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RECENSIONI

ORELLI

GIOVANNI ORELLI, CONCERTINO PER RANE – CASAGRANDE, BELLINZONA 1991

Ogni letteratura è piena di animali, pullula di presenze in- e vertebrate (amiche o minacciose, mitiche o carnali, fiabesche o orripilanti), alter ego a due, quattro, sei zampe degli autori, che in esse riconoscono il segno di un destino comune, di una somiglianza o di una discrepanza comunque parificante. Dal bove di Carducci, alla farfalla di Gozzano, all’anguilla-upupa-volpe di Montale, la nostra poesia non fa eccezione: così si inserisce in una consolidata tradizione il Concertino per rane di Giovanni Orelli, dove la rana è assunta a pretesto e simbolo dell’umana sorte. Vivono un’ambivalenza di fondo, le rane, in questo volume: da un lato vittime di una natura terrificante nella propria crudele indifferenza ai singoli destini degli esseri viventi, oppure martiri di un’ altrettanto spietata eliminazione da parte degli uomini, per motivi scientifici o culinari («…erano un pasto paesano, oggi le acquistano / ristoranti quotati. Il nemico però / è il Ddt, per non contare quelle / che si fanno imbalsamare sull’asfalto / in chiazze di sozzura…»), dall’altro assurgono a simbolo religioso, tra il biblico e l’evangelico: «Una rana, Aretusa degli anuri, / una povera crista un tempo acrobata, / poi clown, poi sudicia meticcia, / fornicatrice che trascina la pelle / come una buccia non sua / in mezzo a un polveroso palcoscenico / da ragazzi con le canne aguzze / è aizzata verso un loro Sinedrio. / Qualcuno denuncerà il suo calvario».

Hanno, le rane, un conto in sospeso anche con la storia personale del poeta, che ha nel corso della sua esistenza avuto a che fare con più di una di loro, dalla primissima infanzia (la mia prima rana non è stata quella / del sillabario, delle rrrr in coro… // La mia prima rana / viene da un fango più lontano. / Rane e capre della mia primavera.), fino all’adolescenza delle violenze ingiustificate e ingiustificabili anche agli occhi indulgenti e pietosi del rimorso adulto: «La ur-rana, originaria, / quella che ho infilzato, sbudellato, / quelle che ho ammazzato e venduto // …ma quando andiamo ai pozzi dove le rane saltano / caldi i piedi ed asciutti nei nostri verdi stivali- / siamo un po’ un’ Hitlerjugend / un lupo che irrompe nel ghetto».

Associazione forte e angosciante quella tra le rane agguantate e infilate in sacchetti e le vittime innocenti di carneficine naziste, in un olocausto perpetuante la gratuita malvagità umana; meno sanguinario ma altrettanto sconcertante il collegamento tra le rane e le donne amate-vagheggiate («Lorena rana rupta; …rana-lui copriva rana-lei»), donne bambine, donne madri, donne morte («Di una, grassa, nella bara, dissero / -Pare una rana-. E: -amen-»). Fino all’identificazione totale rana-poeta. C’è il rischio (incombente in ogni raccolta a tema) che il riferimento costante agli anfibi forzi un po’ la mano all’autore, inducendolo a insistere in un’allegoria non sempre motivata: rischio che tuttavia si stempera nell’ampiezza dei rimandi culturali (da Fedro a Dante a Keplero, fino a Marina Cvetaeva e a Paolo Spriano), e nel linguaggio spesso allusivo e fuorviante, ironico e indignato, che mima la nevrosi della lingua dei giornali e quotidiana, usando sapientemente le più diverse figure retoriche. Ci resterà negli occhi e nel cuore questa rana che guarda «senza ira/ ma anche senza desiderio, / come guarda, a bocca chiusa, una rana / in mezzo a erba falciata», testimone muta di un mondo e di una società che non capisce.

«Eco di Locarno», 5 aprile 1991

MAESTRI

ELIOT

HO DETTO ALLA MIA ANIMA

Ho detto alla mia anima di stare ferma e di aspettare
senza sperare. Perché sperare sarebbe
sperare la cosa sbagliata; di stare
ad aspettare senza amore.
Perché l’amore sarebbe amore per la cosa sbagliata;
ma resta ancora la fede.
Ma fede e amore e speranza sono tutte nell’attesa.
Aspetta senza pensare perché non sei pronto per pensare.
E allora l’oscurità sarà luce, e l’immobilità danza.

***

LA FIGLIA CHE PIANGE

                                                                      O quam te memorem virgo…

Fèrmati sul gradino più alto della scala –
Chìnati su un vaso del giardino –
Tessi, tessi i raggi del sole nei capelli –
Stringiti i fiori al petto con dolorosa sorpresa –
Gettali a terra e vòltati
Negli occhi il risentimento fuggitivo:
Ma tessi, tessi i raggi del sole nei capelli.

Così avrei voluto che lui si partisse,
Così avrei voluto che lei addolorata si fermasse,
Così sarebbe partito
Come l’anima parte dal corpo lacero e ferito,
Come la mente abbandona il corpo che ha usato.
Dovrei trovare
Un modo leggero e abile come nessun altro,
Un modo che entrambi dovremmo comprendere,
Semplice e privo di fede come un sorriso e una stretta di mano.

Lei si voltò, ma con il tempo autunnale
Spinse la mia immaginazione per molti giorni,
Molti giorni e molte ore:
I suoi capelli sulle sue braccia e le sue braccia piene di fiori.
E mi chiedo come sarebbero potuti essere insieme!
Avrei dovuto perdere una posa e un gesto.
Talvolta questi pensieri ancora meravigliano
Mezzanotti tormentate e la quiete del meriggio.

                                                                      Thomas Stearns Eliot (1888-1965)

 

RECENSIONI

BISUTTI

DONATELLA BISUTTI, VOGLIO AVERE GLI OCCHI AZZURRI – BOMPIANI, MILANO

Strana bambina, questa Simona di cui ci parla la poetessa Donatella Bisutti nel suo primo e recente romanzo, Voglio avere gli occhi azzurri. Una bambina adulta, cresciuta troppo in fretta in un mondo di adulti, che da loro ha assunto una malinconica consapevolezza, una scontentezza che non è infelicità, ma uno sguardo serio (mai complice, divertito o semplicemente capace di intenerirsi) su ciò che la circonda. Simona è figlia unica, abita in una città di molti palazzi e giardini urbani, frequenta poco gli altri e molto le sue fantasie: ha un rapporto pressoché inesistente con il padre, e piuttosto contorto con la madre. E’ la protagonista in terza persona, nel tempo passato remoto delle favole, di un denso volume di storie: non veri e propri racconti, ma pagine che fissano con minuzioso nitore momenti diversi di vita, di quotidianità esaminata negli aspetti più banali, nei dettagli che possono sembrare più insignificanti, ed assumono invece le proporzioni di eventi fondamentali. L’occhio che guarda non è un occhio infantile, anche la prosa ha un suo andamento leggibilissimo, articolata com’è in frasi paratattiche, con un corso di continui ritorni a spirale sul già detto: quasi ad imitare appunto il modo di esprimersi dei bambini, ma lontano da ogni leggerezza, da ogni stupore, e invece intriso di amaro disincanto. Simona patisce una curiosa e dolorosa frammentazione dell’io: è Simona, ma potrebbe e forse vorrebbe essere Francesca, Laura, Claudia. Ha gli occhi marroni, ma li vorrebbe azzurri come quelli della mamma. I suoi capelli biondi potrebbero essere rossi, ecco anzi che diventano rossi, e la bambina non si riconosce più, non viene più riconosciuta da chi le è vicino; d’altra parte lei stessa si sdoppia, quando si guarda allo specchio, si rifiuta, cancellandosi con una spugna. Quando si disegna, si fa diversa da com’è, e in più copie. Simona non si piace. Non le piace neanche la sua mamma, che vorrebbe diversa, capace di fare le torte e di stirare, magari di darle le botte o qualche bacio (non si toccano mai, mamma e figlia, si osservano attente e sospese, ma senza abbandoni) e non la madre intellettuale che ha, sempre intenta a leggere giornali o a correggere libri. «A lei non piace fare la mamma», è la sua impietosa e crudele condanna. A Simona non piacciono nemmeno le cose che di solito fanno la gioia dei bambini: il Natale, il compleanno, la neve, i giochi sulla spiaggia. Ogni azione viene rallentata e sezionata, ogni slancio naturale disturbato da una riflessione o da un’interrogazione, da una disamina impietosa. Sotto questa specialissima lente d’ingrandimento dell’attenzione maniacale ad ogni movimento o trasformazione, tutto assume i contorni dell’assurdo, si snatura ingigantendosi, sproporzionandosi, fluttuando, tracimando dai confini. L’universo di Simona è in perenne metamorfosi, i suoi giocattoli si animano, il cielo è continuamente percorso da nuvole che si dilatano e si rincorrono. Ogni fenomeno naturale è se stesso ma è anche altro: «Era tutta avvolta dalla neve eppure la neve era fuori e lontana da lei. Le veniva addosso e la toccava, eppure dove cominciava la neve, per esempio sopra il suo cappotto, cominciava il resto che non si poteva raggiungere»; «Le dita della pioggia erano bizzarre. Le gocce cadevano dappertutto e sembrava che l’acqua sciogliesse le cose e ne portasse via un po’ con sé, non si sapeva dove».

Questa bambina scontenta, annoiata, che non si diverte neanche con i suoi amici, sembra proprio assumere su di sé i caratteri dei nostri bambini di città, troppo intelligenti e sensibili, ma già testardi nei loro rifiuti arbitrari: non vuole mangiare, non vuole giocare, si butta per terra, batte i piedi. Se canta, nessuno la deve ascoltare, e se corre, magari in compagnia di un cagnolino, la sua corsa non ha nulla di fisico e ansante, ma diventa subito una corsa mentale, allucinata, in cui tutto prende a correre con lei: «Non c’era niente che fosse simile a quello che era stato un attimo prima, ma tutto saliva, scendeva, si gonfiava e precipitava, era mobile e mutevole. I prati correvano, si inarcavano e si distendevano e il vento si inarcava e si distendeva sopra di loro. Tutto rincorreva qualcosa che era davanti a sé e sfuggiva da qualcosa che lo inseguiva e intanto continuamente si trasformava in qualcosa di diverso».

Questo incessante mutare, trasfigurarsi delle cose in altre, delle persone, ha un suo epilogo atteso e inevitabile nell’ultimo racconto del libro, quando Simona, ormai donna adulta e alla ricerca di risposte, torna nella casa della sua infanzia e, nella camera della madre, si specchia nello specchio di lei. Il volto che le appare riflesso è quello della mamma, freddo e severo, come sempre incapace di sorridere. E’ un invito silenzioso, quello materno, a seguirla lì dove è ora, a raggiungerla: per la prima volta le due donne si scambiano parole e lacrime, per la prima volta si toccano, si baciano. Un vecchio specchio è strumento e oggetto di un sortilegio che ha l’incantata magia del miracolo; la madre morta sorride, la bambina difficile diventata donna perdona, lo specchio si trasforma in acqua che cancella ogni visione e ricordo, restituendo la stanza ai suoi chiari e scuri di sempre, la figlia a una se stessa riconciliata, legando passato e presente in una promessa di riscatto, di vita nuova.

 

«Il Corriere del Ticino», 7 aprile 1997

MAESTRI

CARVER

SEMPLICE

Uno squarcio tra le nubi. L’azzurrino
profilo dei monti.
Il giallo cupo dei campi.
Il fiume nero. Che ci faccio qui,
solo e pieno di rimorsi?

Continuo a mangiare come niente dalla ciotola
di lamponi. Se fossi morto,
rammento a me stesso, ora non
li mangerei. Non è così semplice.
Anzi, no, è semplicissimo.

 

Raymond Carver (1938-1988)

MAESTRI

DE GIOVANNI

L’APE MORTA

Un’ape morta
nell’acqua della grondaia.
Ehi, sorellina!

Sole di gennaio
e cielo azzurro
per l’ape morta
nell’acqua della grondaia.

***

IO POI

Io poi
quando sarete andati
e avrò sparecchiato
e lavato i piatti
e tolte le cicche
dai portaceneri–
mi sdraierò per terra
e guarderò dal basso
questo mondo inutile
ancora sporco di chiasso.

***

ENTRO NELLA TUA VITA

Entro nella tua vita
come si entra in una chiesa nei campi
semplice e disadorna.
Senza nulla cercare,
cautamente presente.

Luciano De Giovanni (1922-2002)

RECENSIONI

LIBERTO

CARLO LIBERTO, VANTAGGIO ALLA BATTUTA – PUNGITOPO, MARINA DI PATTI 1990

Gli aforismi sono, secondo il Dizionario Garzanti, «brevi massime enuncianti una regola pratica o una norma di saggezza». In quest’ultimo decennio la nostra cultura è stata invasa da volumi di massime che niente avevano a che vedere con l’oscurità densa di significato di un Eraclito, o con gli aculei universali di Marziale, o anche solo con la sapienza francescana di certi almanacchi. Sono stati soprattutto gli intellettuali più aristocratici e reazionari a inondarci delle loro meditazioni in briciole, onnicomprensive e onnigiudicanti, più presuntuose che profonde (penso a Ceronetti, a Cioran), accolte in genere dalla nostra stampa con trepidante ossequio anche quando si trattava di assolute banalità. Ma esistono anche aforismi che hanno la leggerezza di un refrain, l’incanto del gioco di parole riuscito, la spietatezza di un “a fondo” ben centrato: ce ne dà un esempio un riservato signore settantaseienne, che ha pubblicato da Pungitopo un libriccino prezioso di pensieri semiseri, di arguzie modestamente definite «battute». Carlo Liberto vive a Berna, ma è nato a Malta nel 1914, si è laureato a Roma in scienze politiche e ha intrapreso la carriera diplomatica che l’ha portato in Turchia e in Svizzera, praticando sempre la scrittura come passione personale e il giornalismo come impegno gratificante. Il suo ultimo volumetto ha un titolo preso in prestito dal tennis: Vantaggio alla battuta, a giustificazione di aforismi che si vogliono «privi di acredine» ma animati «dal gusto della trovata», giocati spesso sull’assonanza o sul modo di dire ironicamente rivisitato: «Partitocrazia: tessere o non tessere». «Gli arbitri: Soggetti ad alto fischio». «Faceva la corte alle tardone: lo chiamavano il nonnaiolo», «Denatalità: Ti ricordi le cicogne? Sono in cassa integrazione», «Dopo tante inutili prove, il figlio nacque in provetta», «Acqua inquinata? Niente paura. E’ stato emesso l’ordine di cottura». Sono illuminazioni pungenti, vivaci, che hanno qualcosa di allegro e incredibilmente giovane. Mi piace immaginare questo signore dai capelli bianchi che sorride sornione e beffardo davanti al conformismo e alla stupidità dilaganti, con l’esperienza dovuta ai suoi molti anni e la freschezza intatta di un carattere vivo: «Spinosa. Ammirava i socialisti / per il loro storico gesto / d’impugnare la rosa», «Palermo: la cosca d’oro», «Agli italiani piace molto la puntualità. Degli svizzeri». Le battute virtualmente cattive sono rare, e tanto più riuscite: «Solo perché incompresi / certi personaggi / si prendono per geni». Se non esiste acredine, l’amarezza è tuttavia uno dei sentimenti dominanti, anche se mai si riduce a sconforto; la potremmo definire pensosa disillusione, disincanto: «Più le macchine si fanno intelligenti / e più gli uomini diventano cretini”, “Questo nostro malessere / lo dobbiamo in gran parte / alla società del benessere»,
«La rassegnazione / è la maggior virtù dell’italiano. / Basta vederlo sull’autobus, / per non parlare del treno», «Benediceva l’insonnia: tanto fra non molto / avrebbe dormito per sempre». Termino con una delle massime che mi sono piaciute di più (ai lettori l’invito a cercarsene di migliori): «Ti ricordi quando gli inquilini / erano i vicini? / Ora sono lontani, e quanto! / Persino quelli della porta accanto».

 

«L’Arena», 18 ottobre 90

MAESTRI

MANDEL’STAM

M’È DATO UN CORPO

M’è dato un corpo – che ne farò io
di questo dono così unico e mio?

Sommessa gioia di respirare, esistere:
a chi ne debbo essere grato? Ditemi.

Io sono giardiniere, e sono fiore;
nel mondo-carcere io non languo solo.

Già sui vetri dell’eternità è posato
il mio respiro, il caldo del mio fiato.

L’impronta lasceranno di un disegno,
e più non si saprà che mi appartiene.

Scoli via la fanghiglia dell’istante:
rimarrà il caro disegno, intatto.

**

MI LAVAVO ALL’APERTO

Mi lavavo all’aperto ch’era notte.
Di grezze stelle ardeva il firmamento.
Il loro raggio è sale sull’accetta. La botte
colma, orli rasi, ghiaccia e si rapprende.

La porta del cortile è ben sprangata;
la terra, secondo la coscienza, è dura.
Troverai a stento più puro ordito della
verità d’una tela fresca di bucato.

Una stella si discioglie come sale nella botte,
più buia è l’acqua gelida,
più pura la morte, più salata la sventura,
ed è più vera e più terribile la terra.

                                                              Osip Mandel’stam (1891-1938)

MAESTRI

ROMAGNOLI

RITO

Mia madre celebrava la mattina
con un caffè solitario.
Filtravano dalla cucina
neri aromi in un chiaro di gesso.
Toccavano rumori la parete
per farsi indovinare
da me, che silenziosa
sorridevo nel buio «vi conosco!»

Mia madre la mattina
stava sola di là, come Dio
sta sulla terra e sul mare.
Prendeva il giorno nelle sue mani rosse.
Ribattezzava oggetto per oggetto,
assegnava alle cose il loro posto.
Come farà, che adesso
sola fatica della sue mani è stare
incrociate sul petto.

***

FALSA IDENTITÀ

Prima o dopo qualcuno lo scopre:
io sono già morta
da viva. È di donna straniera
la faccia tra i capelli in giù sporta
che subito si ritira,
l’ombra che dietro le tende
s’aggira di sera,
il passo che viene alla porta
e non apre. Suo il canto
che intriga i vicini coprendo
i miei gridi sepolti. Qualcuno
prima o dopo lo scopre. Ma intanto…
Lei a proclamarsi non esita,
lei mostra il mio biglietto da visita.
Io nel buio, in catene, a un palmo
da voi di distanza, sul muro
graffio questa riga contorta:
testimonianza che mio
era il nome alla porta, ma il corpo
non ero io.

                                                Fernanda Romagnoli (1916-1986)

RECENSIONI

ULBAR

MARIAGIORGIA ULBAR, GLI EROI SONO GLI EROI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2015

Anche senza conoscere la data di nascita di Mariagiorgia Ulbar, che non viene riportata nella terza di copertina, sono certa di non sbagliare attribuendole trent’anni o poco più: e lo faccio con il vago senso di colpa dettatomi dalla mia età, che non è stata capace di assicurare ai giovani come lei più convinte certezze. Perché le poesie qui raccolte esprimono la rassegnazione, l’impotenza, l’impossibilità di progettare un futuro (e non la rabbia, non una più salutare ribellione) di tutta la sua generazione. Non vorrei dare una lettura sociologica, o solo attenta ai contenuti, dei versi di Mariagiorgia; ma forse è il caso di partire proprio da questa considerazione. La sua scrittura esprime un sofferto, lacerato disorientamento, senz’altro più esistenziale che culturale. Perché i mezzi espressivi ci sono tutti, a iniziare da una tradizione novecentesca – soprattutto mitteleuropea – ben assimilata (da Rilke, con il suo angelo terribile, gli amanti, gli acrobati… fino a Mann), e c’è anche un’evidente sensibilità pittorica (penso ai paesaggi industriali di Sironi, alle marine di Carrà, a qualche incubo magrittiano…) e filmica (Bergman,Truffaut). Troviamo in lei una consapevolezza formale già matura, il dominio di formule retoriche collaudate (anafore, ellissi, sinestesie), l’attenzione descrittiva al paesaggio. Tuttavia, di che paesaggio si tratta? Marino, soprattutto, o meglio: marittimo. Non spiagge assolate, estati turistiche, tuffi, passeggiate romantiche; ma città costiere (Ancona, Pescara, Livorno, Trieste, Palermo,Venezia…) nei loro porti fumosi, litorali ingombri di rifiuti: raffinerie, piattaforme, lamiere, tubi.

«Ciò che lascia fuori la risacca / gli oggetti strani, dimenticati o rotti / quello che resta, lo scarto, i pezzi»; «È solo acqua ora sopra e sotto / così non c’è modo di tirare  / su le àncore, sapere/ se è bonaccia o burrasca in queste ore»; «Andrò sul fondo, sulla sabbia / dove vivono le salme e i relitti»; «Se non è marino, il paesaggio diventa campestre, e brullo, desolato, sporco»; «Qui mi sporcano la polvere, il catrame / gli incarti di pasti già mangiati…// la terra, i balsami, le bende»; «Torno dove termina la strada / dove resta solo il bivio / dove trovo i calcinacci…// un solco, una crepa»; «asfalti e bar bollenti / tavoli di plastica rossi e bianco avorio / con il buco al centro senza ombrello»; «Sotto le rotaie e sotto il fiume / vivono i topi…».

Un esterno sempre squallido e minaccioso, da cui bisogna scappare per salvarsi, ma senza sapere dove trovare scampo, in che modo sfuggire a incendi dolosi distruttivi, ricorrenti come incubi, e a scenari di persecuzione bellica: «mettere in un sacchetto il nostro oro  / se dovesse servirci all’improvviso  / per mangiare, lasciare un posto troppo buio, / salvarti da qualcuno, passare le frontiere nottetempo / fare uno scambio: un mio anello, un mio ricordo / per una indicazione e acqua fredda in cambio».

Il fatto è che Mariagiorgia e la sua generazione, una guerra non l’hanno mai vissuta («e a noi è mancata una guerra / mondiale, ti ho detto all’improvviso»): le loro catastrofi, le tragedie e i terremoti sono sempre individuali, mai collettivi, e assumono dimensioni squassanti da cui non ci si può, o non ci si sa, difendere («noi siamo quelli che non disturbano mai»). Per questo il j’accuse silenzioso e tanto più doloroso e ricattante verso la generazione matura diventa nei versi pesantissimo, quasi insostenibile: riflettendo però anche un’implorante richiesta di aiuto, come nell’intensa sezione Mio padre era un re, in cui l’autrice supplica regole e indicazioni, un appoggio sicuro, un insegnamento severo e illuminante per riuscire a resistere, per non soccombere di fronte all’indifferenza crudele della vita: «Di metodo ho bisogno per passare, / di metodo, di ordine, così invoco». Il padre tace, i padri tacciono, e Mariagiorgia Ulbar diventa portavoce di una collettività letteraria giovane, spaesata, intimorita ma solidale e affine anche nella scelta dello stile poetico, intimista, mai urlato, più consapevole di memorie che desideroso di futuro: «I cani andavano felici sulle spiagge, / io in ultima carrozza / col futuro alle mie spalle, dove vado / mentre guardo le rotaie del passato / che si allontanano».

 

«Nazione Indiana», 8 luglio 2015

MAESTRI

GIUDICI

DICO CHE ARRIVERAI

Dico che arriverai da un lungo treno del mattino.
E devo voltarmi a ogni socchiudersi di porta
se non sia tu – o trasalire allo squillo uguale
a ogni altro se mai non fosse la tua voce
dall’altro capo a parlare, immaginarmi
rispondendo nel tenore convenuto
che a tutti indifferenza significhi e a te
invece: dove sei, mio amore, mio benvenuto?
Quale dei lunghi treni ti porterà?
Quale dei lunghi treni ti avrà portato?

Ho guardato l’ora all’orologio sul muro.
Ho aspettato lo squillo già
scusato come e perché non hai potuto chiamarmi,
ho pensato: e pensare che ero qui sola.
Brevi minuti ancora mi restano per supporre
il tempo che tu raggiunga la strada della mia casa
e un suono di citofono a questi miei inferi emerga
definitivo come un lieto annuncio di morte…
Ti scambieranno per uno come un altro – ho scherzato.
Arriverai domani se oggi non sei arrivato.

                                                               Giovanni Giudici (1924-2011)