SABINA MOSER, UNA SANTITÀ GENIALE – LE LETTERE, FIRENZE 2024

Sabina Moser (1961), di formazione filosofica e teologica, studia da tempo la figura di Simone Weil, su cui ha pubblicato diversi saggi e volumi. Questo suo ultimo testo, uscito da Le Lettere con prefazione di Marco Vannini, esplora in maniera finora inedita il legame che ha unito la filosofa ebrea francese (1911-1934) a San Francesco, accostando la ricerca severamente razionale di lei, originale pensatrice laica novecentesca, alla fede immediata e limpida del frate di Assisi vissuto sette secoli prima: in entrambi ritroviamo infatti la stessa volontà di adesione alla parola di Gesù e la scelta di un cammino esistenziale di purificazione e riduzione all’essenzialità della vita.

Weil aveva un approccio illuminista alla storia delle religioni, ed era fortemente polemica nei confronti dell’autorità ecclesiastica, Francesco aderiva totalmente al dettato delle Scritture, alla rivelazione cristiana e alla sacralità della Chiesa. Ma pur non conoscendo nello specifico il movimento francescano, Weil aveva provato relativamente a esso una forte attrazione emotiva durante un viaggio in Italia, e così ne scriveva: “Nel 1937 ho trascorso ad Assisi due giorni meravigliosi. Là, mentre ero sola nella piccola cappella romanica del secolo XII di Santa Maria degli Angeli, incomparabile miracolo di purezza, in cui san Francesco ha pregato tanto spesso, qualcosa più forte di me mi ha costretta, per la prima volta in vita mia, a inginocchiarmi”.

Francesco come alter Christus le sembrava incarnare il massimo esempio di vita evangelica, caratterizzato non solo dal rapporto interiore tra l’anima e Dio, ma anche dal profondo desiderio di rinnovare positivamente la comunità umana, attraverso la condivisione degli stessi ideali trasformativi, che nella sua introduzione il Professor Vannini identifica in povertà, umiltà, obbedienza, amicizia fraterna, accettazione della sofferenza, rinuncia a sé stessi, apertura gioiosa alla bellezza del mondo.

Sabina Moser nei cinque capitoli di Una santità geniale (accompagnati da un’appendice con accurate note biografiche, letture di brani originali e un’essenziale bibliografia attinente alle figure dei due protagonisti) sottolinea i tratti caratteriali, intellettuali e di fede che accomunavano o distinguevano Weil e Francesco, entrambi segnati da un’uguale e coerente dedizione alla parola evangelica, seppure nelle sostanziali differenze. Tra queste, prendendo a prestito il titolo di un noto testo della filosofa francese – La Pesanteur et la Grâce –, la gravità che contraddistingueva la ricerca approfondita, colta e tormentata di lei, discordava dalla leggerezza e dalla “perfetta letizia” attraverso cui il santo di Assisi rispondeva al richiamo divino.

La comune aspirazione alla spiritualità che li induceva a una spoliazione dei beni materiali aveva in loro modalità contrapposte: se Francesco aveva scelto di abbracciare positivamente una vita povera e peregrina attraverso una decisione personale e volontaria, Simone riteneva giusto attendere che fossero circostanze costrittive a ridurla in indigenza, abbandonandosi in tal modo alla sola volontà di Dio e rinunciando a imporre il proprio desiderio egoista, convinta che “dire io è mentire”.

Così infatti si esprimeva a questo riguardo: “Sono stata conquistata da san Francesco fin da quando ne ebbi conoscenza… Ho sempre creduto e sperato che la sorte un giorno mi avrebbe spinta a forza in quella condizione di vagabondaggio e mendicità che egli accettò liberamente… Sin dall’adolescenza ambivo al matrimonio di San Francesco con la povertà, ma sentivo che non dovevo essere io a darmi la pena di sposarla, perché un giorno lei stessa sarebbe venuta a prendermi a viva forza”.

Inoltre, non li animava un’uguale visione della fede: se l’assisiate coglieva l’aspetto personale della Provvidenza, Weil ne sottolineava l’impersonalismo, inteso come accettazione della volontà di Dio subìta e non intenzionalmente scelta, in ciò proponendo un’interpretazione stoica della rivelazione cristiana, basata sull’umiltà e la totale obbedienza, in grado di svuotare pensieri e azioni, sottraendoli a ogni imposizione soggettiva. Un’ulteriore difformità caratterizzava le loro esperienze di vita: Francesco diffidava della cultura e della scienza, ritenendole pericolosamente seduttrici e manipolatorie, lontane dalla semplicità e dallo spirito di carità. Simone al contrario era permeata di ogni sapere, conosceva a perfezione diverse lingue moderne e antiche, compreso il sanscrito; era consapevole delle ultime conquiste della fisica e della matematica; penetrava con acume critico sia le sacre scritture sia la filosofia, l’arte e la letteratura greca, con una predilezione particolare verso l’Iliade, e non le era estranea la sapienza orientale.

Cosa tuttavia accomunava queste due figure portatrici di una spiritualità luminosa e radicale, nonostante le evidenti diversità storiche, culturali e caratteriali?

Sabina Moser individua numerosi elementi che permettono di rilevare una consonanza effettiva nel loro agire e pensare, aldilà dei secoli di storia che li dividevano. Entrambi morti in giovane età (Francesco a 44, Simone a 34 anni) consunti dall’inedia, dai sacrifici e dalle malattie, erano attratti dal miracolo della bellezza, ovunque essa si esprimesse. Il primo aveva trovato in gioventù nell’ideale cavalleresco un modello di aristocratica cortesia, liberalità e coraggio disinteressato, che dopo la conversione mantenne depurandolo da ogni materialità nella difesa ammirata della magnificenza del creato e di tutte le creature. Simone era affascinata dalla purezza e armonia espressa dall’arte classica, risultato della perfetta concordanza tra l’elemento sensibile e quello ideale, in grado di volgere l’anima verso l’alto: “La bellezza è veramente, come dice Platone, una incarnazione di Dio”.

Altro fattore che metteva in relazione i due era la comune, profonda disposizione all’imitazione di Cristo, esempio di povertà, umiltà, pazienza, giustizia, compassione e carità cui conformare la propria vita. Un Christus patiens, della Passione e della Crocefissione, definito dalla kénosis (cfr. Fil 2,6-11), cioè dallo svuotamento di ogni forza, potenza e imperiosità, che Francesco intendeva come positivo atto di amore verso le creature, mentre Simone in maniera più radicale indicava come mortificazione, nullificazione dell’io: “per diventare qualcosa di divino, non ho bisogno di uscire dalla mia miseria, vi debbo solo aderire… È al fondo estremo della mia miseria che io tocco Dio”.

Moser si sofferma sul complesso concetto weiliano di de-creazione, processo grazie al quale il nostro io, sparendo, distruggendosi, astenendosi dall’affermarsi nel mondo, scorge un dio che per amore ha abdicato egli stesso alla forza, rinunciando all’onnipotenza, e facendosi uomo ha accettato di scomparire per fare posto a noi creature: “Dio non ha potuto creare che nascondendosi. Altrimenti non ci sarebbe che lui”.

Francesco e Simone hanno entrambi compreso di essere stati chiamati a trasformare, nel segno dell’autentica fede cristiana, il modo di vivere della società in cui erano immersi, rinnovandola alla radice.  La loro santità è consistita nell’operare affinché il mondo fosse prossimo al regno di Dio, promuovendo sentimenti di fratellanza, amicizia e pace, aprendosi alla grazia e alla trascendenza.

Rileggerli oggi significa constatare la necessità di un cristianesimo completamente rinnovato, come auspicava Weil: “Oggi non è sufficiente essere santo: è necessaria la santità che il momento presente esige, una santità nuova, anch’essa senza precedenti […] Un nuovo tipo di santità è qualcosa che scaturisce d’improvviso, una invenzione […] Esige più genio di quanto sia occorso ad Archimede per inventare la meccanica e la fisica: una santità nuova è un’invenzione più prodigiosa […] Il mondo ha bisogno di santi che abbiano genio come una città dove infierisce la peste ha bisogno di medici”.