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RECENSIONI

KUREISHI

HANIF KUREISHI, RACCONTI – BOMPIANI, MILANO 2013

Alcuni di questi racconti dello scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi (1954) coprono poche pagine, altri hanno la rilevanza di un romanzo breve. Quasi tutti ambientati in una Londra crudele e indifferente («Londra era piena di gente drogata, inutile, che non ascoltava quello che gli altri dicevano, ma pensava solo, tutto il tempo, a come poteva distrarsi, non parlava mai di niente di serio, finché poi precipitava»; «Londra sembra essere fatta solo di materiali duri e di polvere che non riesce a poggiarsi; tutto è spigoloso, specialmente la gente».), indagano esistenze ed esperienze disparate, per lo più avvilite e inconsolabili: come imparare a sopravvivere a se stessi, ai propri fallimenti, inventandosi improbabili vie d’uscita, quasi ad accelerare una catastrofe sempre inevitabile. Troviamo quindi lo sceneggiatore cocainomane di successo che invidia le giornate squallide ma non programmate degli scarti umani, ai margini della società; il padre di famiglia fotografo amatoriale che si fa irretire da una coppia voyeuristica; lo scrittore tradito dalla moglie che desidera solo umiliarla e vendicarsi; l’attore che spia l’amante sposata seguendola anche in vacanza con il marito. Personaggi che si assomigliano tutti nella rinuncia a qualsiasi prospettiva di vita felice, annoiati dalla banalità del quotidiano, rassegnati a rapporti fittizi sia nelle amicizie che negli amori, desiderosi solamente di far passare il tempo più velocemente, stordendosi con le droghe o nel sesso più degradato e ripetitivo, in una ricerca morbosa e ossessiva di rapporti affettivi autentici: «La gente si sposta da una moglie all’altra, da un marito all’altro. Una città di vampiri d’amore che girano da persona a persona in cerca di quella che farà la differenza».

Le famiglie, soprattutto quelle inglesi, appaiono spaccate e rancorose, con madri superficiali e distratte, e padri che hanno perso qualsiasi ruolo e funzione educativa.
Kureishi segue i suoi personaggi pedinandoli negli spostamenti fisici, nei gesti quotidiani, nei tic comportamentali: mai, tuttavia, scavando nei meandri della psiche o nei conflitti interiori, quasi a voler sottolineare che i suoi protagonisti vivono solo in superficie, bidimensionali, privi di profondità. C’è, costante, l’esplorazione analitica del corpo e della sessualità, che raramente arriva a essere conturbante, avvolta com’è in un’atmosfera di tragico disfacimento, di indifferente routine quotidiana. Come se l’autore volesse appiattirsi sulla descrizione di una cultura occidentale e cosmopolita oramai priva di slanci vitali, di entusiasmi, di calore umano, e rassegnata alla sua decadenza (l’ultima sezione, è emblematicamente intitolata Il declino dell’Occidente).
Ma non si salva nemmeno la civiltà asiatica importata, costretta a europeizzarsi controvoglia: i contrasti razziali e religiosi implodono nelle coscienze e all’interno delle mura domestiche. Ne è un esempio il bel racconto Mio figlio il fanatico, in cui un taxista indiano ormai integratosi nella vita anglosassone si vede rifiutato dal figlio convertito all’Islam più rigoroso ed estremista: drammatico esempio di due generazioni e due mondi che non riescono più a parlarsi.

 

© Riproduzione riservata     http://www.sololibri.net/Racconti-Hanif-Kureishi.html    1 settembre 2015

MAESTRI

BORGES

LA COSA

Il bastone, le monete, il portachiavi,
La docile serratura, le tardive
Note che non leggeranno i pochi giorni
Che mi restano, le carte e la scacchiera,
Un libro, e nelle sue pagine l’appassita
Violetta, monumento d’una sera
Certo indimenticabile e già dimenticata,
Il rosso specchio occidentale in cui arde
Un’illusoria aurora. Quante cose,
Lime, soglie, atlanti, coppe, chiodi,
Ci servono come taciti schiavi,
Cieche e stranamente segrete!
Dureranno più in là del nostro oblio;
Non sapranno mai che ce ne siamo andati.

Jorge Luis Borges (1899-1986)

RECENSIONI

NESSI

ALBERTO NESSI, TUTTI DISCENDONO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1989

Alberto Nessi è poeta e scrittore ticinese tra i più noti per le frequenti collaborazioni a giornali trans- e cisalpini (dal Tages Anzeiger, al Quotidiano, a Cooperazione) e per il suo lavoro assiduo, attento, di sensibile cronista di un’età e di una regione in stridente conflitto tra loro e in se stesse. Zona di confine quella che fa da sfondo all’esistenza di Nessi (insegnante alle scuole medie in congedo) e nutre la sua scrittura: zona circoscritta – Chiasso, Mendrisio, Coldrerio – ma nello stesso tempo proiettata al di là di concreti e invisibili dogane dell’anima, scissa tra immobilismi e frenetiche rincorse al futuro. Luogo dove non è facile vivere, dove e di cui deve essere difficile scrivere. Alberto Nessi ne scrive con amore, con la dedizione che si offre a una causa che si teme persa ma si vuole fortemente salvare; ne ha scritto anche nell’ultimo volume pubblicato da Casagrande, Tutti discendono. Sono dieci storie corali, narrate dall’autore per gente che non scrive e che non legge, per i più che vivono “in discesa”, senza accorgersene e senza lasciare traccia di sé, se non nella memoria locale di chi li ha conosciuti. Sono storie scritte forse anche per esorcizzare la morte, «il moscone nero che un giorno discende sui nostri volti». Nessi è nato nel ’40, all’inizio della guerra: «Venni al mondo a fatica: sfido io, con quel testone! Appena mi vide mia madre si spaventò: – Oh Madonna, c’è qua il Lisandro! – Il Lisandro era un macrocefalo che abitava vicino a casa nostra e diceva sempre “universo pecora” e passava ogni giorno con il secchiello del latte appeso al mignolo. Mia madre pensava che i nati in tempo di guerra fossero difettati».

Di questa atmosfera bellica è impregnato il primo racconto, Vampate, che si apre con un bombardamento avvenuto per sbaglio su Chiasso e Balerna, mentre i cittadini si sbracciano per far capire ai piloti dei caccia che «alt, qui comincia la Svizzera». La storia non si ferma ai confini, e anche il Ticino più limitrofo all’Italia è coinvolto nella diaspora del fascismo, e poi nelle vendette dopo la liberazione… «Qui da noi arriva solo l’eco della storia, qualche bossolo disperso, e per vedere qualcosa bisogna aguzzare la vista». A Chiasso la storia non si fa, la si subisce: la subisce la gente semplice che non sa darsi una ragione di tanti incomprensibili sconvolgimenti. Il padre, il nonno, lo zio anarchico dell’autore sono figure a tutto tondo, caratteri forti, meno banali delle figurine patetiche e conformiste in cui ci siamo trasformati tutti, oggi. Anche i matti del paese hanno una loro individualità, i balordi fanno parte del paesaggio, sono membri del coro, trattati con bonomia e non rinchiusi in funzionalissimi e tristissimi istituti («Il Cecchino raccoglieva le belle cacche rotonde dei cavalli per le strade…Il Tano ha una malattia: quando vede le donne in costume da bagno si mette a urlare…»). A rifletterci, c’è un evidente restringimento dell’orizzonte sociale cui corrisponde una fittizia dilatazione dell’individualità man mano che si passa dagli anni della guerra ad oggi: alla coralità di allora si oppone l’isolamento attuale, al pubblico il privato, alla solidarietà l’egoismo, alla storia la psicanalisi. E questo percorso è ben rappresentato dal susseguirsi dei racconti, che si focalizzano sempre più sulla figura dell’individuo-autore. Le tragedie di una cittadina sono sostituite dai turbamenti di un adolescente e dei suoi pochi amici; lo sfasamento materiale, concreto della vita tra due dogane («donne spiavano i burlandi e si nascondevano dadi nel reggipetto per passare la dogana»; «mio padre…la sera nascondeva venti pacchetti di sigarette nelle calze agiose che arrivavano al ginocchio e passava la dogana col Virginia tra le labbra») diventa malessere individuale, conflitto morale («Essere ombre lungo piste prestabilite o cercare un punto di fuga verso territori inesplorati? Essere guardia o contrabbandiere?»). Il ragazzo si trasforma in un uomo in crisi, non più in sintonia con il mondo che lo circonda: «Così imparai anch’io a vivere un po’ in disparte, come un insetto che attraversi un vecchio mobile nelle crepe del legno e arresti il suo zampettare, in ascolto, al primo colpo sull’impiantito». E ancora: «Sono tornato con il treno delle dieci. Alla stazione dove tutti discendono mi sono fermato un momento sotto l’affresco dell’emigrante. Stare nascosto, mi sono detto. Spiare la vita degli altri. Cercare le tracce del Ragazzo nella Piccola Città. Vivere negli interstizi. Dire di no. Squarciare il nebbione dietro il quale si nascondono i morti».

A Chiasso scendono tutti, il viaggio è finito (l’immagine è ripresa da una bella poesia di Nessi: Le donne). Ci si lascia alle spalle un paese, un percorso di vita, un tempo diverso: le osterie dove il nonno giocava alla morra e quando buttava il tre gridava: -Trema Dio!- . Quale Dio trema più nei nostri bar, tra flipper e video games?

 

«Agorà» (Svizzera), 21 febbraio 1990

MAESTRI

MOORE

QUANTO BASTA

Se sono una fanatica? Al contrario.
E dove mai mi piacerebbe stare?

Sotto l’olivo di Platone, a terra
o appoggiata al suo vecchio, sodo tronco,
lontana da polemiche
o persone colleriche.

Se vuoi le pietre al posto giusto, indenni
da calce (il muratore dice “malta”),
squadrate e lisce, devi rispettarle,
come disse Ben Jonson, o intendeva.

In Discoveries egli disse ancora:
«Sii per la verità. È quanto basta».

 

Marianne Moore (1887-1972)

RECENSIONI

VOLLENWEIDER

ALICE VOLLENWEIDER, SAN MARCO NEL NEVISCHIO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1990

Il resoconto di viaggio in letteratura ha ascendenze illustri e antichissime, a partire dal mitico itinerario dantesco, attraverso i percorsi artistici del Vasari e ai viaggi più o meno sentimentali degli scrittori inglesi del ‘700, fino alle affascinati cronache di Goethe e Stendhal, per arrivare ai reportages contemporanei di Parise, Pasolini e Moravia, talvolta più convincenti della loro stessa narrativa di invenzione. Oggi il viaggio viene per lo più raccontato con mezzi diversi dalla macchina per scrivere, soppiantata ormai da telecamere e obiettivi fotografici anche nell’esperienza diretta di scrittori e giornalisti. E proprio con la fotografia la narrativa di viaggio ha molti punti di contatto. Infatti, in un racconto come in un’istantanea, almeno tre sono i punti di vista e gli elementi interessati al fenomeno descrittivo: il fotografo (o l’autore-narratore), la persona o l’oggetto prescelto per essere inquadrato (o raccontato), e il pubblico fruitore dell’immagine o delle pagine espositive. Su queste e altre considerazioni fantasticavo leggendo l’ottima raccolta di articoli di viaggio di Alice Vollenweider, San Marco nel nevischio, pubblicata recentemente a Bellinzona da Casagrande. Alice Vollenweider, critico letterario zurighese, traduttrice, giornalista ed esperta di cucina, ha scattato in questi capitoli 10 “fotografie” italiane, dedicate a città del centro-nord della penisola. Non ha usato una Polaroid per questi suoi racconti, bensì una macchina sensibilissima, dagli obiettivi potenti e dalle zoomate rapide. Ha scelto sempre inquadrature particolari, sottraendosi alla banalità del bel panorama e dello spunto folklorico. Così di Milano non viene raccontata la Scala o il Duomo o la frettolosità laboriosa dei suoi abitanti; piuttosto, la funzionale vivacità del Mercato Ortofrutticolo o la storia dei Navigli o il fascino discreto dei bar nelle vie più anonime. Di Genova, l’autrice snobba la Lanterna e il porto per accompagnarci tra i vialetti del cimitero di Staglieno, con i suoi monumenti -molto sussiegosi e talvolta involontariamente umoristici- alla borghesia imprenditoriale e mercantile della città. A Roma non sono le boutiques di Via Condotti ad attirare l’attenzione della Vollenweider, quanto le edicole e le librerie stipate di merce invenduta e sorvegliata da commessi annoiati, oppure il ghetto ebraico, descritto in pagine partecipi e ricche di connotazioni. Per continuare nella metafora fotografica iniziale, è ovviamente l’Italia l’oggetto di questi ritratti, un’Italia non solo fisica e ambientale, ma svelata nelle sue facce e nelle sue chiacchiere, fissata in atteggiamenti atemporali e immodificabili, quanto in modi d’essere ormai desueti. Il lettore cui si rivolge il libro di Alice Vollenweider era inizialmente quello svizzero; gli articoli sono infatti stati pubblicati sulla Neue Zürcher Zeitung, pensati probabilmente per quei confederati che «si recano volentieri a Milano, a un’ora di macchina o di treno da Lugano, per fare acquisti, visitare mostre e mangiare veramente bene all’italiana, cosa sempre meno possibile nel Ticino gremito di turisti». Costoro avranno letto questi brani (scritti in tedesco tra il 76 e l’81) come un osservatore ignaro si pasce gli occhi davanti a foto che ritraggono particolari a lui ignoti, con stupore, interesse, curiosità via via crescenti. E il lettore italiano che li legge ora per la prima volta, in accurata traduzione? Come si sente la persona fotografata, magari a sua insaputa, e che nel rivedersi bloccata in un atteggiamento o espressione peculiare finisce per scoprire di sé cose che magari non sapeva, che non immaginava? Difetti, forse, o forse anche virtù, bellezze ignorate… Il lettore italiano, divenuto modello e pubblico insieme, potrà provare complicità e orgoglio di fronte a pagine che ritraggono le città immeritatamente trascurate della Pianura Padana (Parma, Modena), altre della costa tirrenica, oscurate dalla fama spesso usurpata di stazioni balneari più alla moda. Ma può sentire pure una leggera mortificazione, un senso di inadeguatezza personale (come giustamente avverte Luigi Malerba nell’acuta prefazione) davanti a questa passione gratuita per il Belpaese di una scrittrice straniera, davanti alla sua capacità di esaltarsi e di indignarsi, sorvolando generosamente su alcuni difetti e amareggiandosi per i vizi più ottusi. Il volume è sempre omogeneo e di piacevole lettura, nella leggera ariosità dei suoi dieci pezzi “giornalistici”, incastonati da altrettante presentazioni più intenerite e autobiografiche, e corredato da una ventina di splendide immagini in bianco e nero. Una galleria, appunto, di originali foto in prosa, impreziosite da cornici discrete ed eleganti.

«Agorà» (Svizzera), 23 maggio 1990

RECENSIONI

LUISI

PIER LUIGI LUISI, SUO PADRE ERA UN ALBATROS – SALANI, FIRENZE 1990

 

La casa editrice fiorentina Salani, di robusta e rispettabile tradizione nel campo dei volumi per l’infanzia, ha ripreso in questi ultimi anni a pubblicare con successo alcune collane che propongono sia collaudatissimi classici, sia volumi ingiustamente dimenticati degli anni ’40, sia nuovi o sconosciuti autori. Nella serie Gl’Istrici (sottotitolo «I libri che pungono la fantasia»), volumetti tascabili corredati da illustrazioni in bianco e nero, è uscita nel mese di marzo una storia un po’ fiaba e un po’ mito, un po’ viaggio e un po’ sogno, dal titolo nostalgico e misterioso : Suo padre era un albatros. L’ha scritto Pier Luigi Luisi, scienziato, professore al Politecnico di Zurigo ( si occupa di chimica macromolecolare dei biopolimeri), uomo dai vasti e poliedrici interessi culturali. Due anni fa aveva pubblicato, con prefazione di Dante Isella, un libro di racconti ambientati nell’Isola d’Elba. Si trattava allora di testi che coniugavano il realismo della memoria ritrovata (Luisi è appunto elbano) con una viva sensibilità pittorica: il ritorno al passato era pretesto per disegnare figure e ambienti tra sogno e risveglio, tra acquerello e incisione. In questo volume, invece, il fantastico e l’invenzione hanno nettamente la prevalenza: tra l’altro, il primo dei due racconti che lo compongono è stato segnalato al Premio Nazionale di narrativa fantastica J.R.Tolkien 1989. Protagonista della storia è una giovanissima malese, della tribù dei Senoi: si chiama Clau-Di-Tam, è insieme forte ed esile, degna figlia di una dolce indigena e di un grande e inquieto navigatore bianco. Dal padre ha preso la pelle chiara, i capelli scuri e lisci, la curiosità e il coraggio; dalla madre e dalla sua tribù la conoscenza rispettosa e ammirata di tutti i fenomeni della natura, la capacità di comunicare coi fiori e gli animali, e la rarissima dote di sapere interpretare i sogni che le arrivano dall’aldilà, sempre gravidi di significato e premonitori. Clau-Di-Tam vive con la sua tribù sulla riva del Grande Lago, che percorre in lungo e in largo sulla canoa; si spinge a esplorare la giungla, studia il volo degli uccelli, sa muoversi sinuosamente al ritmo di danze antiche, cavalca orsi e blandisce scimmioni, ma soprattutto sogna. I suoi sogni sono visioni luminose, dai colori splendenti, arazzi in cui intesse armoniosamente i tanti fili che la vita le ordisce. I Senoi le affidano il gravoso incarico di recuperare il sogno interrotto del capo del villaggio in agonia, onde evitare maledizioni e disgrazie che si abbatterebbero per sette generazioni sulla sua gente. Clau-Di-Tam riesce a portare a termine il suo compito, dopo aver sfidato il regno minaccioso dei demoni dei sogni, popolato da creature malefiche e orripilanti come in un quadro di Bosch. In questo mondo di incubi c’è più Artemidoro che Freud, ci sono più miti platonici (i due rospetti che abbracciandosi formano una palla suggeriscono una reminiscenza del Simposio) che studi sui neuroni…E Clau-Di-Tam che mangia funghi secchi per acquistare nuove virtù, che parla coi fiori animati e ha a che fare con una regina cattiva, ricorda molto la piccola Alice di Lewis Carroll, un’Alice più ingenua e istintiva, immersa nella natura. Alle soglie della pubertà, Clau-Di-Tam si imbatte nella tentazione della civiltà avida e corruttrice, personificata proprio dal mitico padre bianco, figura quasi conradiana, tornato su una grande nave alla ricerca del fungo dell’eterna giovinezza, che rende immortali e crudeli, come in un rinnovato mito faustiano. La ragazzina salva il padre, accompagnandolo nella sua avventurosa ricerca e strappandolo alle forze del male; lo convince ad accettare il corso naturale della vita e il suo declino verso la morte, e sceglie poi di non seguirlo in occidente, preferendogli «il mare amico…la spiaggia di sabbia bianca». C’è qualcosa, in questo immaginoso, tenero racconto che ricordi vagamente il mondo elvetico e gli interessi scientifici del professor Luisi? Forse lo spassoso episodio della lotta tra i Mischlinghi (il loro capo si chiama, programmaticamente, Entropio!), ricciuti, grassottelli e sporchi, che vorrebbero mescolare tutti gli elementi della natura in una fastidiosa varietà e confusione di caratteri e colori – giorno e notte, caldo e freddo, stagioni, alberi e animali -, contro gli Schwizerlinghi (guidati da Ornig!), silenziosi, composti, puliti e conformisti, che vorrebbero ovunque ordine, separazione degli opposti, rigore concettuale. Queste minuscole creature così differenti tra loro, ma costrette a vivere nella giungla, sembrano metafora evidente di una società – come quella svizzera- in sofferto conflitto razziale, e del mondo accademico, intellettualmente scisso tra caso e necessità.

 

«Agorà» (Svizzera), 6 giugno 1990

MAESTRI

ROSSELLI

TUTTO IL MONDO È VEDOVO

Tutto il mondo è vedovo se è vero che tu cammini ancora
tutto il mondo è vedovo se è vero! Tutto il mondo
è vero se è vero che tu cammini ancora, tutto il
mondo è vedovo se tu non muori! Tutto il mondo
è mio se è vero che tu non sei vivo ma solo
una lanterna per i miei occhi obliqui. Cieca rimasi
dalla tua nascita e l’importanza del nuovo giorno
non è che notte per la tua distanza. Cieca sono
chè tu cammini ancora! Cieca sono che tu cammini
e il mondo è vedovo e il mondo è cieco se tu cammini
ancora aggrappato ai miei occhi celestiali.

***

QUALE AZIONE?

Quale azione scegliere, prevedere, ereditare?
Un pezzo di pane a cane senza museruola
è meglio che questo scrivere in bianchi
versi di getti lacrimogeni, a branchi
di gente tutta senza importanza o museruola
che scrive vincendo e perdendo tutte
le cause: mentre fuori il tempo gode
e esplode, senza la tua intima perplessità
intimità di cose andate e perdute mentre
tutt’occupata a scrivere versi bianchi
andavi leggendo quel che non si potè
fare.
***
C’È COME UN DOLORE NELLA STANZA

C’è come un dolore nella stanza, ed
è superato in parte: ma vince il peso
degli oggetti, il loro significare
peso e perdita.

C’è come un rosso nell’albero, ma è
l’arancione della base della lampada
comprata in luoghi che non voglio ricordare
perché anch’essi pesano.

Come nulla posso sapere della tua fame
precise nel volere
sono le stilizzate fontane
può ben situarsi un rovescio d’un destino
di uomini separati per obliquo rumore.

                                              Amelia Rosselli (1930-1996)

RECENSIONI

MARAINI

DACIA MARAINI, IL BAMBINO ALBERTO – BOMPIANI, MILANO 1988

Il bambino Alberto di cui parla questo libro è ovviamente lo scrittore Alberto Moravia, con cui Dacia Maraini ha costituito per una ventina d’anni la coppia più intellettualmente impegnata e anticonformista della patrie lettere. Il volume è scandito in tre interviste, volte a ricostruire l’ambiente familiare e culturale in cui si è dipanata l’infanzia del più noto fra i nostri scrittori, e quali influenze e strascichi quest’età giovanile abbia lasciato nella produzione narrativa dell’autore. Dacia Maraini interroga incalzante e lucidissima un Moravia quanto mai ritroso e restio ad ammettere turbamenti o complessi, propenso piuttosto a rimuovere e a negare qualsiasi episodio, ricordo o emozione possa essere letto freudianamente come rivelatore di qualche tabù. Lo scrittore sembra volersi nascondere dietro a verità assiomatiche, usa come schermo difensivo dichiarazioni di principio talvolta addirittura ingenue: «La mia letteratura non è affatto lo specchio della mia vita e del mio carattere; Il tempo non esiste. La personalità non esiste…Il passato non mi interessa, mi rattrista e basta; Penso che tutta la vita sia al presente, come al cinematografo». Eppure subito dopo, messo alle corde dall’analisi puntuale e un po’ spietata della Maraini, finisce per ripiegare, per ammettere quasi seccato: «Non ci ho mai pensato, ma è vero… strano, evidentemente hai ragione tu…E’ la prima volta che me ne rendo conto…»

Bravissima l’autrice in questa operazione maieutica di scavo, scandaglio, collegamento di particolari, ricomposizione finale, ottenuta con un ritmo concitato nel porre le domande, nell’estrapolare citazioni, nel confrontare situazioni. Bravissima nel riproporre un’epoca, un clima culturale e nello sbalzare figure femminili a tutto tondo (la madre, «una bella donna molto attenta alle convenzioni», il padre collerico e indifferente alla vita familiare, le governanti francesi, le due sorelle cui vengono dedicate due interviste a parte, che tuttavia poco aggiungono al già raccontato). E però proprio questa abilità incredibile di interrogare e di indagare, soffermandosi anche su particolari minimi, o sulle abitudini più personali dell’intervistato, questa scaltrezza investigativa, quasi, finisce per imbarazzare il lettore, mettendolo di fronte a un’intimità altrui non si sa quanto opportunamente svelata, sbandierata. Come un processo a porte aperte, una seduta psicanalitica diffusa con l’altoparlante. Moravia stesso definiva tutta la sua infanzia «Un lungo, inspiegabile disagio». Forse, appunto, non tutto si può spiegare.

 

«Agorà» (Svizzera), 30 novembre 1988

RECENSIONI

GALLO JARRE

PAOLA GALLO JARRE, LA DONNA DAL QUADRO SOTTOBRACCIO – LA LUNA,  PALERMO 1989

Il premio letterario per narrativa inedita La luna. Città di Palermo, giunto alla sua seconda edizione, è stato assegnato lo scorso 3 marzo a Paola Gallo Jarre per il volume di racconti La donna dal quadro sottobraccio. Paola Gallo Jarre, nata a Torino ma residente a Zurigo da più di quarant’anni, è stata prescelta tra 350 concorrenti e invitata alla cerimonia di premiazione, cui era presente anche il sindaco Orlando, per ritirare il volume pubblicato appunto dalla casa editrice La luna. I quattro racconti che compongono il libro fanno parte di un gruppo più ampio di novelle zurighesi, già segnalate in una scorsa edizione del premio Ascona, e hanno come comune denominatore l’ambientazione in una Zurigo soffusa e sognante, guardata attraverso gli occhi malinconici e rassegnati di personaggi in qualche modo sconfitti e comunque sempre lontani dagli stereotipi che inchiodano svizzeri e immigrati in una sorta di museo delle cere. Imprevedibilmente, la solare e letterariamente esasperata Sicilia, così realistica e barocca nella sua narrativa, ha scelto di premiare questi racconti tanto nordici, non solo negli sfondi e nei personaggi, ma soprattutto nello stile di scrittura, lieve e quasi sospeso, lontano da declamazioni ed esclamazioni, quasi pudico nella sua descrizione. I racconti, piuttosto brevi, scanditi in capoversi staccati anche graficamente, propongono al lettore storie (brandelli di storie), stralci di esistenze, squarci di paesaggi mai definiti a tutto tondo: Paola Gallo Jarre rifugge dal rilievo, sembrando invece più attratta dall’acquerello e dalle tinte pastello, più dall’eco spenta dei sentimenti che dalle forti passioni. Il racconto che dà il titolo al libro narra la vicenda di una donna che in diverse fasi della sua vita attraversa enigmaticamente l’esistenza della protagonista, segnandone le tappe fondamentali, dall’adolescenza alla maturità, complice un quadro futurista che appare e scompare come traccia, spia di qualcosa di misterioso e indicibile. La stessa funzione allusiva che in questa storia ha il quadro, nell’ultimo racconto è affidata a una coppia formata da un elegante e maturo signore legato da un sentimento che si intuisce delicato e profondo a un giovane dagli occhi chiari. I due vivono insieme in una villetta di un quartiere residenziale di Zurigo, e il loro originale e ambiguo rapporto, fatto di dedizione e dolcezza, li rende simbolo di una nobiltà d’animo non sempre condivisa dagli altri abitanti della via, ponendoli su un piano di inavvicinabile superiorità. Non appartengono alla classe borghese i protagonisti degli altri due racconti del libro: Maia (una giovane che vive di fragili espedienti, vendendo oggetti usati al mercato delle pulci e affidandosi ad amicizie e amori instabili) accoglie con un’indifferenza quasi animalesca nella sua innocenza anche la nascita del suo biondissimo bambino, cui affibbia il nome pomposo e “remagesco” di Baldassarre: con lui tra le braccia riesce a trovare nella gelida Zurigo una culla di tepore nel giardino dell’Istituto di Agraria, ai piedi di un fico cresciuto quasi per miracolo o per sfida. Nel racconto forse più riuscito, L’astronave non atterra fra le capre, sono invece due immigrati – il greco Salonichì e il calabrese Squalo – a dover fare i conti con l’universo, per loro affascinante e incomprensibile, del consumismo svizzero, osservato dall’alto di un’astronave un po’ particolare: il camion della nettezza urbana, a cui restano appesi tutto il giorno, testimoni impietosi e arrabbiati della crudeltà cittadina, vittime di un progresso che li stritola insieme ai suoi rifiuti.

 

«Agorà» (Svizzera), 12 luglio 1989

RECENSIONI

VALLERUGO

IDA VALLERUGO, STANZA DI CONFINE – CROCETTI, MILANO 2013

«Stanza» è un sostantivo che ricorre spesso, in questi versi di Ida Vallerugo, poetessa friulana (e il Friuli è terra di confine, segnata da ferite profonde, della storia e della natura). Stanza come interno, non solo fisico, materiale, di una casa in muratura: ma anche spazio protetto dell’anima («e stanza mi faccio, silenzio»; «Ma non sono infinite le stanze del vivere. / Cosa farai in quella stanza lontana, senza porte, disanco-/ rata?»), che l’autrice esplora con la sapienza antica di tutta la sua esistenza, e cultura, sedimentata nelle radici della sua famiglia e della sua gente, ma anche dilatata in luoghi e tempi più vasti, universali. Perciò il deittico «qui»» con cui si apre il volume («Qui ho vissuto») non esclude l’apertura a un esterno altrettanto coinvolgente e imperioso, e il rimando continuo a un’ oscillazione tra dentro e fuori, presente e passato, individuazione e alterità. Le quattro sezioni in cui si articola il libro tracciano infatti un percorso da una Terra di dentro (il terreno sassoso e alluvionale chiamato Magredo, entro il cui perimetro la poetessa ha trascorso quasi tutta la vita) fino alla riscoperta di una Grecia mitica, sognata eppure concreta, attraverso una serie di viaggi mentali e fisici -alcuni in compagnia dell’amato padre- che portano l’autrice a lambire altri orizzonti, da Venezia («E tu, Venezia, argonauta a riva…») alla New York delle Torri Gemelle, da Gaza a Milano all’Acropoli, da Ostia alla Bolivia ad Amsterdam, da Stratford on Avon al Sudafrica: sempre sulle tracce di incontri rivelatori, arricchenti, con poeti e uomini comuni, rivoluzionari e artisti. L’ossatura franta e asciutta di queste poesie mantiene coerentemente alcuni stilemi in tutt’e quattro le parti in cui il libro è suddiviso. Le ripetizioni, ad esempio, talvolta a chiasmo, così frequenti a sottolineare una volontà ribadita di narrazione musicale, epicheggiante («Ma gli occhi non cambiano,  / non cambiano gli occhi»; «Ma l’aria si divide, si divide l’aria?»; «Non ora, luna / non ora»; «Chi cammina, chi cammina»; «la fiamma ardeva / la fiamma ardeva»; «Siamo sogni, siamo sogni»; «Le stelle sideree, le sideree stelle»; «L’onda, la prua; la prua, l’onda»). O le frequentissime interrogazioni, spesso retoriche, che l’autrice rivolge più a se stessa che al lettore. E ancora la predilezione per versi scanditi da tre punti fermi, a sezionare un elenco di nomi: «Il passo. Le pietre. Le acque lontane»; «Bianche. Accostate. Di ferro.»; «Gli acrobati. La tigre. Il poeta»; «Fiorita. Salda. Subito sparita». Anche le conclusioni di molte poesie si distinguono per la scelta reiterata (che può ricordare l’ Ungaretti di Sentimento del tempo) di evidenziare l’ultimo verso, staccandolo graficamente dal corpo della poesia, a ribadirne il tono asseverativo, definitorio: «Guarda un momento il mondo»; «E non è l’eternità»; «Ti torno al mare»; «E siamo ancora insieme»; «E volevo un canto»; «E in me ogni azzurro grida».
Nella prefazione, il poeta Pierluigi Cappello, amico corregionale dell’autrice («è mio fratellastro, questo poeta, / figli noi di donna trascurata») parla a proposito dello stile di Ida Vallerugo di «paradossale complessità…straordinaria evidenza delle immagini…scrittura trasparente e oracolare insieme»; a lui fa eco nella postfazione la curatrice Anna De Simone, commentando «una poesia visionaria e teatralizzante…di ossimorica violenta dolcezza». Un esempio di questo contrasto tra forza e tenerezza potrebbe forse risaltare emblematicamente nella poesia Corridoi, di cui riportiamo inizio e conclusione: «In quanti corridoi ho camminato / a luoghi di passaggio destinata. / E nei chiostri dei templi. /  Ma cosa ci facevo lì se il dio era fuori, nei volti vostri? //…E insiste l’anima unghia col suo fare misterioso. / Sì, forse anche di là c’è qualcuno a scalfire / incessantemente. Tu, Assente?// E in corridoi di vetro ho camminato, i muri più duri».

 

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www.sololibri.net/Stanza-di-confine-Ida-Vallerugo.html   19 agosto 2015