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RECENSIONI

MEYER SABINO

GIOVANNA MEYER SABINO, ...DEMOCRAZIA E’ FEMMINA. DONNE CALABRESI E CAMBIAMENTO – PELLEGRINI, COSENZA 1995

 

Pensare o dire “Calabria” suscita in noi immagini contrapposte ma comunque coinvolgenti. Da un lato, l’idillio di una natura imperiosamente affascinante: solare, impervia, dura nei paesaggi, nel clima e nel carattere della sua gente; dall’altro, l’impaurita incomprensione di una realtà sociale violenta e disgregata, dove l’ottusa e aggressiva protervia di pochi spadroneggia, prevaricando la letargica, fatalistica inerzia dei più. Eppure, anche la rassegnazione secolare al sopruso può improvvisamente venire scossa, se un gruppo di persone decide di dar voce al proprio disagio, facendosi voce anche del disagio altrui; e se queste persone sono donne, e se a raccogliere le loro testimonianze è una donna, ecco che le parole possono diventare in maniera tanto più innovativa coro, grido, eco in continuo sviluppo. Così è stato per l’esperienza del gruppo  Plurale femminile, nato a Tropea nel ’90, su iniziativa di alcune donne del paese, fiancheggiate da turiste e da movimenti di opinione esterni. Gruppo che concentra la sua attività intorno a tre tematiche fondamentali: protezione dell’ambiente, restauro del centro storico e salvaguardia del turismo. Tali obiettivi vengono perseguiti attraverso capillari operazioni di sensibilizzazione: discussioni, volantinaggi, assemblee, marce, dibattiti pubblici sui diritti civili e sulla mafia. Tutta questa campagna di mobilitazione produce ben presto i suoi effetti; il Consiglio Comunale di Tropea, incalzato e pubblicamente contestato dal gruppo di donne, attua alcuni interventi straordinari sui problemi ambientali più urgenti (fogne, nettezza urbana, acqua, viabilità); nasce all’interno dell’ospedale un tribunale per i diritti del malato; si organizza un convegno su Ambiente e partecipazione cui intervengono Gianfranco Amendola, Antonio Cederna, Luigi Lombardi Satriani; si richiede di creare un parco nazionale e un parco marino e la costruzione di un megadepuratore destinato alle acque zonali. L’attivismo frenetico e le iniziative incalzanti, anche se talvolta non ben coordinate, di  Plurale femminile  sortiscono all’improvviso e auspicato scioglimento del Consiglio Comunale, e al conseguente commissariamento della città. Ma proprio sul problema delle elezioni del nuovo consiglio comunale, P.F. entra in crisi, spaccandosi tra chi vuole fiancheggiare i partiti storici della sinistra, e chi invece preferirebbe costituire una propria lista civica. Il gruppo arriva presto a istituzionalizzarsi, con tutto ciò che nel bene e nel male questo comporta: meno velleitarismo e spontaneismo, più concretezza e un pragmatismo maggiormente attento alle regole del gioco. Quattro anni di lavoro politico generoso e indefesso, concorrono a cambiare la mentalità della gente del paese, esortano i calabresi a uscire dal guscio producendo il miracolo di una nuova amministrazione, efficiente e onesta. E vengono oggi raccontati in un elegante e intelligente volume di Giovanna Meyer Sabino, giornalista italiana trapiantata da molti anni a Zurigo, sempre attenta ai problemi dell’emarginazione e del femminismo. Il libro ...Democrazia è femmina  si articola in tre parti: nella prima sezione vengono esposti e analizzati i fatti, gli avvenimenti concreti – documentati da foto, interviste, manifesti, ecc.; nella seconda parte viene approfondita la riflessione sui meccanismi razionali e inconsci che hanno agito all’interno del gruppo di donne, sulle motivazioni che le hanno spinte ad aggregarsi, sulle difficoltà che hanno minacciato il loro operare. Ogni analisi particolare viene infine inserita in un contesto culturale e sociale più vasto, nelle coordinate necessarie che inquadrano la problematica condizione femminile nel nostro Sud. E’ una proposta di coinvolgimento, una scommessa sul futuro, quella suggerita dalle donne di Tropea, esempio di una impegno coraggioso da condividere, possibilmente da esportare.

 

«Agorà» (Svizzera), 1 novembre 1995

RECENSIONI

ORELLI

GIOVANNI ORELLI, IL TRENO DELLE ITALIANE – DONZELLI, ROMA 1995

Probabilmente non è la lettura sociologica, come sembra suggerire il risvolto di copertina, quella da privilegiare nell’accostarsi all’ultimo bel romanzo di Giovanni Orelli, Il treno delle italiane. Certo, Orelli rimane uno dei pochi scrittori in lingua italiana per cui si può parlare di letteratura civile, lui che proviene e anima quell’estrema, privilegiata provincia portofranco del nostro paese che è il Canton Ticino; a cavallo tra due culture spesso in antagonismo, ne patisce le contraddizioni di interprete in bilico tra critica appassionata e solidarietà, e insieme possiede quel distacco che gli permette un’analisi intellettuale sempre feconda. Così è soprattutto il dato di partenza di questo nuovo romanzo, ambientato nel Ticino del dopoguerra, a potersi fregiare di un’interpretazione impegnata, politica. Io parlante è un bigliettaio della linea ferroviaria che attraversa la Svizzera da sud a nord, trasportando emigrati dal Meridione o dal Veneto, lavoratori carichi di storie e di Storia, che arrivano pieni di ansie e di desideri in un paese risparmiato dalla guerra e dalle sofferenze, e forse per questo più superficiale e più crudele. Alla voce del ferroviere (che oltre alla sua funzione professionale svolge anche quella di umanissimo consigliere-confessore di chi viaggia) si affiancano o sovrappongono altre voci narranti, secondo uno stile proprio di Orelli, e già sperimentato altrove. Come in un labirinto di divagazioni, associazioni più o meno volontarie, episodi e personaggi si incastrano tra loro, esibendo sempre una propria necessità. E da puzzle pieno di figurine mordilliane, le pagine si vanno man mano trasformando, ai nostri occhi incuriositi e ammirati di lettori, in un gioco di scatole cinesi per poi sciogliersi invece in una specie di affresco corale, che ha qualcosa dell’arte puntuale ed epica del pittore elvetico Ferdinand Hodler. Giovanni Orelli sa farsi caleidoscopico cantore di una storia collettiva, e anche offrirci sapori di una Svizzera valligiana molto concreta, con le sue navi le sue erbe i suoi doganieri rudi e pudici. I treni che attraversavano il Ticino dopo la guerra erano pieni di ragazze italiane, brave a lavorare nelle case e a tormentare gli uomini nella carne. Erano ragazze spaventate ma ambiziose, che appena varcata la frontiera, si accorciavano i nomi e le gonne, sventolavano i fazzoletti fuori dai finestrini, offrendosi all’aria svizzera e agli sguardi di chi le aspettava. Ai marosseri, innanzitutto: che erano mediatori, sensali, e procuravano loro l’occupazione e un posto dove vivere, chiedendo sempre in cambio qualcosa di prezioso: il primo stipendio, e altro. Tra le numerose storie narrate (della Volpina, della Lisetta, della Ludo), il bigliettaio dei treni delle italiane finisce per raccontarne una in particolare: quella di Marina, serva del marossero suo coinquilino, che se l’era fatta venire in casa per il bene del figlio Giuliano, ragazzo mite e originale, il quale preferiva i severi studi universitari e le corse in moto nei boschi alle passioni ancillari del padre. Ma è proprio il genitore a combinargli un capodanno da passare in montagna con la servetta, imponendogli un’iniziazione sessuale secondo parametri che il figlio rifiuta. Infatti Giuliano e Marina vivono con purezza tutta adolescenziale il viaggio in treno nella neve, la veglia alla nascita di un vitello, il giro delle osterie del paese a sentir storie vecchie dai contadini, il proposito di dormire insieme, sì, ma vestiti e senza toccarsi. E già tutto questo costituirebbe un rifiuto intransigente del volgare buon senso adulto. Ma il ragazzo va oltre, e la violenza del suo no ha la secchezza dello sparo di fucile con cui si ammazza, poco prima che inizi l’anno nuovo. Qui la prosa di Orelli, già di suo così nervosa, riesce a farsi poesia, lieve, immaginifica, nel descrivere il rimpianto tormentato di Marina, lo sgomento ottuso e tanto più penoso del padre, il silenzio imbarazzato dei funerali; e la madre che non accetta, e torna su in montagna dove il figlio si è ucciso, si siede in mezzo al cortile, lasciandosi coprire di neve, non più donna, ma come il suo ragazzo «quattro ossa e, come si conviene, come desidera, rapidamente, un pugnetto di polvere grigia».

 

«L’Arena», 23 gennaio 1996

RECENSIONI

ZWEIG

STEFAN ZWEIG
VENTIQUATTR’ORE NELLA VITA DI UNA DONNA – SUGARCO, MILANO 1991
NOVELLA DEGLI SCACCHI – GARZANTI, MILANO 1991

Due romanzi brevi, o racconti lunghi che dir si voglia, di Stefan Zweig, sono stati recentemente pubblicati da SugarCo e Garzanti: 24 ore nella vita di una donna  e  Novella degli scacchi. Argomento centrale di entrambi è la passione divorante per il gioco che può attanagliare la mente umana: gioco come azzardo, cioè sfida al destino e a se stessi, e gioco come affinamento della spiritualità. La prima novella è la storia, narrata dalla protagonista a un occasionale confidente trent’anni dopo la sua conclusione, di un incontro tra una intelligente e ricca vedova, che cerca di distrarre viaggiando la sua «irreversibile tristezza», e un uomo divorato dal tarlo febbrile del gioco al casinò. A Montecarlo la signora viene attratta dalla vita di un giovane che sembra giocarsi alla roulette non solo gli ultimi risparmi, ma la sua stessa esistenza. Ipnotizzata dall’eccitazione di lui, ma soprattutto dall’irrequietezza e dal tremito disperato delle sue mani, lo segue fuori dal casinò e in albergo, nell’ansia di salvarlo dal suicidio e di redimerlo dalla follia del gioco; superando ogni pudore e remora dovuta alla sua educazione gli si concede, vivendo con lui l’esaltazione furiosa di una notte d’amore. «Non avrei mai immaginato, senza quell’incontro terribile, con quale ardore, con quale accanimento e irrefrenabile avidità un uomo spacciato, perduto, beva ogni goccia rossa di vita».

La notte passata insieme trasforma profondamente la donna, inducendola a rischiare tutto per seguire la sorte del suo nuovo amico: gli consegna dei soldi perché paghi i suoi debiti, lo costringe quasi a partire per porre fine alla sua inclinazione malata, decide essa stessa di seguirlo, giocandosi la sua reputazione e un tranquillo e grigio destino di vedova benestante. Ma il ragazzo la inganna, e col denaro avuto in dono torna al casinò e riprende a giocare: all’intervento stupito ma deciso di lei, la caccia umiliandola e sbeffeggiandola davanti a tutti. Tuttavia, «si sopravvive anche a ore così dolorose: il sangue continua a pulsare, non si muore, non si cade come un albero colpito da un fulmine»: la donna recupera la sua dignità schernita, ritorna nei binari consolidati di una routine disprezzata ma comoda, perché  «alla fine, chi vince è il tempo, e la vecchiaia esercita sui sentimenti il singolare potere di invalidarli». Rinnegate le 24 ore che stavano per cambiare (in meglio? in peggio?) il corso della sua vita, lei che per amore avrebbe avuto il coraggio di rovinarsi, accetta l’umiliazione di una sconfitta, continuando a coltivare il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere.
Il secondo racconto  Novella degli scacchi può essere considerato un po’ il testamento spirituale di Zweig: fu infatti steso nel ’41, pochi mesi prima che lo scrittore austriaco si suicidasse in Brasile insieme alla moglie. E’ la storia di una serie di partite a scacchi giocate durante una traversata marittima nell’Oceano tra Mirko Czentovic, scacchista di fama mondiale, e il dottor B., avvocato austriaco perseguitato dalla Gestapo. E’ chiaro fin da principio da che parte stia lo scrittore Zweig (esteta, pacifista, innamorato della cultura e della spiritualità europea al punto di autoesiliarsi per protesta in Sudamerica allo scoppio della seconda guerra mondiale). Bersaglio della sua polemica è il campione russo Czentovic, ma si tratta di un bersaglio alquanto sproporzionato, di un mulino a vento contro cui non varrebbe nemmeno la pena di combattere: Czentovic è infatti «un contadinotto ventunenne del Banato… un taciturno, ottuso ragazzo dalla fronte quadra… incapace di scrivere una frase in nessuna lingua senza errori di ortografia… di una ignoranza parimenti universale in tutti i campi».

A questo avversario, presuntuoso perché indifeso, goffo perché poco intelligente, fornito di un’unica mostruosa abilità – quella di giocare, vincendo, a scacchi – Zweig oppone la cultura e la sensibilità del dottor B., già amministratore dei fondi della famiglia imperiale austriaca.
Arrestato dai nazionalisti, torturato in un isolamento feroce e totale, era riuscito a salvarsi dalla pazzia grazie alla lettura di un manuale sugli scacchi, e alla simulazione mentale di centinaia di partite: «Appena il mio Io bianco aveva fatto una mossa, il mio Io nero si gettava febbrilmente all’attacco; appena una partita era terminata, subito sfidavo me stesso alla prossima, perché ogni volta uno dei due Io-giocatori era vinto dall’altro e chiedeva la rivincita…Era un’ossessione da cui non potevo difendermi; da mattina a sera non pensavo ad altro che ad alfieri e pedoni e torre e re…Il piacere del gioco era diventato vizio, il vizio necessità, una mania, una rabbia frenetica…appena il gioco incominciava, una forza selvaggia m’invadeva: correvo su e giù coi pugni stretti, e come attraverso una rossa nebbia sentivo ogni tanto la mia voce, che gridava a se stessa, rauca e cattiva, “scacco” o “matto!”».

La partita che Czentovic conduce contro il dottor B. è in realtà una partita tra due culture, tra due modi di concepire la vita e di affrontare il mondo: quella, rozza ma vincente, ottusa ma di successo, del campione Czentovic, e quella raffinata ma sconfitta del dottor B.. La prima simboleggia la cultura nazista, violenta e arrogante, la seconda quella austriaca, o più in generale Mitteleuropea. Questa  Novella degli scacchi è, quindi una «fiaba fortemente metaforica», come ben arguisce nella sua originale prefazione Daniele Del Giudice, in cui gli scacchi sono puro pretesto, e il delirio finale del dottor B., in grado di condurre simultaneamente nel pensiero diverse partite, ma incapace di portarne a termine una, quella decisiva, è il simbolo della resa di un continente alla brutalità pianificata di Hitler, della resa di Zweig di fronte al crollo dei suoi ideali.

«L’Arena», 1 agosto 1991

RECENSIONI

MAURENSIG

PAOLO MAURENSIG, LA VARIANTE DI LÜNEBURG – ADELPHI, MILANO 1993

«Era un’ossessione da cui non potevo difendermi; da mattina a sera non pensavo ad altro che ad alfieri e pedoni e torri e re, a A e B e C e Matto e Arrocco, con tutto il mio essere e il mio sentimento ero spinto verso il quadrato della scacchiera. Il piacere del gioco era diventato vizio, il vizio necessità, una mania, una rabbia frenetica, che a poco a poco penetrò non solo le ore in cui ero sveglio, ma anche il mio sonno».

Sono frasi che Stefan Zweig mise in bocca al protagonista della sua  Novella degli scacchi nel 1941.

«Non so dire esattamente quando accadde, ma so che un giorno incominciai a giocare un’interminabile partita: che dall’altra parte della scacchiera ci fosse il mio io o il mio Dio, poco importava. In brevissimo tempo occupò tutti i miei pensieri, non ci fu spazio per nient’altro che non fosse quella partita: essa divenne la mia fede, unica e insostituibile».

Sono frasi che Paolo Maurensig mette in bocca al protagonista-narratore del suo affascinante romanzo La variante di Lüneburg, appena edito da Adelphi. Paolo Maurensig è un agente di cambio friulano, cinquantenne alla sua opera prima. Che Roberto Calasso pubblichi nella prestigiosa collana  Fabula un autore italiano è cosa piuttosto infrequente: che pubblichi un autore sconosciuto è decisamente straordinario, e depone a priori in favore del testo in questione.
In effetti, il lettore si trova di fronte a un’opera eccezionale, per il tema trattato, per lo spessore culturale sottesovi, per l’estrema raffinatezza formale: uno stile denso ed elegante insieme, il cui ritmo narrativo è dettato dal procedere del pensiero, modellato sulla cadenza di questo. Ne segue le pause, le divagazioni, ma anche animosità improvvise, confutazioni stringenti. Respiriamo, leggendo queste pagine, aria – e forse anche musica – mitteleuropea, più rarefatta e avvolgente di quella cui ci ha abituato la narrativa italiana odierna. La passione per gli scacchi, intesa come filosofia, come approccio alla vita o sfida alla morte, è il tema del libro, com’era il tema della novella di Zweig, con cui Maurensig sembra voler giocare a rimpiattino, attraverso sapienti e ricorrenti richiami: ora come allora la partita a scacchi è metafora di una ben più profonda contrapposizione tra due culture (quella conformista, violenta e ottusa del nazismo, e quella spirituale, ricercata ma perdente dell’ebraismo). Le analogie tra i due testi sono così frequenti da non poter risultare casuali: il gioco vissuto come estasi e condanna, il viaggio (qui in treno, là in nave) durante il quale avviene lo scontro tra le due diverse personalità dei protagonisti, l’Austria dell’Anschluss e la Germania dei campi di concentramento, l’assenza totale di personaggi femminili, il riferimento continuo al trascendente, le riflessioni sulla fisiognomica, i nomi dei grandi scacchisti degli anni ’20, e soprattutto il crescendo di pathos, di angoscia, che attanaglia il lettore fino alla conclusione tragica e liberatoria, fino allo scacco matto definitivo della morte. Il libro si apre con la descrizione del suicidio di un ricchissimo imprenditore tedesco, Dieter Frisch, avvenuto nello splendido parco della sua villa settecentesca alle porte di Vienna. Inspiegabili, a prima vista, i motivi del suo gesto: l’uomo  «era una di quelle persone alle quali il successo sembra arridere in tutti i campi…» Prestante e attivo nonostante l’età avanzata, divideva la sua attività tra l’azienda di Monaco e la ricca residenza viennese, in cui consacrava le sue ore di riposo all’unica passione che gli si conosceva: il gioco degli scacchi. Proprio questa sua occupazione secondaria si palesa ben presto essere la ragione della sua fine violenta, e il romanzo lo svela a poco a poco, attraverso le misurate rivelazioni del narratore che, rimasto nell’ombra per tutta la prima parte del volume, si dichiara poi l’antagonista di una vita, animato da una sete di vendetta durata decenni.

«Questa è, in primo luogo, la storia di una rivalità, che si manifestò proprio su una scacchiera, su quel riquadro che può sembrare ristretto solo a chi non voglia o non possa vederne la profondità: poiché si tratta invece di un mondo per nulla limitato e niente affatto innocuo, dal momento che ciò che vi si perpetua, avvalendosi di un atto creativo che a volte assume l’aspetto di un’autentica opera d’arte, è un’azione di inaudita violenza, una forma di omicidio bianco, inapparente, il cui esito viene riconosciuto e condiviso unicamente dai due contendenti. Non c’è nulla che leghi due persone quanto una seria sfida su una scacchiera. Esse diventano le opposte polarità di una creazione mentale che è opera di entrambi, ma in cui uno si annulla a vantaggio dell’altro».

I due avversari negli scacchi, il tedesco Frisch e l’ebreo Tagori, già ostili dall’adolescenza, quando si sfidavano in estenuanti tornei – l’uno metodico e inflessibile, l’altro geniale e febbrile – si ritrovano a Bergen Belsen, l’uno ufficiale nazista e spietato aguzzino, l’altro (salvato dalla morte purché intrattenga con gli scacchi l’ufficiale SS) costretto a barattare al gioco la vita dei compagni con le proprie vittorie. A una mossa inattaccabile ideata dall’ebreo Tagori (la variante di Lüneburg) e avversata teoricamente dal tedesco, è affidato il compito di scovare dopo la guerra l’ex nazista camuffatosi sotto mentite spoglie: Dieter Frisch viene individuato e smascherato attraverso una rivista d scacchi, raggiunto e “processato” in treno dal figlio adottivo di Tagori, costretto alla confessione e alla resa finale. Frisch non regge alla sconfitta nel gioco e nella storia, e si ammazza: ma più che di un suicidio, si tratta di «un’esecuzione capitale,seppure differita nel tempo e nello spazio», affidata agli scacchi.

 

«L’Arena», 7 luglio 1993

RECENSIONI

TOEWS

MIRIAM TOEWS, I MIEI PICCOLI DISPIACERI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2015

Marcos y Marcos propone ai lettori un quarto romanzo di Miriam Toews, autrice canadese di fama internazionale, nata nel 1964 da una famiglia mennonita di lontane origini ucraine. Di lei la critica ha sempre lodato l’abilità particolare nel raccontare vicende tragiche, in genere circoscritte al microcosmo della famiglia, senza scadere nella retorica o nel gusto del patetico, punteggiando invece la narrazione (scorrevole e colloquiale, fatta di frasi brevi e dialoghi vivaci, con frequenti e puntuali citazioni letterarie) di episodi leggeri, ironici, o francamente comici. Quasi a voler stemperare pudicamente il dolore, imbavagliandolo, quando si fa troppo forte o pericolosamente declamato.
Anche in questo romanzo i riferimenti autobiografici sono espliciti: la residenza stessa dell’autrice nella città di Winnipeg, il claustrofobico clima di fanatismo religioso della comunità mennonita (sempre ottusamente incline alla riprovazione, alla condanna, all’esclusione di chi avverte come potenzialmente diverso, e quindi minaccioso), la dolorosa catena di suicidi parentali, l’originalità controcorrente e le aspirazioni artistiche del nucleo familiare. Protagonista in prima persona è Yolandi, sorella minore e complessata della talentuosa, sensibilissima, geniale Elfrieda. Il rapporto che lega le due è strettissimo, simbiotico. La maggiore è una pianista di successo, «un’assoluta professionista della mondanità. Tutto in lei era di un’intensità incredibile. Così nitido e frizzante». Ma questo eccesso di intelligenza ed emotività l’ha resa fin da piccola un corpo estraneo nel mondo, vulnerabile, incapace di rassegnarsi alla mediocrità. Yoli invece si sa, o si crede, mediocre, e cresce all’ombra della sorella, con ammirata dedizione. Il romanzo si apre su una prima vicenda traumatica della famiglia, costretta a un trasloco non voluto, all’interno di una comunità religiosa fanatica e ottusa: padre, madre, figlie mal si adattano al conformismo dell’ambiente, cementandosi nel loro rapporto di assediati incompresi. Elfrida studia musica e legge poesie, e per lasciare un segno di sé incide su muri e alberi un acronimo tratto da un verso di Coleridge: «IMPD, i miei piccoli dispiaceri». Yolandi cresce goffa e alternativa, con un’inquietudine che la porterà da adulta a contorte scelte sentimentali, a una perpetua instabilità economica, e a inseguire una realizzazione come scrittrice sempre frustrata dai risultati.
Dopo poche pagine, il lettore viene catapultato in una realtà drammatica: il padre, un idealista sconfitto dalla rudezza dell’esistenza, si è ucciso sotto un treno; la madre, positivamente ottimista ma incapace di reagire alla disgrazia, si ammala di cuore; Yolanda si immola all’assistenza adorante della sorella, chiusa nella sua disperata scelta di rinunciare non solo a una luminosa carriera di pianista, ma alla vita stessa.

«La sofferenza, anche se risalente a un passato lontano, è una cosa che si trasmette di generazione in generazione, come l’agilità o la dislessia». I tentativi di suicidio di Elfrida si susseguono implacabili, come i suoi ricoveri, nonostante l’amore e la comprensione di chi la circonda, e della sorella in primo luogo. A niente valgono le carezze, i ricatti emotivi, le minacce, le recriminazioni, le dichiarazioni d’amore di Yolandi, perché «il problema è la vita e la sua invivibilità». Eppure, nonostante il dolore che dilaga, tra le righe aleggia un senso invincibile di leggerezza, di solidarietà e comprensione affettiva che fortifica i rapporti di amicizia e parentela; si impone come un dovere la possibilità di continuare a sorridere, aggrappandosi ai ricordi belli, ai rari gesti di qualche generoso sconosciuto, a preziosi momenti di inaspettata rivelazione della bellezza: «Lo sai che la gente è più felice quando smette di cercare di esserlo?»
Il lungo racconto di Miriam Toews termina con l’apertura alla continuità della vita, e alla necessità della speranza: «Dài, alziamoci, facciamo la doccia e andiamo». Un plauso alla traduttrice Maurizia Balmelli, che ha saputo rendere in un italiano fluido ed elegante la prosa della scrittrice canadese.

 

«succedeoggi», 22 aprile 2015

POESIE

HANS CASTORP C’EST MOI

(0maggio a Giovanni Giudici, rileggendo la sua La Bovary c’est moi e La montagna incantata di Thomas Mann)

I

Deve essere stato l’abbaglio di un momento
un tac di calamita da una parola mia o sua

Da quale frase o sorriso a metà,
gesto delle tue mani nell’aria sospeso:
è stata forse la tua falcata, imperiosa
benché impacciata, maga Midons, encantadora;
oppure un sortilegio della nebbia di Davos
da cui sei uscita – porta sbattuta, mia matita
imprestata. Ma ti amo, e sobbalzo
a ogni passo di dama, e ti indago il pensiero
caso mai fosse vero, fosse possibile che.
Se non sai cosa amare, scegli me.

II

mio amore quanto errore e dolore ci divide
quanto futuro senza futuro si spalanca

Pensami nella mia stanza che assomiglia alla tua,
ed è diversa, su un altro piano. Pensami
sul balcone a provarmi la febbre che non scende.
Mia malata senza domani, sei il mio male
e non guarisci, non migliori: disperata
mi allontani da un futuro indiviso, indivisibile,
che non temo perché non lo amo, destinato
com’è a non averti. Di noi il medico dice
«Abbiate cura della vostra salute»;
ma non sono i polmoni, non capisce.

III

sul fruscio tra gomme e asfalto o dov’è neve
questa luce ti arrivasse questa ombra

Potessi essere tu le pagine che sfoglio
di un volume dell’enciclopedia; lucide, intonse
alle mie dita che tremano dal freddo
e per amore. Fossi tu la pace che è il tuo corpo
quando lo intravedo di sfuggita, ombra
che cammina per la strada in salita, o seduta
in distanza al ristorante. Pace ai miei occhi
i tuoi occhi chirghisi, e labbra finalmente
sulla pelle che scotta. Pensiero nella mente
capace di spazzare le paure, i malocchi.

IV

Lontano come la luna mi domando come puoi
dirmi se è stata quella davvero l’ultima volta

Dove sarai, mi chiedo, in quale tempo
e spazio fuggita, nascosta al mio bene
divenuto insopportabile? Partita senza dirmelo,
che era l’ultima volta e davvero, stavolta.
Se l’avessi saputo, avrei preparato un addio
come si deve, e non il saluto di sempre:
e ti avrei imparato a memoria, il vestito,
le scarpe, le parole taciute. Storia
della mia vita, non può essere che senza
preavviso, senza ripensamenti, tu sia finita.

V

Quale dei lunghi treni ti porterà?
Quale dei lunghi treni ti avrà portato?

Ma sono sicuro che ritornerai.
Me lo dico guardandomi allo specchio,
e mi vedo più vecchio da quando sei andata.
Sbatterai al tuo solito la porta
un mezzogiorno come tanti, trasaliranno
camerieri e pazienti, ma io no:
e non mi volterò al tuo passo strisciato,
anche se – senza fiato e trionfante –
potrei stringerti, stritolarti felice.
Mia signora e padrona, o beatrice.

VI

ma veri i giorni gli anni che per sempre
non ti avrò

Almeno nel sonno ritorna, eterno presente
di un sogno che sappiamo tale, tu ed io.
E non allontanarti più di tanto, non sparirmi
del tutto: se dicessi una parola come Dio,
lo sai, sarei salvato. Invece eccomi qui,
reso a un peccato di scarsi amori stupidi,
perché tu non ci sei, né ci sarai,
viva nella mia carne e nei miei giorni.
O poterti abolire! Mandare via.
Chiamarti amore. Minne Beatrice Maria.

 

 

In Hortus n. 18, II semestre 1995; in Litania periferica, Manni, Lecce 2000; in Omaggi, Einaudi, Torino 2017.

 

RECENSIONI

RIVA

FRANCO RIVA, FILOSOFIA DEL VIAGGIO – CASTELVECCHI, ROMA 2013

Todorov scriveva nel 1995: «Il viaggio coincide con la vita, né più né meno: essa è forse altra cosa che un passaggio dalla nascita alla morte?”. Per il filosofo Franco Riva, docente di Etica Sociale all’Università Cattolica di Milano, il viaggio – a cui è dedicato questo volume densissimo di spunti e provocazioni – non indica solamente e puramente il nostro esistere, bensì è senso e metafora di un’infinità di altri concetti, temi, sentimenti. Quindi viaggio – responsabilità, apertura, accoglienza, violenza, pensiero, racconto. Piacere e stupore, consumo e denaro, lavoro e distrazione, libertà e distacco. Su ciascuno di questi aspetti, Franco Riva medita con acuta sensibilità e tensione, spesso addirittura con risentita ironia, sfrondando la tanta retorica che accompagna oggi l’atto del viaggiare, dell’uscire da sé, dello scoprire altri luoghi, con una sapida antiretorica, capace di interrogarsi lucidamente sui compromessi e sulle sopraffazioni che comporta l’invadere per divertimento o curiosità culturale spazi e abitudini altrui. Viaggiare non è quindi, e non deve essere, gratuito ed egocentrico arricchimento interiore, esperenziale od economico, ma soprattutto possibilità di incontro ed apertura all’altro, crescita spirituale e dono. Considerazioni amare e sarcastiche vengono dedicate a un certo turismo confezionato, consumistico e standardizzato: «Non è possibile smarrirsi perché adesso sappiamo sempre, finalmente, dove siamo. Siamo perennemente nell’intervallo tra una proposta e un acquisto. Siamo sempre in coda a una cassa».

Carte di credito, commerci, trasgressioni, inventari e tariffe. A questo sembra ridursi oggi il viaggiare contemporaneo; e alle foto da esibire su facebook, agli orari di treni e aerei. Lo stile stesso della narrazione di Franco Riva assume, nella prima parte del libro, la frammentarietà incalzante e veloce, quasi imitativa e tautologica, del fenomeno che stigmatizza: «La memoria dei luoghi è lo spazio che si fa tempo. E il luogo del tempo è il tempo che si fa spazio. Fuori e dentro. Interno ed esterno…Vita. Sempre partita , sempre già andata, prima ancora di averne deciso la partenza. Vita partita e mai arrivata, nonostante tutti gli sforzi per arrivare. Mai raggiunta. Viaggio e vita. La partenza della vita, che non si può decidere. Irripetibile. La vita non è mai dov’è, mai quello che è. Sempre in partenza. Non torna. Irripetibile».

La scrittura ponderata della filosofia sembra qui proporsi liricamente in simil-versi dall’impronta ansiosa, quasi derivata da certa poesia contemporanea: «Affidarsi, rischiare. Partire finalmente. Trovare se stessi come un essere trovati. Lasciarsi andare. Ri-trovarsi. Trovare se stessi, perché in quell’identità quotidiana con sé ci si era smarriti. Chiusi. Neppure smarriti: il sé non c’era; da solo con se stesso, non c’è mai stato». Più distesa e meditata risulta al lettore la seconda parte del volume, che si interroga sui temi tipici della riflessione di Franco Riva, ereditati e approfonditi attraverso gli amati “filosofi del dialogo”: Buber, Rosenzweig, Lévinas, Marcel, Tischner. In queste pagine si concentrano considerazioni ispirate a quella che dovrebbe essere la natura etica del viaggio: conquista di uno spazio accresciuto dell’anima, meraviglia, pensiero nuovo, accettazione della complessità e della diversità, scoperta di una prossimità agli altri, responsabilità verso la natura. E passaggio. Da uno stato mentale di chiusura e sospetto ad uno di fiduciosa solidarietà. Franco Riva propone esempi antichi e illustri di viaggiatori che nei loro percorsi hanno modificato la storia dell’umanità: Ulisse e il suo viaggio nostalgico, circolare, di ritorno e ripiegamento; Abramo proiettato in un generoso esodo verso una promessa futura; Gilgamesh e la sua eroica aspirazione alla fama; Adamo ed Eva e la cacciata colpevole; Marco Polo con la curiosità per l’ignoto; Zarathustra nella sua sfida a Dio. E proprio con una frase di Nietzsche (Solo come totalità possiamo conservarci) Franco Riva chiude il suo libro: una totalità complessa, non sigillata, ma capace di trasformazione e di tragitti illuminanti.

 

«succedeoggi», 15 aprile 2015

RECENSIONI

SHAPIRO

BRETT SHAPIRO, L’INTRUSO – FELTRINELLI, MILANO 1994

Di Giovanni Forti, corrispondente da New York per L’Espresso, morto di Aids nel 1992, molti ricorderanno un coraggioso reportage-diario sulla sua agonia, cosciente e combattuta, pubblicato dal settimanale, e una straziante intervista televisiva con Enzo Biagi. Ci avevano impressionato i suoi occhi mobilissimi e stanchi, i tratti tirati, la voce affaticata ma intenerita con cui parlava di sé, del suo essere ebreo e omosessuale, del suo compagno e dei suoi bambini: ma anche di flebo e diarree, di reazioni fisiche mortificanti, della sua voglia di non arrendersi. L’annuncio, dopo poche settimane, della sua morte, ci aveva toccato non solo dal punto di vista umano, ma anche culturalmente, con la consapevolezza di aver perso una voce anticonformista e stimolante.
Ora Brett Shapiro, che aveva diviso con Forti gli ultimi due anni di vita, pubblica presso Feltrinelli un libro che è omaggio al suo compagno e insieme narrazione spietata di un lento, inevitabile soccombere alla malattia: ne è derivata una «storia d’amore della fine del nostro secolo» (come scrive Rossana Rossanda nella sua lucida e partecipe prefazione), più qualcosa d’altro. Una sfida al nostro perbenismo sempre in agguato, uno schiaffo al pregiudizio, un pungolo all’apertura della mente. Giovanni Forti (romano trentaseienne di origine ebraica, ex redattore de Il Manifesto, ex marito di Giovanna Pajetta, padre a tempo pieno dell’undicenne Stefano) incontra a New York tramite un annuncio sul giornale Brett Shapiro, intellettuale suo coetaneo e padre di un bambino adottivo. Forti è da anni sieropositivo, e non nasconde la sua condizione all’amico, che l’accetta insieme a tutte le inevitabili conseguenze: i due decidono di convivere, coinvolgendo nella loro scelta non solo i due figli, ma anche le famiglie d’origine, sempre incombenti e affettuose, totalmente comprensive, e di arrivare addirittura al matrimonio ebraico con rito tradizionale. Di fronte a un rabbino newyorkese, Brett e Giovanni si sposano sotto la huppah, recitando le formule della torah e calpestando i bicchieri di vetro, festeggiati da amici e parenti. Il desiderio di essere una famiglia “vera” è a tal punto impellente, insopprimibile, da richiedere il sigillo del rito, il ritorno alla tradizione più conservatrice e severa, quella della religione ebraica. E ciò che ai nostri occhi cattolicamente italici pare più incredibile, è la totale naturalezza con cui questa scelta viene accettata e condivisa dall’ambiente familiare e culturale che circonda i due compagni: così come ci sconcerta la scelta del coinvolgimento dei due bambini in un ménage tanto diverso dai soliti, non solo ideologicamente, ma proprio nelle abitudini quotidiane, nel sovvertimento dei ruoli, nella divisione dei compiti maschili e femminili. Ci imbarazza la presenza, molto americana e assidua, e per niente ironica, dell’analista-donna, delegata a risanare i traumi, a superare le divergenze in ogni occasione difficile della vita a due; ci infastidisce a volte l’esibizione provocatoria di un epistolario domestico che sembra ingiustificatamente diffuso su episodi troppo particolari e personali. Ma non si può negare al libro la capacità concreta di scuoterci prima ancora che di commuoverci con il resoconto del graduale spegnersi della vita di Giovanni e con la dedizione assoluta, generosa e appassionata di Brett al destino del suo compagno, al punto di convincerlo ad accompagnarlo a Roma, ormai sulla sedia a rotelle, perché lui possa morire dove desidera, tra i suoi, e riposare nel settore ebraico del Verano. Lo strazio della morte di Giovanni risulta dai fatti raccontati con asciutta veridicità, e lo riviviamo un po’ tutti perché ormai sappiamo (chi più chi meno) cosa significa assistere un malato terminale. Eppure davanti a questa morte così accoratamente pianta, ci ritroviamo più fragili e vulnerabili, e allora “ebreo”, “gay”, e quant’altre definizioni si vogliano, appaiono appunto quello che sono: etichette.

 

«L’Arena», 17 febbraio 1994

RECENSIONI

MARTINI

CARLO MARIA MARTINI – ALAIN ELKANN, CAMBIARE IL CUORE – BOMPIANI, MILANO 1993

Cambiare il cuore è l’esortazione che rivolge a tutti i credenti il Cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, in un’intervista concessa ad Alain Elkann e pubblicata da Bompiani. Cambiare il cuore prima ancora dei pensieri e degli atteggiamenti, prima ancora delle abitudini e degli scenari su cui si muove la nostra quotidianità: ed è un cambiamento che si attua ponendosi soprattutto in una posizione di silenziosa e fiduciosa attesa, di disponibilità all’incontro con Dio che, se aspettato con fede, arriva e non delude. Incalzato dalle domande, sempre molto corrette e trattenute, quasi pudiche, di Elkann, il Cardinale Martini si lascia coinvolgere dalle tematiche più varie, spaziando dalla banalità del contingente all’universalità, dal concreto alla teoria. Accenna brevemente ad alcuni particolari biografici (la nascita a Torino da una solida famiglia borghese non particolarmente religiosa, il rapporto più intenso con la madre e un fratello, la passione per la montagna e per il teatro), per soffermarsi più a lungo sulle scelte fondamentali che hanno disegnato i confini della sua esistenza. Dapprima, quindi, la presa di coscienza di quale destino lo aspettasse: «Mi sembra che sia stato tra i dieci e gli undici anni, quando ho incominciato a intuire che Dio voleva davvero entrare in un rapporto personale con me, che io potevo parlargli come a un amico, che c’era tra noi una vera amicizia. In quel tempo ho anche cominciato ad avere il senso della ‘totalità’ di Dio, cioè la percezione che Dio è tutto e può chiedere tutto, la dedizione di una persona e della sua intera esistenza».

In seguito, con la giovinezza, più espliciti si fanno i punti di riferimento culturali, le letture, gli esempi che emozionano e motivano (S. Tarcisio, S. Luigi Gonzaga, S. Stanislao Kostka), per arrivare ai problemi e alle tentazioni adulte su cosa sia la fede, su come conquistarla e mantenerla, narrati attraverso la pregnante metafora dello scalatore sorpreso da un banco di nebbia, e che pure, attaccato alla roccia, attende il ritorno del sole. Con estrema umiltà, il Cardinale confessa quanto può essere difficile oggi esercitare il sacerdozio: «Certo, vi sono stati momenti in cui l’esperienza di essere prete e religioso mi è apparsa particolarmente faticosa, al limite della sopportabilità…ma gli anni non hanno fatto che confermare la bontà della scelta presa all’inizio». Consapevolezza della propria finitudine di creatura, ma anche coscienza di un’ineliminabile tensione all’infinito, che si può raggiungere attraverso la riflessione e il silenzio: «Senza silenzio mi sento dilacerato dalla molteplicità delle cose che mi cadono addosso e che vorrebbero monopolizzarmi. Ho dunque bisogno dell’ascolto di Dio così come ho bisogno dell’aria per respirare».

Ciò che ci sembra più particolarmente e generosamente aperto alle istanze religiose dell’uomo d’oggi, è che il Cardinale Martini torni a parlare delle questioni fondamentali della fede (vita e morte, peccato e redenzione, Chiesa e altre religioni), senza immiserire il dibattito in questioni formali tanto di moda tra altri teologi: la sessualità è un dono, e Martini non parla di limitazione delle nascite; l’aids è una tragedia, e i suoi malati sono fratelli da accogliere, da comprendere. Parole coraggiose anche nei riguardi dei poveri, di chi non ha lavoro, della sua diocesi di Milano e di tutte le questioni politiche, metropolitane e planetarie che siano. Ma soprattutto un richiamo forte e cordiale a chi pratica altre religioni (in primis l’ebraismo), effettuato materialmente con la fondazione della  Cattedra dei non credenti, ormai alla VI edizione in Milano, affinché il confronto riesca ad approdare a una ricerca comune. Il tono di ogni risposta di Carlo Maria Martini è affettuoso, indulgente, senz’altro non dogmatico, di sprone alla nostra potenzialità di arricchimento, ben sapendo che la «fatica del vivere» è di tutti: la nostra, quindi, ma anche la sua, «perché anche coloro che hanno ‘un ruolo’ la condividono senza sosta né sconti con ogni uomo e donna, vecchio e bambino, malato e disperato della terra».

 

«L’Arena», 3 febbraio 1994

RECENSIONI

COCTEAU

JEAN COCTEAU, IL CAMMINO DI UN POETA – ARCHINTO, MILANO 2015

Questo ultimo (e postumo) libro di Jean Cocteau vide la luce in Germania (paese che il poeta riteneva più ricettivo della Francia, «con il suo retaggio filosofico, metafisico e metapsichico») nel 1953, e solo oggi l’editrice Archinto ce lo propone con un’esaustiva prefazione di David Gullentops. Non propriamente un’autobiografia, né un libro di memorie: piuttosto, una serie di illuminanti considerazioni sull’esistenza, sull’arte, sulla creazione di chi ha fatto della poesia la sua missione. A partire da una rivendicazione esplicita al diritto di invenzione e ricostruzione fantastica della propria vicenda umana: «Il poeta cammina avvolto da una nebbia di inesattezza, di parole mal comunicate, di atti che non ha commesso, di leggende». Chi scrive è destinato a non essere compreso dai lettori («Anche se la gente lo legge, essa è attratta solo da quel che le sembra corrispondere a ciò che prova. Non lo legge. Si legge. Non lo guarda. Si guarda.»; «Quel che accade nell’anima di un poeta è lontano e incredibile»), è individualista ed eretico («Io sono un anacronismo. Un uomo libero»), si allontana da ogni norma, «si accanisce a disobbedire», sempre in cerca di «un vero che non è quello degli altri». Cocteau racconta la sua nascita nel 1889 nel Seine-et -Oise «da una famiglia semplice e amabile», segnata da «un misto di conformismo e anticonformismo», e subito modifica o censura alcuni eventi biografici fondamentali, come il suicidio del padre. Si sofferma sulle amicizie parigine degli anni ’20, sugli incontri arricchenti (con Stravinskij, Picasso, Radiguet, Satie, Proust, Rodin, Maritain, Apollinaire, Jacob, Modigliani, Cendrars, Poulenc), e su quelli più conflittuali con Gide o Mauriac. Da tutti loro assorbe «un’audacia interna invisibile», che lo fa «correre più veloce della bellezza» e gli insegna «quell’insulto alle abitudini senza il quale l’arte ristagna e resta un gioco». Da allora Jean Cocteau entra «in lotta contro se stesso e contro gli altri», ma solamente con l’intento di raggiungere un unico scopo, quello che ogni artista si deve prefiggere: arrivare a comprendere «l’estremo di sé», le proprie ossessioni, ma anche il proprio inesauribile e imperdonabile desiderio di felicità e di amore, immodificabile come ogni destino. L’arte con cui si confronta non è solo quella della scrittura: umilmente impara a tentare le vie sconosciute della pittura, della cinematografia, del teatro, e addirittura della fabbricazione artigianale di arazzi. Perché misurarsi con la creazione significa annullarsi a favore della propria opera, farsi sacerdoti di una possessione e di un’energia irrazionale simile all’inconscio desiderio erotico, collezionare «le più grandi ingiurie e i più grandi elogi», ben sapendo però che «la libertà trova sempre la sua ricompensa».

«succedeoggi», 7 aprile 2015