondo, di una cultura in sfacelo; ma le situazioni sono a tal punto esasperate da sembrare false, fittizie, a volte ridicole. Una borghesia, insomma, talmente negativa (stupida, rivoltante, volgare) da risultare banale, non credibile. Infine, l’ultima novità del romanzo, il rapporto con cui lo scrittore si pone davanti al testo, alla narrazione, al personaggio: Desideria gli concede un’intervista che l’autore trascrive con fedeltà oggettiva e neutrale, e dopo 400 pagine lo abbandona reclamando il suo diritto a tornare nel nulla dell’esistenza solo scritta: «La tua immaginazione mi ha bruciata, consumata. Alla fine non esisterò più, se non nella tua scrittura, come impronta, come personaggio».

Ciò farebbe supporre (e neppure tanto improvvisamente, se si riflette ai moduli narrativi che Desideria impiega nella sua pretesa “intervista” raccontata a voce: contrasto che rimane la cosa più interessante del romanzo) che scrittore e Desideria siano la stessa persona, che le conclusioni cui lei approda (non tanto i due omicidi che restano immotivati, non convincenti) siano quelle che Moravia le detta: non c’è soluzione o risposta al negativo, alla crisi della borghesia, che è crisi totale, di tutti. Ho scritto che il romanzo è un omaggio a questa classe (perché nulla esiste all’infuori di essa, e perché per soddisfare precise indicazioni di gusto della borghesia è stato scritto, con minuzia fredda e distaccata) e un omaggio di Moravia a se stesso. Si può concludere che Moravia poteva trattarsi meglio, che speriamo in un altro libro, quello sì «più terribile e necessario».

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 30 agosto 1978