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RECENSIONI

MARZORATI

SERGIO MARZORATI, RITORNO A ZAGABRIA – SELLERIO, PALERMO 1995

Dopo cinquant’anni di assenza, lo scienziato Felix Glavan torna a Zagabria, abbandonata precipitosamente con la famiglia all’epoca delle persecuzioni razziali contro gli ebrei. A richiamarlo in patria, con la promessa di un reinserimento nella sua città natale e di una reintegrazione delle case e dei beni sequestrati dai comunisti, è un giovane funzionario del nuovo stato croato, Stijepan Radic, la cui famiglia aveva conosciuto la famiglia Glavan, mantenendone nel tempo un ricordo ammirato e solidale. Separati dall’età, da esperienze diverse e da funzioni contrastanti (Radic è un giovanotto di grande sensibilità ed entusiastiche letture, Glavan un sessantenne di successo che ha deciso di rimuovere il passato, cancellandone le tracce dalla memoria. Il primo è credente e fiducioso nelle sorti dell’umanità; il secondo è ateo, scettico, privo di affetti), tra di loro si svolge una civilissima e partecipe conversazione nel corso della quale lo scienziato ebreo si arrende ai ricordi: affiorano così facce e mozziconi di frasi in croato, luoghi e sensazioni a lungo soffocate.
Glavan si rivede bambino decenne, brutalmente costretto a interrompere un brano di Haydn studiato al pianoforte per fuggire a Trieste con la famiglia: rivede la nonna fulminata mentre si aggrappa alla rete di confine, e lui e la mamma che ne trascinano il cadavere in terra italiana.
Alla pacata rievocazione della storia straziante di Glavan si contrappongono i luminosi accenni di Radic alla sua esistenza attuale: la giovane moglie, i bambini di cui è orgogliosissimo, il suo impegno nel riscattare un passato collettivo di cui si sente corresponsabile. Per entrambi, dimenticare è impossibile, la memoria diventa condanna. Glavan ricorda la pazzia della madre, preda di ossessioni, di persecuzioni introiettate e oggettivate che non le lasciavano scampo: si colpevolizza per aver ceduto alla necessità di ricoverarla in una clinica psichiatrica, rinunciando – a causa della malattia materna – alla donna che amava. Stabilitosi in Austria, il suo destino di ebreo scampato all’olocausto gli condiziona tutta la vita e perciò di fronte alle insistenze di Radic perché accetti una ricompensa dovuta o meritata da parte dello stato croato, e perché rientri a Zagabria, Glavan dice di no. Un no tranquillo e meditato, consapevole che il passato non si può recuperare: il dolore sofferto è per sempre, irrimediabile, mai giustificato.
Questa storia personale e pubblica, privata e collettiva, ci viene narrata da Sergio Marzorati, autore schivo e parco nelle pubblicazioni quanto elegante ed essenziale nella prosa. Il romanzo è compreso nella collana  La memoria  dell’editrice Sellerio, e non potrebbe essere altrimenti.

 

«L’Arena», 24 aprile 1996

RECENSIONI

SARCHI

ALESSANDRA SARCHI, VIOLAZIONE – EINAUDI, TORINO 2012

In questo romanzo di Alessandra Sarchi si fronteggiano due nuclei familiari, due ambienti culturali e soprattutto due diversi modi di affrontare l’esistenza. La prima famiglia è quella costituita da Primo Draghi -possidente terriero e costruttore edile-, sua moglie Genny, le loro due bambine, la nonna e alcuni inservienti rumeni. Orgogliosamente consapevole delle proprie possibilità economiche e delle proprie ambizioni, questa famiglia vive a pochi chilometri da Bologna, in una tenuta agricola che vorrebbe trasformare in sito residenziale, aggirando fraudolentemente qualsiasi vincolo paesaggistico, violentando il territorio con inqualificabili abusi, sfruttando la manodopera straniera e imbrogliando malcapitati e ingenui acquirenti. Solidali nella loro disonestà finalizzata al puro arricchimento senza scrupoli, i coniugi Draghi sono tuttavia genitori modello, teneramente attenti allo sviluppo delle figlie: in particolare affettuosissimi con Vanessa, gravemente disabile. Di tutt’altro spessore etico e intellettuale la seconda coppia, formata dall’architetto Alberto Donelli e dalla ricercatrice universitaria Linda, che vivono freneticamente in un piccolo appartamento del centro città, insieme ai due figli Filippo e Martina: nostalgicamente attratti dal recupero di una dimensione più umana del vivere, all’interno di spazi naturali e incorrotti. I Donelli quindi abboccano all’amo astutamente offerto loro dai Draghi, e acquistano una casa nella loro tenuta, senza sospettare di stare sprofondando in un tranello economico ed ecologico.
Alessandra Sarchi ha ideato un plot narrativo di indiscutibile interesse, che sfiora diverse e impegnative tematiche: rancori familiari e ambizioni di riscatto sociale, arrivismo e corruzione, sfruttamento dell’immigrazione e cementificazione delle campagne, abusi edilizi e compromessi politici. Ma la resa stilistica che ne deriva risulta piuttosto deludente. Il tono è spesso involontariamente didascalico, quasi che l’autrice si sentisse in dovere di spiegare al lettore vicende storiche, evoluzioni di costume, scoperte scientifiche, tesi filosofiche man mano che i protagonisti del romanzo si presentano sulla pagina con le loro specifiche professionalità e ideologie. Così della neurologa Linda veniamo a conoscere le ipotesi di studio sui «segnali intrasinaptici» e sulle scoperte di Mc Culloch e Pitts; di suo marito Alberto scopriamo che si tormenta sulla «dicotomia sviluppo umano-rispetto dell’ambiente», pronto tuttavia ad abdicare ai suoi ideali per banali interessi di carriera; dal costruttore edile Primo Draghi, fedele al motto «urbanizzare e vendere», recepiamo formule di successo basate su un realistico buon senso capitalistico: e contemporaneamente veniamo catechizzati da allarmanti e fosche previsioni sul surriscaldamento terrestre, sullo smaltimento dei rifiuti tossici, sulla disumanizzazione della medicina, sulla corruzione morale scaltramente inoculata dai media nelle anime più indifese. Anche i dialoghi sembrano spesso costruiti e artefatti, con giardinieri che parlano come libri stampati, immigrati clandestini eloquenti, ragazzini insopportabilmente saccenti e poco credibili. Al punto che dopo l’omicidio efferato con cui si chiude il volume, a scapito dell’unico personaggio davvero innocente e nobile, ci imbattiamo in uno scambio di battute di questo tenore: «Ma perché l’ha fatto?» «E saperlo cosa ti cambia? Credi che un atto criminale sia maggiormente pensato e voluto rispetto a un atto innocuo? Questa differenza, secondo me, non esiste».
Forse una vicenda ricca di stimoli e provocazioni come quella ideata da Alessandra Sarchi meritava un restyling maggiormente accurato, per evitare ingenue o noiose banalità che possono infastidire anche il lettore più bendisposto.

 

«Leggere Donna» n.166, gennaio 2015

POESIE

LEZIONE DI SOLITUDINE

(Yo quiero estar donde estuve.
Pedro Salinas, La voz a ti debida, LIX-26)

I

Non mi trovava
mio cugino Carlo
quel pomeriggio che giocavamo
a nascondino, ed ero l’ultima
da recuperare. Gli altri
correvano per aiutarlo:
a spiare negli anfratti
del prato, nel parcheggio
vicino, tra gli alberi e la siepe.
Ma dimentica di loro
e di tutto
giacevo nel fosso
a guardare il cielo
che mi perdonava.
I bambini come matti urlavano
insulti a perdifiato,
e io tacevo.

II

Sotto il melo nell’orto
leggevo Pattini d’argento
in assoluta solitudine
e soddisfatto esilio,
immersa nella pagina
(nella polpa d’arancia
che sorbivo), se non fosse
intervenuta abietta l’inquietudine,
l’improvviso spavento
di scoprire sul tronco dell’albero
un bruco, un verme, o un millepiedi
(forse un drago per magia
rimpicciolito), così vicino
alla mia guancia, guardarmi
nudo e inerme,
ma attento e infastidito:
io colpevole di lesa maestà
e disdicevole intrusione
in domicilio, costretta
a scappare via.

III

Lo aspettavo seduta sul muretto,
e lui tra tanti pensieri appena mi guardava.
I suoi operai lo temevano:
non indossava la tuta
ma una bianca camicia,
una cravatta. Allora mi affrettavo
al suo fianco, orgogliosa.
Così alto, importante. Esplodeva
la sirena della fabbrica,
inchinandosi.
Mio dio, che mano grande
aveva mio padre! E come la mia
nella sua si sentiva sicura:
ma anche, perdendosi,
aveva paura.

IV

«È lei la figlioccia? »
chiedeva il parroco alla mia madrina.
«Così diversa dalle sorelle!» proseguiva,
e io bambina pronta alla cresima
confondevo figlioccia e figliastra,
soffocando nel cuore l’antico sospetto,
di essere figlia adottiva.

V

Il mio primo dolore
me lo ricordo bene.
A tavola, con gesto sbadato,
rovesciai l’acqua dal bicchiere,
sporcai la tovaglia,
e avevo quattro anni.
Il rimprovero della mamma
fu solo un pretesto
alle lacrime.
Non per quello piangevo,
ma per l’improvvisa rivelazione
che tutto passava e finiva:
quel pranzo, il bagnato,
la gente del mondo,
ogni aiuto futuro.
Saremmo invecchiati e poi morti
– nessuna eccezione.
Quello a cui non si deve pensare,
invece a me era venuto in mente.

VI

Non lo sapeva nessuno
in casa,
che se si guardavano le tende
del salotto dal divano
le pieghe in alto nascondevano
il profilo di un signore:
fronte, naso, mento.
Se a un soffio di vento
si muovevano,
il signore sorrideva.
Nessuno lo sapeva.
Solo io
premevo quel segreto
nel mio cuore.

VII

A Messa mi sentivo colpevole
perché non riuscivo a stare attenta,
e vagavo con gli occhi
con la mente su fiori facce affreschi,
sui ceri sottili che imploravano
una grazia a San Tommaso:
forse ogni fievole candela
misurava la vita dei fedeli presenti!
Quelle lunghe i bambini, e quella
quasi spenta la vecchia addormentata
al primo banco. Chissà poi che l’età
non c’entrasse, e invece per caso
una strana malattia,
un tremendo incidente.
Spaventata spiavo dove fosse
la candelina mia.

VIII

A scuola dalle suore,
più della maestra
e della compagna col braccio di legno
(«Tocca, non fa male, il mio risuona
e il tuo no!»), più degli odori
del refettorio o del boschetto
con la madonnina,
la mia salvezza era la finestra:
guardare fuori il cielo, sfiorare
con la bocca la brina sul vetro
appannato.
Oppure supplicare purezza nel confessionale,
«vade retro!» con sdegno al peccato
dei pensieri: perché ero una bambina
buona.

IX

Alle elementari
mi innamoravo dei ragazzini biondi,
col magone nel cuore: Silvano
che oggi fa il meccanico, Roberto
ansioso di arrivare in ritardo,
e poi Giuseppe, quello del bigliettino
(da grande ti sposo)
nascosto nella tasca del grembiule.
Li guardavo in silenzio dal mio posto,
i miei cari biondini; con tremante
emozione intuivo l’amore,
l’amore che è un dardo.

X

Con l’influenza allora
si rimaneva a letto
per una settimana o più.
Ogni tanto si affacciava alla stanza
Maria, a raccomandare pazienza:
«Mica stai per morire!»
Poi appariva lei con la minestra
in brodo, lo sciroppo,
un’altra scusa o una carezza.
Quasi quasi infermiera
e mai severa se stavo male,
con una tenerezza nella voce
che pensavo di non voler guarire:
subito dopo andava via,
e mi sentivo gesù bambina
in croce, alla sua porta chiusa.

XI

«Faccio male al lenzuolo
se lo graffio con le unghie
dei piedi, faccio male
alle giunture dei marciapiedi
se le calpesto
al suolo, faccio male
alle zanzare se le uccido,
al mio angelo custode
se non sono gentile,
alla mamma al papà
se li deludo, al mendicante
se non sono generosa.
Una cosa, per favore,
una cosa sola tra le tante
sbagliate e accusatorie
che mi salvi in eterno,
non mi porti all’inferno».

 

In Bloc Notes n. 64, maggio 2014 e in L’attesa, Marco Saya edizioni, Milano 2018

POESIE

IL RAGAZZO KEVIN

(Omaggio a Elio Pagliarani, rileggendo La ragazza Carla)

1

Di là dal ponte della ferrovia
una trasversa di Lodovico il Moro
c’è la casa di Kevin e di sua madre.

Il fratello più grande ha nome Christian
vive da solo o con qualche donna
poco lontano, in tre locali, guadagna bene
col suo negozio di ferramenta, con altri giri
e affari.

Son posti grigi questi, nuvolosi
di pozzanghere e nebbia,
sotto il cielo colore di lamiera

Chi c’è nato li conosce a memoria
non si ribella non cerca altrove:
le abitudini si fanno con la pelle
e la pelle di Kevin si fa dura
col tempo con poco sentimento.

2

Il cemento i palazzi scarsa erba
e tre alberi soli

fortuna che i tram
fortuna che nei tram di mezzogiorno
la gente ti preme ti urta ti tocca

altrimenti nemmeno ti ricordi del tuo corpo
che nessuno lo accarezza.

3

Kevin Bianchi fu Bruno di anni
diciassette primo impiego pony express
alla Barona
si impomata i capelli in una cresta
pantaloni abbassati sul sedere
e le scarpe due numeri abbondanti

che ridere che piangere

non avere pensieri o parole per dirli
ma girare il quartiere sgasando il motorino
le consegne veloci senza mance
o sorrisi

è questo dunque
che ci abbiamo nel sangue?

Basta solo che arrivi
la sera alle sei, e smontare
e mandare tutti quanti a farsi fottere.

4

Sua madre fa la sarta a domicilio
non sopporta il casino della stanza di Kevin
non le piace la musica che ascolta
il suo ragazzo. L’avrebbe voluto più alto

più bello, e magari vederlo
alla tv, tanti soldi
e un poco di successo di foto
sui giornali

invece lui sta sempre stravaccato sul divano
o connesso al pc fino a notte
non racconta mai niente, a volte si ubriaca
a volte fuma erba
mangia male, pelle e ossa, e se lei gli domanda
tira il collo all’indietro ed ecco tutto.

Ogni tanto suo fratello passa a prenderlo
chissà dove lo porta chissà cosa gli fa fare
donne nere o romene che magari si piglia

qualcosa di brutto ma ci vuole pazienza.

5

Si sente tutto, quello che dicono i vicini
quello che fanno, in bagno a letto,
gli odori musulmani di cucina.
Kevin vorrebbe farli fuori col mitra
A THIRD WORLD WAR

SENT FROM THE FUTURE TO EXTERMINATE
WHAT IS LEFT OF THE HUMAN RACE
TERMINATOR ! DISTRUGGERLI ! ANNIENTARLI !

va troppo spesso al cinema
e i film che Kevin non li può soffrire
Wim Wenders Woody Allen Kusturica
ma lui non li capisce preferisce porcate fantascienza cazzotti spie
vorrebbe imparare le arti marziali, è troppo magro
eppure un pugno basterebbe a un suo cliente in cravatta azzurra
sangue dal naso spaccare i vetri di un ufficio bucare gomme ai suv
fare cose indecenti a quella signorina tacchi alti
e la borsa vuitton

all’insaputa di sé si mette in lotta con l’ambiente

Kevin è un bambino un ragazzino fa il fattorino

ha una voglia
di piangere di compatirsi
ma senza fantasia
come può immaginare di commuoversi?

6

Le nove di mattina al 3 febbraio
piove che dio la manda
quella gente che marcia al suo lavoro
diritta interessata necessaria
Kevin non la sopporta, se potesse, Kevin:

(il tuo cuore sorpreso, spaventato
il cuore impreparato)
e la gente –
tutta così?

Accelera la moto, sgomma sul bagnato, non si ferma al semaforo
e spaventa i passanti, li schizza col fango,
per la rabbia con sua mamma, suo fratello, il padre morto
e la casa
Casa mia casa mia
per piccina che tu sia

e le donne
(Quante scuse le donne, quante moine
per non lavorare)

all’incrocio di via Meda
Kevin investe uno in bici, gli si rotola addosso,
sente gli ossi spezzarsi sangue in bocca e non urla
che botta che paura,

sono in due sull’asfalto sdraiati e intorno
la pioggia sirene rumori
muove le dita Kevin
raspa la terra per aggrapparsi e non gli riesce:

solitudine imperio libertà.

Quanto di morte noi circonda e quanto
tocca mutarne in vita per esistere
ma questo è sopravvivere non vivere
resistere appena andare avanti
non capire non chiedere senz’altro
non sognare i sogni lasciamoli ai più piccoli
agli illusi chi crede al paradiso

se basta un motorino per finire
agli anni diciassette e intorno accorre folla
scuote la testa scuote la coscienza
pietà di noi e orgoglio con dolore.

 

In Incroci n. 27, gennaio-giugno 2013 e in Omaggi, Einaudi, Torino 2017.

RECENSIONI

GIVONE

SERGIO GIVONE, STORIA DEL NULLA – LATERZA, BARI 1995

Scrivere un libro sul nulla, come concetto che percorre tutta la storia del pensiero occidentale, ha senso? Scrivere, cioè, proprio sul nulla assoluto, su ciò che non è, sul non-ente (e non sull’assenza, la mancanza, il nulla relativo; o su quel nulla particolare, storicizzato, che è il nichilismo): è possibile?
L’ha fatto il filosofo Sergio Givone, raccogliendo in  Storia del nulla (Laterza) saggi che spaziano dai presocratici ad Heidegger, da Leopardi a Celan, e indagano appunto ipotesi filosofiche e suggestioni letterarie riguardanti il non-essere.
La tesi di Givone (ripresa in parte da Severino, ma per giungere a conclusioni antitetiche) è che il concetto del nulla sia il grande rimosso della filosofia occidentale, quasi un fenomeno carsico che si affaccia alla riflessione teorica a distanza di secoli, là dove logica (che vieta di pensarlo) e metafisica (che lo nega) cessano di esorcizzarlo, cancellandolo come alternativa all’essere; mentre si ripropone nelle filosofie che ammettono il nulla come fondamento dell’essere, ed esplorano un’ontologia della libertà che da Plotino attraverso Schelling arriva al nostro Pareyson.
Il nulla indagato da Givone non è una forma di negatività opposta all’essere (non ricalca, quindi, la Grundfrage di Liebniz: «Perché l’ente anziché il niente?»), bensì il principio di libertà che permette all’essere la scelta fondamentale tra l’esistere e il non esistere.
Il nulla, dunque, come libertà estrema; luogo per eccellenza di tutto ciò che è possibile: un nulla che assomiglia non poco a Dio, «all’abisso della libertà» che alcuni chiamano Dio.
Questo «discorso temerario» mutuato da Luigi Pareyson, che approssima scandalosamente Dio al nulla, in un’esperienza vorticosa coniugante perdizione e salvezza, non è tanto interessato a un percorso di fede, o a un’attribuzione di verità al Dio cristiano piuttosto che al Dio della tragedia greca.
Scegliere Dio è scegliere il senso dell’essere, la libertà, e quindi il nulla che ne è il fondamento. Filosofia e religione accomunate dalle stesse emozioni (stupore, gioia, angoscia di perdita, orrore della fine) di fronte al miracolo dell’esistenza, combattono in Givone la stessa battaglia contro l’indifferenza del nichilismo, che oscura il senso dell’essere e condanna l’uomo all’assenza di scopo, alla pura apparenza.

 

«L’Arena», 20 maggio 1996

RECENSIONI

RAMEY MOLLENKOTT

VIRGINIA RAMEY MOLLENKOTT, DIO FEMMINILE – MESSAGGERO, PADOVA 1995

L’autrice è una teologa protestante americana molto nota per la sua competenza di biblista e per il suo impegnato femminismo. In questo libro, partendo dalla tesi, tanto dibattuta quanto ormai scontata, che l’origine del sessismo e della dominazione maschile si possano situare nel linguaggio, prodotto da un inconscio marchiato dalla cultura patriarcale, propone con forte vis polemica un’operazione difficile e senz’altro anticonformista, quale quella di «cambiare il linguaggio liturgico», adattando alle nostre espressioni religiose tradizionali il «linguaggio inclusivo».
Così viene definito in area anglosassone quel modo di esprimersi che non fa riferimento a un sesso specifico, o li include entrambi, con lo scopo di poter parlare di un ente supremo che trascenda da caratteristiche sessuali peculiari: non più God=Dio (termine che rimanda in modo marcato a un immaginario maschile), ma preferibilmente Divinità, Deità, Essere, Uno. O, ancora, l’uso di pronomi neutri (quali l’inglese “it”) e di particolari circonlocuzioni onde evitare la meccanica associazione a caratteri virili della divinità.
Virginia Mollenkott distrugge stereotipi per proporre una divinità tenera, materna, che dà vita e nutre; perché davvero Bibbia e Vangelo presentano frequentemente immagini femminili applicate a Dio: dio padre e madre, dio partoriente, dio che allatta e levatrice, dio donna di casa e dio simile a tanti animali al femminile (aquila, chioccia, orsa, pellicano femmina), dalla Genesi all’Apocalisse, passando soprattutto attraverso i profeti, ma non trascurando i Vangeli.
Molto toccanti sono le pagine sul pellicano femmina, che restituisce alla vita i piccoli trucidati dal padre spargendo su di loro il suo sangue, e assurgendo così a simbolo (fin dai bestiari medievali) del sacrificio di Cristo. Altrettanto coinvolgente risulta il capitolo sulla creazione della donna, definita in ebraico “Ezer”, aiuto, sostegno per l’uomo. Tale termine viene attribuito solo a due entità: a Dio e a Eva, entrambi chiamati a un servizio che deve essere reciproco tra uomo e donna, tra Creatore e creature.
Scrive la Mollenkott : «Sì, io credo che anche Dio debba servire gli uomini. La nomina di Adamo ed Eva da parte di Dio fu sicuramente un atto di sottomissione di Dio, un atto con cui Dio volutamente faceva un passo indietro e tracciava dei limiti al suo io, per divenire dipendente dalle sue creature».

E ancora Dio-aquila, che insegna agli aquilotti a volare e a essere autosufficienti, è un dio che sta cercando di creare esseri uguali, capaci di non sfruttarsi unilateralmente, ma semmai di scoprire una nuova vicendevole solidarietà. Le immagini bibliche di Dio l femminile costituiscono, secondo l’autrice, una specie di «resoconto minore», a fianco dell’immaginario maschile (spesso addirittura bellicoso, violento) predominante: eppure ad esse dovremo saper ricorrere se vogliamo favorire la crescita di una coscienza religiosa che sia fondata sull’uguaglianza e la reciprocità dei sessi.
In un breve excursus storico all’inizio del volume, La Mollenkott suggerisce l’ipotesi che le chiese occidentali (frequentate ormai quasi esclusivamente da fedeli donne) siano così disertate dagli uomini perché essi sarebbero «inconsciamente respinti dall’idea di essere chiamati a un’intimità con un Dio esclusivamente maschile». Ostacolo che nei secoli è stato superato dal clero maschile con un escamotage non solo linguistico: la Chiesa è diventata madre, l’anima del sacerdote sposa di Cristo.
Culturalmente, quindi, alle soglie del duemila, si impone di imparare a parlare di Dio in termini inclusivi sia per il maschile sia per il femminile: l’Essere perfetta/o nell’unità, della cui natura divina ogni creatura è chiamata a partecipare.

 

«Leggere Donna» n.57, luglio 1995

RECENSIONI

CLEIS

FRANCA CLEIS, LA PIRAMIDE DI PESCHE DELLA SAGGIA REGGITRICE  – LUCIANA TUFANI, FERRARA, 2007

Franca Cleis, scrittrice e studiosa di storia del femminismo, cofondatrice degli Archivi Riuniti delle Donne Ticino, che diresse per molti anni, ha dedicato e dedica tuttora la sua esistenza alla ricerca, alla diffusione e alla difesa della cultura femminile nel suo paese. Cinque anni fa ha pubblicato per le edizioni Tufani un volume sulla vita e il pensiero di una straordinaria donna dell’ottocento, Angelica Cioccari-Solichon, affermata pedagogista e divulgatrice scientifica, attivista politica e emancipazionista, descrivendone con ammirata partecipazione il coraggioso e anticonformista impegno in favore dello sviluppo intellettuale e professionale delle donne. Angelica Solichon nacque a Milano nel 1827, crebbe a Zurigo e morì nel 1912 nel Canton Ticino, ma visse anche a Palermo e a Napoli, all’epoca del colera, seguendo il marito medico Carlo Cioccari, e lavorando con dedizione al suo fianco in favore della classi meno abbienti. Fu maestra d’avanguardia, e fautrice di numerose iniziative didattiche rivoluzionarie per l’epoca, autrice tra l’altro nel 1855 del primo libro di testo di economia domestica  L’amica di casa, che conobbe larga diffusione sia in Svizzera sia in Italia. A questa eccezionale figura di donna, Franca Cleis dedica questo documentatissimo volume, arricchito di una ricca bibliografia e di numerose testimonianze della pubblicistica coeva, che si offre al lettore suddiviso in due parti. La prima sezione, letteraria e d’invenzione dell’autrice, è animata poeticamente dalla rivisitazione empatica dei tempi e dei luoghi in cui visse e si prodigò Angelica Solichon.

«Ariosa ed emozionale, la scrittura evoca scenari intimi, domestici, familiari, con grande vitalità sensoriale – il profumo della pagnotta, il sapore dei vròcculi arriminati, la squisitezza della piramide di pesche, la linfa di annoso castagno- che permea anche il racconto dei momenti pubblici, ufficiali», come ben commenta nella sua prefazione la Professoressa e storica Emma Scaramuzza. La seconda parte del libro affronta invece, con scrupolo documentaristico e stile oggettivo, non solo la biografia ufficiale della Solichon, ma anche aspetti e questioni sociali e politiche significative della storia ticinese e italiana tra Otto e Novecento.
Un lavoro accurato e documentato, questo di Franca Cleis, che ha avuto il pregio di far conoscere oggi a un pubblico più vasto l’illuminante e generosa esperienza intellettuale e di vita di una precorritrice delle istanze femministe di uguaglianza e sviluppo: lavoro a cui Franca si è dedicata con disinteressata passione, riuscendo addirittura a impedire lo smantellamento della tomba di Angelica, e salvandone così anche l’unica immagine fotografica rimastaci, e restituitaci in questa sua importante e vitale ricerca.

 

«Leggendaria» n. 94, luglio 2012

RECENSIONI

RIVA

FRANCO RIVA, COME IL FUOCO. UOMO E DENARO – CITTADELLA, ASSISI 2011

Quando si parla del denaro, o si tenta di definirne la natura, ci si scontra inevitabilmente con la sua ambivalenza strutturale. Coppie di sostantivi contrapposti possono alludere alla sua essenza (fine/mezzo, credito/debito, libertà/necessità, trascendenza/immanenza, sogno/incubo), attributi incompatibili ne indicano l’enigmatica ambiguità: sporco/pulito, giusto/ingiusto, condannato/ idolatrato, relativo/assoluto, materiale/immateriale.
San Francesco chiamava il denaro  «sterco del demonio», per Calvino esso esprimeva la benevolenza di Dio, per Sartre aveva un carattere «magico». Il filosofo Franco Riva gli dedica uno stimolante e approfondito studio, derivando da Eraclito la considerazione che l’oro, come il fuoco, è «mutamento scambievole di tutte le cose». Quindi, «il denaro brucia». Distrugge ed edifica, salva e danna: ma non va assolutamente demonizzato, né fanaticamente adorato o difeso.
Il denaro è diventato un feticcio universale, una sorta di religione globale, che – come tale – «ha i suoi sacerdoti, il suo popolo, i suoi templi, le sue liturgie, i suoi riti». Qui l’aculeus dell’autore si fa particolarmente sarcastico e feroce, nel descrivere quelle austere chiese moderne che sono le nostre banche, con le aree riservate per i clienti bisognosi di conforto e indicazioni e con i competenti consiglieri finanziari : una simbologia tutta debitrice ai confessionali e alle guide spirituali oggi tanto disertati. E ricorda che tuttora sul dollaro è stampata la frase «confidiamo in Dio».
Una nuova divinità, quindi, il denaro, che permea e invade la nostra quotidianità, si insinua negli ambienti domestici e lavorativi, prolifera e domina qualsiasi attività del nostro tempo libero: dallo sport al turismo, dalla contemplazione di opere d’arte all’utilizzo dei servizi igienici nelle stazioni.
Ormai paghiamo un ticket per qualsiasi espressione della nostra volontà: «La contraddizione totalitaria della liberissima società dei consumi non consiste nel ridurre tutto a consumo, ma nell’imporre senza che nessuno protesti sul serio… dei ticket per accedere al diritto stesso di consumare».

Se Fromm aveva potuto distinguere tra essere e avere come condizioni in contrasto nell’esercizio della propria umanità, oggi «il denaro ha assorbito anche l’essere… perché senza denaro non si esiste», e ancora: «Usciti dalla civiltà umanistica dell’essere e piombati nella civiltà moderna dell’avere, gli uomini si riconoscono soltanto in ciò che hanno e in ciò che consumano… e il possesso diventa l’unico criterio di valore». È proprio tutto così assolutamente sconfortante? L’homo oeconomicus ha assorbito totalmente ogni altra caratteristica dell’essere umano? Niente e nessuno si sottrae al dominio schiavizzante del capitale? L’accoglienza, l’ospitalità, l’uso della parola, la libertà di pensiero, la democrazia stessa finiscono per subire passivamente e quasi ingenuamente il diktat della pecunia. Che è diventata lingua universale, come la musica e la matematica. Sembra allora di sentire il grido di ribellione di chi rifiuta un’omologazione assoluta nel prostrarsi al disumanizzante nuovo credo: quali valori si sottraggono ad esso? La verità, la fede, i diritti umani, la giustizia, la difesa dell’ambiente, la gratuità del dono, la solidarietà… Ma ne siamo certi, o fingiamo un candore da anime belle che preferiscono la cecità all’ efferatezza del realismo? Siamo forse «tutti economisti spietati nei traffici quotidiani con il denaro, e tutti moralisti solleciti nelle intenzioni?» Anche l’etica del lavoro, la celebrazione del sudore della fronte deve ormai inchinarsi di fronte a un’incontrovertibile evidenza: «Non è più il denaro che dipende dal lavoro, ma il lavoro che dipende dal denaro», soprattutto dopo la finanziarizzazione speculativa dell’economia.
Cosa ci può salvare, a questo punto? Franco Riva richiama tutti a una «resistenza silenziosa ed eroica», a una dignità dell’impegno della vita comune, a un ripensamento dei propri valori: allora anche il denaro può essere di aiuto nel soccorrere chi si trova in difficoltà, nel promuovere la cultura, nel riequilibrare la giustizia attraverso il risarcimento piuttosto che con la vendetta, nel recuperare l’idea della propria professione come pienezza e soddisfazione di vita.

 

«Mosaico di pace», 19 marzo 2012

POESIE

IL SILENZIO, LE VOCI

Della parola è l’ombra,
la parte scura, il non detto.
La osserva sola, e sospesa,
come ingombra l’aria, intorno,
e dura, e pesa.
Perfetto, lui tace.
Conserva l’eco,
la pace.

***

La ferita che dura
se non la tocchi guarisce da sola.
Nel silenzio è la cura:
diffida, diffida della parola.

***

Ritirarsi, ritirarsi.
Lasciare spazio al vuoto.
Tacere nel brusio,
nel mormorio.
Cercarsi nell’ignoto.

***

Senza parole, immobile,
troppo oscuro per noi,
troppo lontano:
il dio che amiamo tace
quando permette al male
di essere nostro male. Non vuole
che capiamo, noi zitti
e lui incapace di farsi perdonare,
terribile e bambino.
Libertà che temiamo
è il nostro e suo destino,
dio dell’indifferenza
e dio della pietà.

***

Si schiudono come fanno i fiori,
appena appena, leggere, con pudore,
impaurite quasi dal potere che hanno,
le parole d’amore. E promettono,
sincere finché durano, sospese
dentro al fiato in cui vivono.
Poi sfinite sulle labbra dell’amato
lasciano che sia il silenzio a prevalere.

***

Riconosci la mia parola nel mio silenzio.
Fa’ tuo il tuo nome che taccio.
Intorno, anche l’aria è di ghiaccio.
Riconosci nel mio non dire il mio patire.

***

Baciarti sulle labbra la parola
che a fatica pronunci, a fatica:
quasi avessi promesso di non dire.
Aspirarla con il fiato appena,
mescolarla al mio respiro, e confonderla.
Che non abbia paura, ascoltandosi,
di restarsene lì, irrimediabile, sola.

***

Mi aggrappo alla tua ultima parola,
mentre non ti voltavi
e scendevi le scale.
Così leggera e innocua:
come un ciao che non fa male.
Però non era ciao,
era un sottile strappo
pronunciato di gola, involontario
forse, ma dichiarato.
Risalirai le scale?
Ridirai la parola?

***

Può mentire il silenzio?
Forse come un’alzata di spalle,
un’occhiata distratta,
il gesto inadeguato
con cui ci si scusa senza convinzione.
Così il silenzio tace,
rassegnato a una verità
contraffatta, alla finzione.

***

La parola non concede spazio,
ogni parola.
Ogni parola toglie spazio
alle altre. Le divora.
Detta per sempre,
è implacabile.

E rimane così,
dura, perfetta.
Immodificabile.

 

In Il silenzio e le voci, Nomos, Busto Arsizio 2011 e in Gli Stati Generali, 29 giugno 2020

POESIE

IL PROCESSO

(Omaggio a Mario Luzi, rileggendo Presso il Bisenzio e altre poesie da Nel magma)

 

Hanno telefonato, dicono che verranno
già che si trovano a passare dalle mie parti.
Sono due coppie, più giovani di me e più impegnate:
chierici rossi, o neri; a lume di chiesa o d’officina
(per dirla con Montale).
So già cosa m’aspetta.
L’ennesimo processo, in questi anni d’oscurità e di passione.
Anni vissuti a cuore duro, sola, coi polsi che tremano,
sempre sulle tracce
d’una felicità non mai raggiunta, o fuggita di mano.
Eccoli che suonano; entrano in casa come da padroni,
imbaldanziti e arcigni,
logorati dalla lotta e più che dalla lotta
dalla sua mancanza umiliante.
Siedono sui divani, dopo gli inevitabili saluti
imbarazzati. Penso a questo incontro
se si può cavarne un senso che non sia di rimorso e basta,
e sto senza parole aspettando l’affondo.
Le coppie danno segno di fastidio, ma non fiatano
e masticano gomma guardando me o nessuno;
forse fuori dai vetri, il giardino e gli ulivi,
il lago raso rigato da un solo cigno.
Inizia uno dei due mariti, tra ironico e furente.
«Tu? Non sei dei nostri». Mi fissa a lungo e attende.
Crede. Da sempre milita nella fede di Cristo, ostinato
nel lavorio d’un animale strano tra formica e talpa.
«Guardati, guardati d’attorno». E sento il privilegio
della mia condizione, la colpevole ignavia
che mi fa prigioniera.
Cerco per la mia mente un nido,
così taccio davanti a lui che aspetta
aspettando a mia volta e intanto penso.
Come una cateratta infine, come un vulcano esplode.
E c’è dentro di tutto: i bambini africani,
profughi musulmani, e chiese in disarmo,
l’egoismo di pochi padroni del mondo e di me
che non mi oppongo, non combatto, non prego
o prego in solitudine evitando il confronto.
«E’ terribile tu non sia dei nostri».
Ora smarrito ed indignato di fronte al mio silenzio,
chiede aiuto alla moglie
che muove ad un sorriso
colpevole le labbra,
tra beffarda e strana, e mi rinfaccia
questa conoscenza avuta a sprazzi nel buio.
«Sei tu che non accendi la luce, o non vuoi.
Non dire che non puoi».
Punta i suoi occhi impenetrabili che non so se guardano altrove, e dove.
Le piante, il pianoforte, il mio inqualificabile benessere.
«Prova a fidarti, ad affidarti…»
Gemono quelle labbra tormentose
schiacciate contro i denti.
«Faccio beneficenza. Aiuto chi è nel bisogno». Provo a scusarmi,
e forse indulgo alla menzogna per viltà o per comodo,
se dico «Non ho odiato mai. Né fatto male con consapevolezza».
I silenzi si fanno più frequenti
e lunghi. «Ho cresciuto da sola due bambine».
Tento la carta della compassione.
«Non confondere il privato col politico». Interviene
il compagno che era rimasto zitto prima.
Fiducioso della buona sorte
dell’anima e, perché no, della rivoluzione inesorabile ch’è alle porte.
«Non sei carne né pesce. Non ti schieri.
Non partecipi alle sorti della terra».
«E’ difficile spiegarti. Ma sappi che il cammino
per me era più lungo che per voi
e passava da altre parti». «Quali parti?»
E mi fissa con un suo sguardo fluido e arguto.
Ancora non intendo se m’interroga
o continua per conto suo un discorso senza origine né fine.
«Devi crescere: crescere in amore
e in saggezza». Interviene la moglie, pasionaria
di antiche barricate, ormai solo mentali.
«Tu dici di puntare alto, di là dalle apparenze»
e non mi riconosce né la profondità, né l’ardimento.
Rispondo infine aggrappandomi a qualcosa,
sia pure alle mie colpe. «Non credo
di essere importante, ho fatto il poco che mi è riuscito».
E ancora «Abbiamo avuto in sorte tempi duri».
Ma loro, compagni esperti del dolore del mondo,
rincarano le dosi. «Possiedi tutto, per dare di più.
Scuotiti, agisci, scegli». E io,
in questa specie dimessa,
in questo aspetto avvilito: «Scrivo. Scrivo versi
che spero dignitosi».
Rimango a misurare il poco detto,
il molto udito. «Non basta».
E’ la condanna,
la ruggine impalpabile che chiude ogni discorso,
di arringa o di requisitoria.
Ma uno dei due uomini si ostina:
«Qualcuno cede, qualcuno resiste nella sua fede
tenuta stretta». Gli fa eco quell’altro,
a modo di saluto o di viatico: «Combatti!
Questo vuole il tuo tempo, perché non gli vai incontro?»
Con movenze felpate e caute si avviano alla porta,
i quattro liberati da un peso, e soddisfatti.
Mentre io sento il morso del rimprovero soltanto.
«E adesso, dove state portando il vostro
inflessibile rigore, la vostra pungente coscienza marxiana?»
vorrei chiedere, ma mi precedono sul tempo.
«C’è un outlet qui vicino, ci hanno detto.
Si può fare qualche acquisto firmato a buon prezzo.
Sai se è molto affollato di domenica?»
Giorno offerto al Signore.
Guardo il lago indifferente,
le sue vele lontane. E mi esorto in silenzio:
«Prega che la loro anima sia spoglia
e la loro pietà sia più perfetta».

 

In Bloc Notes n. 62, marzo 2012 e in Omaggi, Einaudi, Torino 2017