SIRO ANGELI, IL GRILLO DELLA SUBURRA – SCHEIWILLER, MILANO 1990

Siro Angeli, scomparso a Tolmezzo lo scorso agosto, era autore prolifico e multiforme: i suoi interessi spaziavano dalla poesia al teatro al cinema (fu sceneggiatore di una quindicina di film di successo: dell’ultimo, Maria Zef, di Vittorio Cottafavi, aveva interpretato anche uno dei ruoli principali) al romanzo. Come narratore aveva pubblicato presso le Edizioni Paoline Figlio dell’uomo, romanzo-saggio basato su una coraggiosa ipotesi teologica, che gli era valso nel dicembre del ’90 il Premio Camposampiero.
Vorrei qui occuparmi del suo ultimo volume di poesie, dedicandogli una recensione che ho a lungo evitato e rimosso, e che sarà scritta con affettuosa nostalgia verso chi mi è stato vicino per più di vent’anni, con stima per un uomo di cultura raffinata e vasta, di moralità rigida e scabra.
Il grillo della Suburra raccoglie versi scritti da Angeli nell’arco di un ventennio, dal ’55 al ’75, anni da lui vissuti a Roma alle prese con una sofferta situazione familiare e con l’impegnativa responsabilità di alto funzionario radiofonico. Il volume, pubblicato nel ’75 da Barulli, con una partecipe e sapiente prefazione di Alfonso Gatto, non fu mai distribuito nelle librerie per varie vicissitudini editoriali, ma arrivò comunque finalista al Premio Viareggio di quell’anno.
Ristampato nel ’90, grazie anche all’interessamento di Dante Isella, nella preziosa collana All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, era stato da Angeli completamente rivisto e riscritto, con un’ossessiva attenzione alle varianti anche minime, e un incessante lavoro di lima.
Consta di tre parti: Il grillo della Suburra, poemetto in nove sezioni di novenari, San Pietro in Vincoli e altre poesie, sempre in forme chiuse, ma spazianti dagli endecasillabi ai settenari, Approssimazione all’arte poetica, in settenari. Del poemetto che dà il titolo al volume, ostico -quasi- alla prima lettura, «impervio in virtù della sua chiarezza», come suggeriva Gatto, basti qui accennare alla rigidità formale in cui si trova, per così dire, ingabbiato: nove sezioni di cinque o più strofe di sette versi, tutti in novenari, con un gioco elegantissimo di rime interne e esterne, con un’attenzione quasi barocca alla scelta di vocaboli inusuali e inquietanti. Rigidità formale che rimanda e sottende un’altrettanto e forse più severa rigidità morale. Molto prima di qualsivoglia risveglio verde dei nostri ecologisti dell’ultima ora, Angeli chiama un grillo «non sai come giunto / dall’ariosità di una tana / agreste o di un’aia quieta / qui in un’estranea foresta / di pietra che ha nome di città» a testimone inorridito e inadeguato del degrado umano e ambientale cui è arrivata la metropoli odierna, coacervo di abitudini corrosive, di veleni fisici e psicologici, di aggressioni visive e uditive. Testimone di ciò, ma anche emblema di una fisicità buona, di una natura da recuperare, di una poesia non riconosciuta ma sempre presente nelle cose, il grillo è montalianamente messaggero di salvezza, cristianamente simbolo di speranza e redenzione. Nell’ultima sezione, classicamente intitolata Approssimazioni all’arte poetica, sono quindici i componimenti brevi in settenari cui Angeli affida il compito di esprimere il suo complesso rapporto con il “mestiere” di poeta, inteso sempre da lui come lavoro assiduo sulla parola: che va cercata, scelta tra tante, e poi lavorata limata incastonata come una gemma nel giusto contesto.
C’era, in Angeli, figlio di un muratore emigrato in Francia e di una contadina, questo rispetto sacro per la magia della creazione intellettuale, mista a una passione artigianale per la fatica fisica dello scrivere, e a una diffidenza tutta carnica verso la faciloneria delle improvvisazioni mistificanti. Tutto questo lo rendeva durissimo nei riguardi degli altri e di se stesso, e il dialogo che fingeva nei versi con un “tu”, lettore solo supposto, era in realtà un monologo. A se stesso, quindi, rivolgeva l’invito a non scrivere: «Se ti resta un talento / di tanto spreco fatto / sul bianco delle pagine, / spendilo in vita: l’atto / può adeguarsi all’intento, / non il segno all’immagine», «La verità, la vita / non fanno vive e vere / le parole che scrivi», «Dato che prima o poi, / anche senza motivi / come avviene tra amici, / tradisci o ti tradiscono / le parole che scrivi / quanto quelle che dici, / unico scampo al rischio / è il tacere, se puoi».
Ma come non riusciva a non parlare, Angeli non riusciva a non scrivere: e se con pessimismo attuale e metafisico insieme considerava il tradimento della scrittura rispetto al pensiero o all’azione, tuttavia ad essa continuava ad attribuire la speranza di un riscatto: «Molto ti sembrerà / se fra tante parole / tue da spazzare via / almeno una racchiuda // in sé l’ombra che dia / la speranza del sole, / l’errore che ti illuda / di qualche verità», e ancora: «Un indizio dell’eden / prima della caduta / dalle parole ambivi. // Ora ti basta chiedere / loro quanto ti aiuta / a vivere tra i vivi».
Nella sezione centrale del libro, San Pietro in Vincoli, sono raccolte singole poesie, più sciolte e abbandonate rispetto a quelle che abbiamo appena preso in considerazione. Ritratti di persone e ambienti familiari (chiese, fiumi, amici, e poi spazzini, fantesche, pannocchie), ma soprattutto versi indaganti il mistero dell’essere, del vivere qui e ora. Si tratta in qualche modo di poesie filosofiche, ma non intellettuali: in esse la razionalità sembra cedere il posto a un’istintualità fisica positiva, ottimista. Bergsonianamente, Siro Angeli credeva nell’irrompere del nuovo, del caso, dell’imprevisto, a vanificare ogni costruzione simmetrica della necessità: credeva nel miracolo che può accadere a tutti, ogni giorno, modificando il già scritto. Per cui, tra lo sparo e il raggiungimento del bersaglio, voleva potersi affidare alla possibilità di uno scarto della pallottola, o alla stravolgente autonomia di un refuso sulle bozze di stampa, o alla non necessarietà delle scadenze temporali; auspicando «il nascere di una nuova / stagione in un altro universo / dove il conto non torni esatto».
Scriveva Gatto: «Questa poesia di Angeli, lontana da ogni remissività, è una sentenza contro il numero, l’estrema salvezza di un filo superstite». Da tali premesse teoriche derivava un insegnamento di vita: «tu lascia che domani / come improvvisi scrosci / di pioggia sulla via / ti colgano gli eventi», «Meglio se a passi discontinui / procedi, quasi allo sbaraglio , / lasciando che qualcosa s’insinui / tra lo scopo e te», «Non ridurre allo scatto / d’un congegno gli eventi». Polemico contro i ragionieri dell’esistere, che misurano i propri passi sui listini di borsa, asseriva: «lascia il calcolo esatto / di mezzi e fini, a trarne / utile e vanto, ad altri».
Il volersi giocare, con azzardo, la vita, non era solo atteggiamento mentale: all’età in cui ci si pensiona era stato capace di inventarsi una nuova esistenza, abbandonando la Rai e Roma, trasferendosi a Zurigo, offrendo vita nuova ai suoi anni. Un miracolo, un regalo del destino, amava definire la nascita tardiva delle nostre bambine: sicuro che se i suoi occhi si fossero chiusi, altri occhi, in altro modo suoi, sarebbero rimasti aperti sul futuro, meravigliati e grati di esserci.

 

«L’Arena», 24 febbraio 1992