JEAN BAUDRILLARD, LA SPARIZIONE DELL’ARTE – ABSCONDITA, MILANO 2012

«Si pretende che la grande impresa dell’Occidente sia quella della mercantilizzazione del mondo, di aver abbandonato tutto al destino della merce. È vero, ma bisogna vedere come la grande impresa dell’Occidente sarà stata piuttosto quella dell’estetizzazione del mondo, della sua messa in scena cosmopolita, della sua messa in immagine, della sua organizzazione semiologica… Tutto, anche il più insignificante, il più marginale, il più osceno, si culturalizza, si museifica, si estetizza».

In La sparizione dell’arte il filosofo e semiologo francese Jean Baudrillard (1929-2007) ribadisce la sua provocatoria tesi riguardante la minaccia che incombe sulla nostra contemporaneità: l’estetizzazione di tutto il reale. Ogni cosa prodotta viene utilizzata, sfruttata, sacralizzata nell’arte. Non solo nei musei e nelle gallerie, nei luoghi deputati della cultura: ma ovunque, nelle strade, sui muri, nella banalità degli oggetti più comuni. Assistiamo a «una proliferazione di segni all’infinito, riciclaggio all’infinito di forme passate o attuali (il grado Xerox della cultura), ma dove non esiste più alcuna regola fondamentale, alcun criterio di giudizio, alcun piacere». In queste due conferenze tenute nel 1987, e rivolte soprattutto ad utenti-artisti, o comunque al mondo culturale che gravitava intorno al mercato dell’arte, Baudrillard sottolineava il paradosso a cui assistiamo da alcuni decenni: a un sostanziale immobilismo, a un’inerzia, a una mancanza di ispirazione e alla mancanza di profondità e di originalità di chi opera artisticamente, corrisponde una frenesia produttiva, un movimento convulsivo e proliferante dei prodotti artistici. Tutto diventa arte, «tutto è estetico, niente è più bello né brutto, e l’arte stessa sparisce».

La stessa cosa succede nella politica e nella sessualità, che si estetizzano nello spettacolo, nella pubblicità e nella pornografia, perdendo l’effettivo contatto con la realtà, nella nostra era «del simulacro e della simulazione», delle fake news imperanti, in cui il vero non si distingue più dal falso, e il veicolo del messaggio diventa più importante del contenuto. Forse il simbolo più rappresentativo di questa nuova funzione dell’arte è stato Andy Warhol: «Warhol non appartiene alla storia dell’arte. Appartiene al mondo, molto semplicemente. Non lo rappresenta, ne è un frammento, un frammento allo stato puro. Ecco perché, visto nella prospettiva dell’arte, egli può essere deludente. Visto come rifrazione del nostro mondo, è di un’evidenza perfetta». L’arte, perduta la sua autonomia creativa, sembra destinata a sparire, o a definirsi come pura tecnica, industria, artigianato rituale, diventando «solo una parentesi nella storia dell’umanità». Se nella mistificazione orgiastica di ciò che appare finisce per sparire la realtà, forse sarà necessario tornare all’evidenza del mondo.

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23 gennaio 2018