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MAESTRI

MACHADO

POETA, NEL TRAMONTO

Nuda è la terra, e l’anima
ulula contro il pallido orizzonte
come lupa famelica. Che cerchi,
poeta, nel tramonto?

Amaro camminare, perché pesa
il cammino sul cuore. Il vento freddo,

e la notte che giunge, e l’amarezza
della distanza… Sul cammino bianco,
alberi che nereggiano stecchiti;

sopra i monti lontani sangue ed oro…
Morto è il sole… Che cerchi,
poeta, nel tramonto?

 

Antonio Machado (1875-1939)

RECENSIONI

TEMPORELLI

ANDREA TEMPORELLI, IL CIELO DI MARTE – EINAUDI, TORINO 2005

In questo volume di versi pubblicato da Einaudi nel 2005, Andrea Temporelli  (Borgomanero, 1973) rivela sia il suo debito verso la tradizione letteraria dal nostro dopoguerra in poi, sia l’originalità della sua poetica, decisamente e coraggiosamente orientata verso la meditazione filosofica e una narratività modulata ritmicamente. Molte delle trentuno composizioni presenti iniziano e terminano con endecasillabi assolutamente canonici e musicali («Poiché per lungo tempo ti ho aspettata», «Trattarla bene occorre questa soglia», «la migrazione è appena cominciata»…), e molte sono anche le cadenze ereditate dai classici del novecento. Senz’altro Montale («la voce / che seppi acerba»», «Lo so, non è il finale che vorresti», «e tu ne hai perso / il codice per sempre»), ma anche i lombardi (Sereni, Erba, soprattutto: ma con meno attenzione al paesaggio, e più pensierosa introspezione), e forse anche il Luzi degli anni ’60, con i suoi dialoghi ideologici, gli scandagli psicologici tra colpe, rimorsi e assoluzioni. Nessuna di queste poesie termina col punto fermo, ad evidenziare la volontà dell’autore di sottolineare una continuità formale e contenutistica, una coerenza di espressione che percorre l’intera raccolta: assolutamente omogenea sia nella lunghezza distesa e argomentativa delle varie poesie, sia nel respiro musicale che le attraversa. Eppure non troviamo in esse l’abbandono esplicito alla cantabilità, ma sempre un pudico correggersi nella direzione del controllo intellettuale, del richiamo etico ed esigente alla verità della scrittura. I temi trattati sono diversi: l’amore, ovviamente, ma lontano da ogni sdolcinato romanticismo ( da leggere la splendida Canzone dello sposo); l’infanzia e le case abitate; gli affetti familiari ( padri invecchiati e figli a cui cantare ninne nanne); gli amici, velleitari cospiratori di rivoluzioni solo immaginate («Uno direbbe che quei tre seduti / al tavolo del bar / siano sul punto di giocarsi l’anima»); la scuola e l’insegnamento vissuto come impegno e missione («questo mestiere povero / e splendido»), le partenze e i ritorni, i tradimenti e le sconfitte («Mai sarò pronto al grido di vittoria»). Ma senz’altro il motivo per eccellenza che attraversa la scrittura di Temporelli è l’interrogarsi assiduo e inquieto intorno al mistero dell’esistenza, alle sue domande perenni («dove affonda l’uncino / del punto interrogativo?»), insieme al fastidio verso chi, montalianamente, «se ne va sicuro» : «colui che penetra / la valle senza dubbi e senza fede». Il poeta ha quindi un dovere, non solo politico e civile (contro «il volto berlusco» dell’economia), ma propriamente morale : denunciare la banalità del male  («Fanne concime, adesso, / su, fanne sentire l’odore atroce», «fa’ addormentare i potenti del mondo»), e preservare l’innocenza dell’attesa («Ciò che importa davvero / è stare eterni e mortali nello sguardo / del bambino che osserva, da un baluardo / di carne e ossa e sangue, / l’infinito indugiare in un sentiero»). Allora, la religione di questi nostri giorni impoetici deve essere non tanto la devozione ipocrita a un dio di false profezie, bensì l’ostinato incardinarsi del sentimento intorno alla parola “pietà”: verso gli uomini e le cose, la natura e le idee, i peccati o l’esibita santità. Il dio di tutti è quindi il «Dio delle discoteche e delle edicole, / padre delle cubiste / madre dei buttafuori»: in un cielo di Marte che è sì il pianeta «dell’universo vergine e inondato / di luce», ma è anche la divinità pagana, che Temporelli non riconosce più come dio della guerra, bensì come il dio dei campi, benigno «oracolo di padri contadini», trasformato ormai e imbestialito attraverso le vicende di una storia collettiva, colpevole e sanguinaria. Però da perdonare, da illuminare poeticamente, sapendo «che il senso intero / era già lì per te, da custodire, / gratis, semplicemente».

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Il-cielo-di-Marte-Andrea.html;          11 settembre 2015

 

 

RECENSIONI

HIGHSMITH

PATRICIA HIGHSMITH, ACQUE PROFONDE – BOMPIANI,MILANO 1989

 

Gli scrittori americani hanno in genere, da noi, molto successo, e non solo in questi ultimi anni – a partire dall’espandersi della recente ondata minimale dei minimalisti -, bensì dagli anni 20-30 fino a oggi. Forse piacciono tanto perché esportano, prima ancora che uno stile, il loro “american way of life” (quindi splendide bionde idiote, splendide macchine ruggenti, splendidi intrecci narrativi intrecciati); o forse perché si leggono in un giorno, piacevolmente, senza impegnare tanto le meningi. Proprio per le stesse ragioni, però, alcuni lettori (e la sottoscritta tra questi) non sopportano i loro romanzi: si irritano ogni volta che un personaggio esclama “Cristo!” mordicchiandosi le labbra, si incavolano alla prima risata isterica cui si abbandona una donna rovesciando la lunga chioma sulle spalle, sbattono definitivamente il libro da parte non appena il protagonista si mesce un long drink per “sorseggiarlo”. Per quello che riguarda il libro di cui sto per parlare, la tentazione di lasciar perdere mi è piombata già alla quindicesima riga, quando mi sono imbattuta nella fatidica frase «Alzò con calma il bicchiere di scotch allungato con acqua e lo sorseggiò». Ho vinto la tentazione e ho proseguito nella lettura fino alla fine, e una volta tanto non me ne sono pentita. Acque profonde è uno dei primi romanzi gialli scritti da Patricia Highsmith, autrice di grande successo popolare, tanto famosa quanto schiva e poco interessata a coltivare rapporti sociali e pubbliche relazioni: vive qui in Svizzera in una casa di montagna riattata, dedicandosi ai suoi romanzi e a piccoli lavori di falegnameria. Dai suoi libri sono stati tratti film famosi, come  L’altro uomo di Alfred Hitchcock e  L’amico americano di Wim Wenders, grazie alla trama fittissima di avvenimenti e al notevole spessore psicologico dei personaggi, elementi che ovviamente sono di grande aiuto agli sceneggiatori. Nel caso di  Acque profonde, il contrasto che fa scattare la situazione coinvolgendo l’attenzione di chi legge è, oltre a quello -stridente- tra i due protagonisti, quello più subdolo ma gravido di conseguenze tra l’indole pacifica del protagonista maschile e le azioni che si trova a compiere. Victor Von Allen, da tutti affettuosamente chiamato Vic, è un uomo tranquillo perché non ama le riunioni mondane, le feste da ballo, la musica leggera, preferendo invece dedicarsi a hobby innocenti e solitari quali l’allevamento delle lumache o la falegnameria o la lettura; originale perché, pur potendo vivere di rendita, si ostina a lavorare in una tipografia che non gli rende nulla, ama studiare le lingue antiche, veste male, viaggia in uno scassato furgoncino, dedica moltissimo tempo all’educazione dell’adorata figlioletta Trixie, e soprattutto perché sopporta con incredibile pazienza ed eccessiva comprensione gli innumerevoli e umilianti tradimenti della moglie, e il suo ottuso sadismo. Melinda Von Allen è una giovane e inquieta donna di provincia americana, sempre insoddisfatta e alla ricerca di nuove emozioni, molto convinta del suo fascino e molto annoiata del tran-tran domestico, cui cerca di sfuggire affidandosi all’alcol e a continue avventure con i tipi più disparati. Melinda invita gli amanti in casa, li trattiene a cena fino a notte fonda, si stordisce con loro di whisky e musica davanti agli occhi impotenti e vili del marito. Gli amici della coppia, tipici rappresentanti di una solida e conformista borghesia della provincia americana, osservano scandalizzati ma solidali con Vic il protrarsi mortificante di questa situazione, finché interviene qualcosa a modificare la scena. Per scherzo, Vic fa credere a un giovane amante di Melinda di aver ucciso uno dei suoi precedenti amici: la voce, poco controllata e poco credibile, si sparge tuttavia nella cittadina, riuscendo però solo a creare nella gente una catena di fiducioso sostegno e incrollabile amicizia con il marito tradito. Catena che non si spezza nemmeno quando altri due amanti di Melinda muoiono in maniera misteriosa. Patricia Highsmith è maestra nel trasformare i suoi personaggi in vittime di un meccanismo mentale oscuro e di coincidenze fatali, costringendoli in un ritmo serrato e incalzante di eventi che non permette loro alcuna libertà di manovra. Non rivelerò, chiaramente, come si conclude il romanzo: l’ho letto in tre ore, rimandando gli ultimi due capitoli a un risveglio più tranquillo, per evitare sonni agitati. Povera Melinda, povero Vic. Poveri noi che ci leggiamo i romanzi americani come i loro personaggi si scolano gli scotch.

 

«Agorà» (Svizzera), 6 dicembre 1989

RECENSIONI

LAMARQUE

VIVIAN LAMARQUE, POESIE DANDO DEL LEI – GARZANTI, MILANO 1989

Due sono i nomi di rilievo nella nuova poesia femminile italiana di questo decennio, non a caso gli unici citati da Maurizio Cucchi nel suo Dizionario della poesia contemporanea: Patrizia Valduga (nata nel 1953) e Vivian Lamarque (nata nel 1946). Si tratta di due poetesse in qualche modo antitetiche, che tuttavia hanno in comune il fatto di possedere un timbro di scrittura inconfondibile e una notevole abilità nel gestire la propria forte personalità poetica. Più decisa nello sperimentare moduli linguistici innovativi e tematiche provocatorie, più “colta” nel mescolare ascendenze remote e nell’esibire plagi recenti, Patrizia Valduga ha rivelato un suo “animus” di poeta razionale talvolta esasperante e sempre esacerbato, mentre Vivian Lamarque mostra più direttamente (senza ricorrere a paludamenti o a sovrastrutture intellettuali) la sua “anima” sicuramente femminile, istintiva. Conosco Vivian da parecchi anni e ne vorrei qui parlare con l’affetto che ha contraddistinto i nostri rapporti, trasformandoli in un’amicizia discreta, non invadente: da quando nell’81 mi rispose per ringraziarmi di una recensione al suo libro Teresino (premio Viareggio opera prima), contestandomi gentilmente l’unico appunto negativo che le avevo mosso. Da allora ci siamo riviste più volte, a Milano o a Zurigo, io rarefacendo le mie discese in Lombardia, lei intensificando le sue visite in Svizzera, soprattutto in omaggio al mito di C.G. Jung. In questi anni Vivian Lamarque si è fatta conoscere anche come autrice di fiabe e di ninnenanne, di traduzioni dal francese e di altri due volumi di versi: Il signore d’oro (Crocetti ’86), forse il suo libro migliore, e l’ultimo Poesie dando del lei (Garzanti ’89), entrambi frutto di un travagliato ed esaltante percorso di analisi junghiana. Il signore d’oro, il dio a cui si rivolge per essere salvata, è ovviamente l’analista, divenuto catalizzatore di ogni premura affettiva, di tutto il bene sperato e di tutto il male patito. Al suo “Dottore”, a questa sua nuova “Madre”, cui obbligatoriamente si deve avvicinare “dando del lei” – cioè accettando un diaframma di professionale distacco -, Vivian dedica più di mille poesie, rimaste inedite tranne una settantina che appunto Garzanti propone nella sua collana di agili volumetti dalla copertina argentea. La faccia dell’autrice sbuca a fare cucù sotto il titolo e il suo nome: ed è un cucù sorridente e disperato insieme, come il tono dei suoi versi; leggero, aereo, ma di una gaiezza d’improvviso spezzata, infranta, di una felicità straziata. Forse è il caso di esemplificare con alcune poesie, da cui apparirà subito chiara l’intensità fulminea dei suoi ingenui entusiasmi e delle sterzate dolorosamente pudiche.

La mia superficie è felice,
ma venga venga a vedere
sotto la vernice.

Credevo non mi amasse
perché è vietato
forse invece non mi ama
perché non è innamorato.

Appena cominciata
si è già disperata
la mia giornata.

Per essere felice
senza disturbare
al Suo numero
leggermente sbagliato
devo telefonare.

Giustamente nell’81 Vittorio Sereni aveva parlato per la poesia della Lamarque di «repentini rovesciamenti di fronte, per cui a volte due versi a chiusura di una cantilena quanto mai puerile arrivano imprevisti come una coltellata». La protagonista di questi versi, così scopertamente autobiografici, si offre al lettore con un candore disarmato, davvero puerile, di bambina che supplica («Sorpresa! / Attraverso il Suo finestrino abbassato / un furtivo sacchetto di pane fresco fresco / ho infilato… / La prego diventi innamorato!»). Ma, a proposito dell’infantilità di questo atteggiamento poetico, forse che i bambini non sanno stupirci con i loro imprevedibili passaggi dal riso al pianto, le loro illuminanti associazioni, la loro comprensione profonda e mai ipocrita del dolore? C’è tutta una tradizione letteraria, una vena nella nostra poesia, da S. Francesco ad Ariosto a Gozzano, che privilegia l’ironia rispetto al dramma, la leggerezza rispetto all’angoscia: quali nomi fare, allora, come ascendenti della poesia lamarquiana? Senz’altro alcune cose di Saba, molti versi di Penna (anche lui, così struggente nella sua fiduciosa scalfibilità): però non mi viene in mente nessun nome di donna, se non alcuni frammenti di Saffo, i più gioiosi… C’è un rischio che corre questa poesia, ed è quello di inchiodare l’autrice a un cliché riduttivo, da “mondo dei balocchi”, come suggeriscono esplicitamente alcuni suoi versi; oppure, che il lettore possa sospettarvi un autocompiacimento atteggiato. In realtà, la faccia di Vivian che sbuca ammiccante dal libro, ha la stessa espressione della sua faccia vera, quando fa capolino dal finestrino del treno; i suoi entusiasmi letterari rispecchiano quelli a cui si lascia andare davanti alla torta di fragole e panna preparata per il suo compleanno, o in giro per Zurigo con la Polaroid pronta allo scatto. Davvero Vivian ricorda un personaggio delle fiabe, forse la fatina di Peter Pan, facile preda di lacrime e sorrisi, di voli alle stelle e inabissamenti sottomarini. Proprio così, stupite di esistere, bambine, sono le anime dei poeti.

«Agorà» (Svizzera), 13 dicembre 1989

RECENSIONI

LATTMANN

SILVANA LATTMANN, LA FAVOLA DEL POETA, DELLA PRINCIPESSA, DELLA PAROLA E DEL GERUNDIO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1989

Recensire dei racconti è sempre difficile: arduo recuperare un filo comune sotteso a vicende, ambienti e personaggi diversi, problematico trarne un’interpretazione univoca, senza tuttavia tralasciare di mettere in luce le varie sfaccettature di una stessa esperienza di scrittura. Nel caso del volume di cui mi accingo a parlare ora, si aggiunge a tali difficoltà un’impressione (probabilmente soggettiva, ma non per questo trascurabile) di voluta ambiguità e provocazione, che libro e autrice sembrano voler insinuare tra sé e chi legge. Già dal titolo, così lungo, ammiccante e enigmatico, oscillante tra tradizione (favola, principessa) e novità (poeta, gerundio) fino alle scarne – scheletriche!- note biografiche dei risvolto di copertina, che nulla lasciano trapelare dell’autrice se non che «dal 1954 è cittadina svizzera», quest’ultimo volume di Silvana Lattmann dichiara orgogliosamente la propria osticità. Un libro di difficile lettura, che riesce sempre a insinuare nel lettore il dubbio di non aver prestato abbastanza attenzione alle allusioni, ai rimandi interni, di non essere abbastanza colto o sensibile; e lo costringe quindi a tornare spesso su pagine già lette, a rimeditarle, a interrogarsi. In genere, non sono i volumi di narrativa che chiedono uno sforzo di decodificazione e ricostruzione tanto partecipe: sono le opere di pensiero, filosofiche o religiose, quando toccano gli argomenti “eterni”; oppure ancora la poesia, così frequentemente oscura, oracolare, densa di significati da inverare. Nei quindici racconti di Silvana Lattmann si intuisce un’assoluta sfiducia nella possibilità di comunicare – attraverso la scrittura – una qualsiasi esperienza, e un’ altrettanto assoluta, insopprimibile esigenza di verificare le proprie emozioni, i propri ricordi nella concretezza della parola stampata: «Un rincrescimento la penetrò, la malinconia sulla chiusa incomunicabilità dei due spazi. Una rete di separazione lasciava passare solo intenzioni distorte (pag. 54)».

L’illusione di comunicare con i propri simili è pura finzione, non esistono infatti situazioni concrete da raccontare, o personaggi da descrivere. I gesti sono rallentati, le parole rarefatte, la natura si adegua, tormentosa, ai grovigli e ai travagli di chi la osserva. Domina queste “storie”, come ama chiamarle l’autrice, l’idea di uno spazio e di un tempo costretti a limitarsi in dimensioni umane, mentre aspirerebbero a un assoluto senza confini. Continui i riferimenti a linee, spigoli, superfici che ingabbiano il reale cercando di razionalizzarlo, come in uno dei racconti più riusciti (La casa), in cui un’abitazione si personalizza reagendo con simpatie o idiosincrasie molto umane alla presenza di chi la abita. Ossessivi sono i riferimenti all’assenza, al vuoto, alla mancanza: concetti, questi, in qualche modo catalizzati nel reiterato riproporsi della parole «buco», presente in quasi ogni racconto, nelle più varie accezioni. Costante è anche il ricorso a metafore, tra cui la più incalzante è quella dell’angelo come presenza salvifica, o dell’arlecchino come ingenuità e freschezza infantile. Le poche presenze umane sono figure femminili, parentali (sorella, madre, nonna), scorporate perché ormai lontane, morte, eppure effuse tutt’intorno, anch’esse metafora di una solidarietà affettuosa ma irrecuperabile. C’è anche, vaga, una figura maschile, di un poeta amico (Mario Luzi?), confessore e consigliere, ma pure lontano, evanescente. Questi rari punti focali appaiono però diluiti in una prosa visionaria e impalpabile, in un’estasi compiaciuta e – come tutte le esaltazioni intellettuali – profondamente aristocratica. Lo si intuisce bene nel racconto finale, che dà il titolo al volume, e ha le cadenze della narrativa favolistica, corrette tuttavia da toni ironicamente didascalici: uno scherzo, una metafora della parola scritta che accosta temi solenni e particolari grotteschi o banali, giocando con l’irrealtà e sbeffeggiando qualsiasi dato materiale e logico. Giustamente osserva Pio Fontana nella sua prefazione che qui «la ricerca della Lattmann diventa soprattutto ricerca linguistica, come lavoro onirico e visionario, visitazione ossessiva ed esorcismo, viaggio iniziatico che trova nel suo stesso ‘procedere confuso’ un senso e una ragione d’essere». Un viaggio per pochi, con trabocchetti insidiosi, sempre nell’attesa di un evento finale che tutto spieghi, tutto chiarisca.

 

«Agorà» (Svizzera), 4 ottobre 1989

RECENSIONI

HAND

DAVID J. HAND, IL CASO NON ESISTE – BUR RIZZOLI, MILANO 2014

Con una divertente prefazione del giallista e chimico Marco Malvaldi, Rizzoli propone ai lettori un volume di divulgazione scientifica del matematico britannico David J.Hand, che ci orienta su concetti di non facile assimilazione quali il caso, la probabilità, l’inevitabilità. «Questo libro parla di eventi straordinariamente improbabili. Parla delle ragioni per cui accadono cose incredibilmente inverosimili. Di più: parla delle ragioni per cui continuano ad accadere, ancora e ancora, e ancora».

È successo a tutti noi, suppongo, di rimanere increduli e forse un po’ allarmati davanti a coincidenze impreviste e spiazzanti (casi di telepatia, incidenti ripetuti, oggetti persi e ritrovati, incontri inattesi…), al punto da farci interrogare su quali influenze invisibili governino il corso delle cose. L’autore riporta esempi di avvenimenti incredibili capitati sia a gente comune sia a persone famose e indubbiamente attendibili, che potrebbero indurci a supporre l’esistenza di misteriose entità in grado di governare e dirigere i nostri comportamenti e pensieri da un ipotetico aldilà. In generale, ciò che ci appare razionalmente incomprensibile ci mette a disagio, e tendiamo a voler razionalizzare anche l’inspiegabile. Vorremmo poter sempre individuare nelle nostre vite degli schemi regolari, sequenze verificabili di causa-effetto che possano escludere la casualità o l’irrazionalità.

«L’istinto primario che porta l’uomo a cercare sicurezza e protezione induce in noi un’inquietudine di fondo all’idea che gli eventi possano verificarsi per puro caso… Per esempio, potrei considerare il fatto di essere inciampato su un sampietrino dopo aver visto un gatto nero come la prova provata che vedere un gatto nero porta male, ignorando tutti i casi in cui ho visto un gatto nero e non sono inciampato».

Da scienziato titolare di una cattedra universitaria di statistica, David J. Hand osserva con estremo scetticismo (impegnandosi in una demolizione razionale) qualsiasi atteggiamento superstizioso, la credenza nei miracoli, le profezie, la parapsicologia, prendendosela anche con obiettivi illustri, quali lo psicanalista Carl Gustav Jung, troppo propenso a invocare il soprannaturale anche di fronte a fenomeni scientificamente spiegabilissimi. Sincronicità e coincidenze sono eventi concomitanti che ci sorprendono perché li percepiamo come significativamente collegati, quando in realtà non hanno alcuna connessione causale evidente, e derivano solo dal caso: e la probabilità non è una proprietà del mondo esterno, ma piuttosto una caratteristica del modo in cui ragioniamo sul mondo. Esiste una possibilità su 14 milioni che una persona vinca al jackpot: effettivamente c’è sempre un fortunato, ma ci sono anche 13.999.999 che non ci azzeccano…La rivoluzione scientifica che all’inizio del ‘900 ha segnato il passaggio dall’universo meccanicistico e deterministico, regolato da leggi ferree, all’universo probabilistico dominato dal caso e dall’incertezza (in cui si sono affacciate le affascinanti teorie della fisica quantistica) non è ancora riuscita a scalfire una diffusa mentalità acriticamente fideistica e superstiziosa. Con questo volume, David J. Hand ci accompagna gradatamente a scoprire quali leggi, certamente non casuali, regolano il caso: la legge dell’inevitabilità, dei numeri davvero grandi, della selezione, della prossimità sufficiente, dell’improbabilità, aiutandoci a riformulare una nuova visione della nostra mente, della natura, dell’universo.

 

© Riproduzione riservata          

www.sololibri.net/Il-caso-non-esiste-David-J-Hand.html       8 settembre 2015

RECENSIONI

STORNI

ALFONSINA STORNI, POEMAS DE AMOR – CASAGRANDE, BELLINZONA 1988

Il Ticino è terra di frontiera e, come tale, ha ovviamente elaborato una cultura di frontiera, in bilico sempre tra l’attrazione – e il senso di inferiorità – per ciò che è diverso, pur essendo vicino, e il rifiuto del confronto, con la conseguente chiusura e provincializzazione. Va dato atto a questo Cantone, tuttavia, di avere negli ultimi decenni cercato ostinatamente una terza via alla riscoperta della propria identità, alla modulazione di accenti culturalmente nuovi. Ne sono una riprova i vivaci fermenti che animano le città ticinesi in campo editoriale, giornalistico, cinematografico e televisivo, ma anche sociale e di costume. A questi sforzi noi italiani in Svizzera dovremmo guardare con maggiore interesse e simpatia, cominciando magari a studiare gli autori ticinesi più noti e le nuove promesse con l’attenzione che meritano. Nell’ottica di un recupero di autori sottovalutati o misconosciuti va letta ad esempio la proposta delle Edizioni Casagrande di Bellinzona, che offrono al pubblico italofono l’elegante volume Poemas de amor di Alfonsina Storni. La Storni nacque a Sala Capriasca nel 1892, e a soli quattro anni seguì i genitori emigranti in Argentina. Fornita di un carattere indomito, e di una coscienza femminile insolita in quegli anni, Alfonsina conobbe le difficoltà e i patimenti di una vita controcorrente. Inquieta, visse tra San Juan, Rosario e Buenos Aires, adattandosi a svolgere un po’ tutti i lavori: da operaia in un berrettificio a sorvegliante scolastica, da corista a cassiera, da impiegata a direttrice di collegio, finché non le riuscì di vivere della sua arte, corrispondente dei principali quotidiani argentini e collaboratrice di importanti riviste letterarie. Insieme con le contemporanee Gabriela Mistral, cilena, e Juana de Ibarbourou, uruguayana, formò la triade più nota della poesia femminile sudamericana del primo 900, riscuotendo ampio successo di critica e di pubblico. Il suo anticonformismo, la sua fervida vitalità e l’intraprendenza intellettuale che la caratterizzarono non bastarono tuttavia a metterla al riparo da crisi depressive e dal suicidio, avvenuto nel 1938: Alfonsina, quarantaseienne, si gettò nell’Atlantico a Mar de Plata. Questa sua scelta, tuttavia, non si può comodamente liquidare come desiderio di annullamento, o volontà di porre termine alla sofferenza, ma va letta come intenzione di fondersi, nel mare, con il tutto (si vedano le poesie Partenza, Dolore, Un cimitero che guarda il mare, Io in fondo al mare, e l’ultimissima Vado a dormire), e necessità di sopravvivere oltre la morte. Già nel 1973 la Fondazione Ticino Nostro aveva dedicato alla poetessa una poderosa antologia, in cui la produzione in versi della Storni veniva classificata tematicamente, secondo un criterio piuttosto discutibile. Sarebbe stato assurdo fare di un’autrice così poco ticinese (come cultura e carattere) e impregnata, invece, di vita argentina, un vessillo di elveticità, e giustamente il prefatore di allora scriveva: «Non si tratta da parte nostra di un omaggio senza provate giustificazioni, si tratta piuttosto di un debito che il paese d’origine intende riconoscere, della sconfessione di una possibile dimenticanza e indifferenza».

La stessa giustificazione vale, a 50 anni di distanza dalla morte della poetessa, per la traduzione e la pubblicazione di questi Poemas de amor, usciti per la prima volta a Buenos Aires nel ’26. Il volume, a cura di Franca Cleis, Marinella Luraschi, Pepita Vera, si apre con un saggio in spagnolo e in italiano della studiosa argentina Beatriz Sarlo che, in maniera ideologizzante e pregnante, ripercorre tutto l’iter poetico della scrittrice, dall’iniziale retorica tardo romantica della prima raccolta, alla gradevole cantabilità delle poesie erotiche e femministe («Io sono come la lupa. Me ne vado sola e rido del branco…»), fino all’abbandono della soggettività per un più accentuato cerebralismo delle ultime prove. Esemplari di questo processo evolutivo sono appunto i Poemas, brevi prose liriche che, se non conoscono la scansione in versi, hanno tuttavia lo stesso incanto e leggerezza delle poesie. La suddivisione dell’opera in quattro momenti (sogno, pienezza, agonia, notte), che acutamente le curatrici attribuiscono alla reminiscenza di un sonetto di Emily Dickinson, ripercorre l’emozione femminile dell’innamoramento, a partire dall’esaltazione vissuta quasi con furore mistico, attraverso la follia consapevole dell’impeto del proprio eros, per arrivare all’umiliazione della preghiera, della questua, e alla notte dell’abbandono, raccontata in un’unica, memorabile, composizione: «Dal tuo essere mortale estraggo ora – ormai distante – l’aeriforme fantasma che coi tuoi occhi guarda e con le tue mani accarezza, ma che non ti appartiene. E’ mio, totalmente mio. Mi rinchiudo con lui nella mia stanza e quando nessuno, nemmeno io, sente e quando nessuno, nemmeno io, vede e quando nessuno, nemmeno io, sa, prendo il fantasma tra le mie braccia e all’antico ritmo del pendolo, lungo, grave, solenne, cullo il vuoto».

 

«Agorà» (Svizzera), 4 gennaio 1989

INTERVISTE

SAYA

Pubblicare un libro di poesie: intervista all’editore Marco Saya
 MARCO SAYA, EDITORE E POETA

 

Le edizioni Marco Saya, attive a Milano dal 2012 (www.marcosayaedizioni.net), si occupano prevelentemente di pubblicare e diffondere poesia. Ecco un’intervista all’editore.

 

  • Brevemente, qualche cenno alla sua biografia.

Un passato da informatico e una vita parallela presente che trascorre tra un grande amore per il jazz, la scrittura poetica e una neo casa editrice. Sono nato a Buenos Aires. A tre anni sono stato dirottato a Rio de Janeiro, prima di approdare definitivamente a Milano a dieci anni. Dopo il diploma al liceo classico Giovanni Berchet e una lunga frequentazione universitaria presso la facoltà di Ingegneria Elettronica, mi sono dedicato per anni al jazz come chitarrista professionista, alla poesia con diverse pubblicazioni e alla collaborazione con numerosi siti letterari.

  • Quando e spinto da quali motivazioni ha aperto la sua casa editrice?

Ho aperto la casa editrice nel gennaio del 2012. Perché? Premetto che sono un editore che non chiede contributi all’autore. Normalmente sono sempre i soliti noti che pubblicano con i soliti editori nel solito scambio di figurine, tralasciando tutto un mondo di altrettanto ottimi poeti, spesso esclusi dal mercato dello scambio delle figurine. Non si tratta dunque di incrementare il numero di player nel catalogo della Panini, ma di dare voce a chi merita di essere selezionato e pubblicato secondo alcuni parametri in parte soggettivi, legati a un gusto personale, in parte indirizzati all’individuazione di un’univocità e ricerca della scrittura poetica che non sia omologata come tantissima poesia del 900. È inutile aprire una casa editrice che sia una copia sbiadita di tante altre, deve esistere per tutti la possibilità di dare voce a una creatività che non sia solo “imprenditoriale”!

  • Quali difficoltà trova oggi, sul mercato librario, un editore che si occupi principalmente di pubblicare poesia?

La prima difficoltà riguarda la distribuzione, ma è anche vero che sono pochissimi i lettori di poesia e dunque questo potrebbe essere un falso problema. Semmai ci dobbiamo domandare come poter incrementare il pubblico dei lettori. Personalmente mi affido e mi trovo bene con i distributori online. Per un editore il conto vendita presso un libraio non è, di questi tempi, un buon affare. Il libro, poi, si vende solo nel caso di una presentazione ben organizzata, e sottolineo il “ben organizzata”.

  • Qual è il suo giudizio sulla produzione poetica italiana attuale? Perché la poesia riscuote così poco interesse tra i lettori?

La poesia dovrebbe anche arrivare al lettore/lettore e non solo, come spesso avviene, al lettore/autore. Troppi scrivono e pochissimi leggono: e chi scrive, quasi sempre, non legge gli altri. Nei primi sette mesi di quest’anno sono usciti circa 2000 titoli di poesia. Come è possibile, a questo punto, giudicare la produzione poetica attuale? Aggiungo che, secondo me, manca anche una critica (a parte qualche rara eccezione) che sappia discernere e voglia indicare nuove vie. Spesso si preferisce rimanere nei tradizionali orticelli dei già collaudati. Come editore pubblico solo 12 titoli all’anno, sperando così di poter dare una buona visibilità all’autore/autrice tramite una serie di presentazioni: l’unico modo, a mio avviso, di far conoscere e promuovere degnamente un autore. Poi, come sempre, sarà il tempo e un lettore attento a decidere se l’editore avrà operato delle scelte che caratterizzino la poetica di quel determinato scrittore.

  • Lei scrive versi. Cosa ha pubblicato finora e quali sono i poeti che sente più vicini alla sua sensibilità?

Ho pubblicato diverse raccolte, l’ultima dal titolo Filosofia spicciola nel 2014. Amo soprattutto Montale e la sua ironia presente in parte della sua vasta produzione, e poi il suo modo di intendere la poesia come “filosofia dell’esistenza”, le risposte che suggerisce discretamente alle eterne domande, al quid irrisolto che ci accompagna nella nostra fragile consapevolezza umana. E poi Ungaretti, Zanzotto, Caproni, Fortini…Ma sono tanti i poeti che amo.

  • Concluda questa breve intervista con un suo verso che le stia particolarmente a cuore.

Basterebbe una sola poesia, / quattro versi che possano girare il mondo / con le proprie parole. / Di questo si tratta, / scrivere questi quattro versi.

 

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3 settembre 2015

RECENSIONI

GEZZI

MASSIMO GEZZI, IL NUMERO DEI VIVI – DONZELLI, ROMA 2015

Massimo Gezzi (1976), marchigiano residente oggi in Ticino, pubblica da Donzelli questo volume di poesie fortemente connotate da una severa esigenza etica, e dalla volontà di aderire al reale, anche quando esso si proponga a noi nelle sue imperfezioni, nelle sue distratte ambivalenze. C’è un continuo interrogarsi, in questi versi, su cosa si debba intendere per esistenza, anzi per coesistenza con se stessi e con gli altri, nella vita familiare e sociale, nella contingenza quotidiana: «Mentre sei qui che respiri e guardi i boschi…». E da questo assillante rimettersi in discussione, Gezzi fa derivare propositi e indicazioni di comportamento, suggerimenti morali, in una tensione didascalica che forse niente ha da spartire col cristianesimo, o con l’impegno politico, ma senz’altro rimane un richiamo potente alla solidarietà e alla comprensione umana: «Difendi questa luce, se sei un nulla / come tutti. Difendi questo nulla / che non smette di essere. Smetti di tirare / righe scure, di cancellare. Tocca il tavolo, la carta. / Impara un’altra volta a fare di conto: / non sottrarre allo zero, aggiungi uno».

Troviamo nella scansione delle sezioni e nella disposizione delle poesie quasi un’ossessione aritmetica, che partendo dallo zero definisce titoli e successioni secondo i numeri cardinali, nell’auspicio di una crescita di consapevolezza e di generosità. Ma sempre con la discrezione di chi non ha certezze, non ama imporsi, nutre in sé più interrogativi che affermazioni: «Non hai torto, non hai ragione»; «c’erano tutte le risposte, / non ce ne sarebbero state mai».
L’osservazione del mondo è attenta e partecipe: ambienti, oggetti, luoghi, corpi (con una particolare sensibilità verso persone sofferenti, malate, anziane) vengono raccontati con diligente scrupolo documentaristico, esprimendo un intenso gusto visivo per i colori, gli interni delle case e la natura.
Da insegnante, Gezzi sembra prediligere il rapporto con i giovani, dentro e fuori la scuola, soprattutto quando li avverte indifesi e spaesati. Da padre, dedica tre belle poesie alla sua bambina, già immaginandola in un domani che potrebbe delinearsi sia roseo sia problematico, ma comunque sempre arricchente e simbiotico: «Ogni giorno ti indovino in qualcuna, / ti spio nel futuro, ti proietto / negli spazi che saranno solo tuoi. / Quando non ti vedo, e ho paura che non arrivi, / butto un libro lì vicino, / tengo un posto per te».

Da poeta, sembra cercare un timbro maggiormente sicuro e personale, essendo forse consapevole della propria originalità più contenutistica che formale, e riconoscendo un debito evidente verso la tradizione italiana (si avvertono echi di Luzi, e della musicalità minimalista di Pusterla) e francese (Jaccottet e Bonnefoy). Massimo Gezzi conserva, come molti altri poeti a lui coetanei, una sorta di manierismo descrittivo, concretizzato spesso in elenchi tripartiti di sostantivi che danno un ritmo cadenzato al verso: «Pareti, porte chiuse, fiumi che si disperdono»; «i libri, / le cornici, le piante tese»; «scheletri / composti, tibie, crani fracassati»; «arcate, muri, / volte di granai»; «due orecchie, due gambe, due polmoni»; «le pentole, / lo zucchero, le piante del balcone»; «la pazienza, la nascita, l’istante dell’amore». E sottolinea coerentemente la sua scelta di mettere una sordina espressiva a toni e modi, optando per una delicatezza del sentire che non risulti mai coercitiva, ma sappia suggerire «il bene delle cose che esistono»… «sperando che il bene sia più ubiquo del male».

 

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www.sololibri.net/Il-numero-dei-vivi-Massimo-Gezzi.html       2 settembre 2015

 

RECENSIONI

ASTE

FRANCO ASTE, FAME D’AMORE (1983) – DIALOGO INTERIORE (1988)

Franco Aste, nato nel 1930 nei pressi di Rovereto, emigrato giovanissimo in Svizzera, dopo aver dovuto interrompere gli studi per motivi economici, ha trascorso la sua vita tra la Chaux de Fonds e Basilea, lavorando come tecnico elettricista fino a quando, recentemente, un incidente lo ha costretto al prepensionamento. In Svizzera si è sposato, ha avuto tre figli che gli danno grandi soddisfazioni, e ha continuato a coltivare le sue passioni giovanili, dapprima il ciclismo e tante letture, oggi soprattutto la poesia. Aste è un uomo dai forti sentimenti, un generoso, un passionale: lo si capisce dalla vita che ha condotto e che racconta con slancio e asciuttezza dolomitica, e ancor più lo si capisce da ciò che scrive. Ha pubblicato in elegante veste grafica, impreziosita da notevoli riproduzioni artistiche, due volumi, che già dal titolo rimandano esplicitamente a una volontà comunicativa: Fame d’amore è il primo, del 1983, Dialogo interiore l’altro, del 1988. Il fine ultimo di questa scrittura sembra infatti essere il dialogo con il lettore, fortemente desiderato e perseguito sia nel testo che funge da commiato al primo volume, sia nella premessa autobiografica del secondo. Entrambi i libri hanno per sottotitolo una definizione volutamente e insistentemente umile, riduttiva: Meditazioni di un piccolo emigrato. I temi prescelti sono sì quelli tipici di molta letteratura dell’emigrazione (la partenza, il paese natale, il lavoro all’estero, la famiglia e l’amore), ma soprattutto una tensione religiosa e morale così ossessiva da oscurare talvolta la limpidezza lirica dei versi. Se le composizioni di Fame d’amore costituiscono per lo più una sorta di parabola per un vangelo quotidiano, meditazione generica sulla realtà dell’uomo d’oggi, giudicata con amaro pessimismo (Gioventù dei consumi, Dopo la morte degli ideali, Io e la terza età, Alla donna d’oggi), in temi più civili e sociali che direttamente religiosi, e con toni indignati da novello Savonarola (Partorirai solo / tanti piccoli aborti / che decreteranno / la tua sterilità / di corpo / e di spirito), in Dialogo interiore sono più frequenti gli ambienti, le atmosfere e le immagini riferibili al Vecchio e Nuovo Testamento (Pentecoste, Natale, Domenica delle palme, ecc.), ed è più evidente l’imperativo di usare la scrittura a fine didascalico, o addirittura con spirito missionario. Quella di Franco Aste è una poesia sermoneggiante, edificante, con una corposa intenzionalità retorica. Talvolta ricalca un linguaggio vagamente sindacale («Buttato il collare / della paura / che costringe alla dipendenza / della società professionale / ho capito / che l’età pensionistica / può significare / la liberazione»), talaltra la prosa scabra delle intenzioni recitate dai fedeli durante la Messa («Crescere / le virtù / per costruire / valori da investire / al servizio del prossimo»). L’indignazione morale è talmente tesa, il fine a tal punto prevarica i mezzi espressivi, da spingere l’autore a identificarsi in toto sia con il male del mondo («Rincorrendo musiche stonate / e variopinti coriandoli / m’è caduta la maschera / nella putredine / dell’umana sozzura»), sia con la salvezza aspettata da un intervento divino. Commuove, allora, l’ingenuità e la robustezza di tanta fede, di cui raramente si intuiscono tormenti o dubbi; stupisce l’ansia redentrice che spinge l’autore a identificarsi in Cisto, in Abramo, in Giobbe, in S. Francesco, persino nell’elemento creatore: «Quando sarà il mio turno / alla gestione del cosmo…»): vi si riconosce il segno ricorrente di caduta e risurrezione, umiliazione ed esaltazione tipico di tanta letteratura mistica. Esistono in Aste momenti di indubbia felicità inventiva, di più umile e accattivante leggerezza tematica, che dimostrano una notevole capacità metaforica non sfruttata appieno: anime disanimate, giorni lunghi come rammendi, col cervello d’asfalto, sdraiato sulla pelle dell’universo, sono invenzioni linguistiche di consistente spessore, spie di una sensibilità non comune, ma forse troppo trattenuta, con pudore tutto trentino.

 

«Agorà» (Svizzera), 24 gennaio 1990