Mostra: 1511 - 1520 of 1.660 RISULTATI
RECENSIONI

FRANCK

DAN FRANCK, LA SEPARAZIONE – RIZZOLI, MILANO 1996

Uno scrittore di successo, sceneggiatore abituato alle luci della ribalta, ebreo di sinistra cresciuto nella scia del maggio ’68, approdato a un laicismo ecologico e tollerante, insomma un interessante quarantenne parigino, sicuro di sé e della sua vita, si rivela improvvisamente fragilissimo, sbandato, disperato, quando sua moglie decide di lasciarlo, portandosi via i due bambini, di cinque anni e otto mesi. Torna ad essere, allora, il più tradizionale dei mariti, geloso, ricattatore, infantile. Capace di studiare e di mettere in atto ogni pratica di seduzione e convincimento, pur di trattenerla. Scritto in terza persona, con uno stile conciso, a volte sincopato, quasi a seguire i pensieri e i sentimenti altalenanti, a singhiozzo, dell’autore, il romanzo  La separazione di Dan Franck ha ottenuto nel ’91
il Premio Renadout, ed è stato trasposto sugli schermi con l’interpretazione di Isabelle Huppert e Daniel Auteuil. Si apre con la descrizione di una serata a teatro, in cui lui («Lui») tenta di prendere la mano di lei («Lei») che gli è seduta accanto, «distante e tesa», e non risponde alla sua stretta, o si ritrae. Lui insiste, le preme la spalla, le accarezza un ginocchio, e lei si irrigidisce, si scosta, infastidita. Al ritorno, in moto, non si appoggia alla sua schiena, non gli cinge i fianchi. A casa lo schiva, esce dalle stanze quando lui entra. Alle domande incalzanti del marito oppone annoiata resistenza («Non so, non mi capisco, sarà lo stress, saranno i bambini»). Però si cura di più, si veste con maggiore ricercatezza, a momenti è radiosa: altrimenti soprappensiero, malinconica, via da tutto. Fino a quando confessa di amare un altro, di vederlo regolarmente, di desiderarlo. Un altro («l’Altro»), non meglio precisato, mai descritto, ma onnipresente. Per un mese, dopo la rivelazione, non succede niente: i due si sorvegliano, scaramucciano, tormentandosi con sadismo. Poi lei sta fuori una notte, e lui crolla, impazzisce. Non mangia più, tenta improvvisi recuperi, la ricatta con la rivisitazione degli anni passati insieme, o con la sofferenza dei bambini, verso cui si accorge solo ora di nutrire un affetto morboso. Insieme vanno alla deriva, non hanno più gesti o parole in comune, non si chiamano nemmeno più per nome («Ehi!»); coinvolgono nella loro storia decine di vecchi amici, e parenti, tutti alle esequie di un amore, maledicenti o complici. Infine, la separazione arriva come il minore dei mali, i bambini rimangono a lei, lui pian piano si rassegna a una solitudine riempita di espedienti, non più rancoroso ma senz’altro sconfitto,e convinto che la moglie e i figli, anche se ormai lontani, in una casa che non è la sua, «quei tre resteranno per sempre i suoi».

 

«L’Arena», 21 giugno 1996

RECENSIONI

SCHWARZENBACH

ANNEMARIE SCHWARZENBACH, GLI AMICI DI BERNHARD – L’ORMA, ROMA 2014

Annemarie Schwarzenbach, nata a Zurigo da facoltosi industriali nel 1908 e morta precocemente nel 1942, fu scrittrice anticonformista e ribelle, lesbica e morfinomane, viaggiatrice instancabile e chiacchierata protagonista dei salotti dell’alta borghesia internazionale. L’elegante casa editrice L’ Orma pubblica ora il suo primo romanzo, scritto a ventitré anni, ambientato nell’elitario e ovattato milieu dell’aristocrazia finanziaria, culturale e artistica imperante in Europa tra le due guerre. Protagonisti della narrazione sono i compagni di Bernhard, un diciassettenne tedesco sensibile, mite, dolcissimo che vorrebbe dedicare la sua intera esistenza all’amicizia e alla musica. I giovani che gli ruotano intorno (Gert, Irma, Hans, Christine, Leon…) sono belli, alti, eterei, raffinati, benestanti, privi di interessi politici e indifferenti a qualsiasi scrupolo religioso o solidarietà sociale. Le loro ambizioni sono volte a raggiungere traguardi non tanto economici quanto di notorietà artistica (seppure effimera) come pianisti, pittori, scultori. Vivono senza programmare il futuro, in un continuo accavallarsi di incontri, viaggi, cene, spettacoli, e amori incrociati che mai si trasformano in dedizione, passione o tormento. La seduzione reciproca, la continua allusione a un’omosessualità tentatrice ma temuta, le ripicche adolescenziali, le gelosie e i fallimenti vengono raccontati dall’autrice con vivacità divertita e cronachistica, passando spesso dalla prima alla terza persona, o usando l’artificio didascalico di rivolgersi direttamente al lettore. Non ci troviamo di fronte alla profondità della Woolf, né all’eleganza di Scott Fitzgerald: ma l’inquietudine, l’insoddisfazione morale, i tremori emotivi di questi amici nascono negli stessi anni e nelle stesse atmosfere: «…si dovrebbe vietare ai giovani di dichiararsi soli. Che paradosso, scrivere la tragedia di un giovane».

«Leggendaria» n. 111, maggio 2015

RECENSIONI

CANOZZI – DE PIETRO

MARIA PAOLA CANOZZI, SETTEMBRE SAREBBE UN BEL MESE – MARCO SAYA, MILANO 2014
ANNAMARIA DE PIETRO, RETTANGOLI IN CERCA DI UN PI GRECO – MARCO SAYA,
MILANO 2014

Per le edizioni milanesi di Marco Saya, sono usciti recentemente due volumi al femminile, il primo di narrativa, il secondo di versi, scritti rispettivamente da Maria Paola Canozzi e Annamaria De Pietro.
In un paesino collinare dell’alta Toscana, lussureggiante di vegetazione selvatica e di coltivazioni curate, popolato da ogni specie di animali (terrestri, fluviali, celesti), è ambientato il primo di questi volumi, breve romanzo ecologista della scrittrice fiorentina Maria Paola Canozzi. «Questo è un autentico piccolo paradiso, non a caso si chiama Valbenedetta. Per essere perfetto gli manca solo che tornino le mucche e le pecore a pascolare nei campi. E che spariscano i cacciatori».
La protagonista del racconto, alter ego dell’autrice, è una signora che professionalmente si occupa di restauro, amante della natura e dell’arte, animata da una risentita e vigile coscienza civile e ambientalista, «vegetariana quasi vegan»: trascorre l’estate nella vecchia casa di campagna dei nonni, e il resto dell’anno a Firenze. Nelle settimane di vacanza si trasforma in una sorta di savonaroliana giustiziera delle violenze e degli abusi sugli animali, perpetrati da ottusi e crudeli bracconieri e uccellatori, e vilmente tollerati dall’amministrazione comunale e dal resto della popolazione. Valbenedetta «è un paese di gente che alza le spalle», insensibile nei riguardi di cani, cinghiali, uccellini e scempi naturalistici. La villeggiante pasionaria si incarica di far fuori i più brutali cacciatori simulando maldestri incidenti, e la sua ferocia punitiva lentamente si espande anche a diverse, oltraggiose situazioni urbane. Arriva così a liberare i maiali trasportati sadicamente in camion-mattatoi, e a denunciare le sevizie inflitte alle aragoste durante le feste natalizie cittadine, in una Firenze divenuta invivibile preda di traffico, turisti incivili, indifferenza culturale. La narrazione alterna con ironia ed eleganza episodi surreali e comici ad allarmanti dati informativi sul suicidio a cui il genere umano si sta precipitosamente votando, attraverso l’inquinamento, la corruzione, e ogni tipo di comportamento individuale egoista e distruttivo nei confronti dell’ambiente e degli animali. Settembre sarebbe un bel mese, se non si aprisse la stagione dello sport più feroce e inutile: la caccia. A ciascuno di noi si rivolge l’appello indignato dell’autrice perché si ponga fine a questa barbarie impunita.
Nel secondo volume preso in esame, la poesia di Annamaria De Pietro costituisce un riuscito esempio di come anche l’inflazionato e disinnervato esercizio della scrittura in versi possa trovare nuova, originalissima linfa dal meditato connubio di cultura, mestiere, ironia, intelligenza. In più di trecento quartine, talvolta «caudate scodinzolanti», severamente ligie alla più collaudata tradizione letteraria (endecasillabi, rime ABBA, ABAB…), l’autrice elabora un suo «laboratorio malcerto» di esplorazione esistenziale su tutti gli argomenti possibili, dello scibile e dell’ignoto: dai sentimenti, ai ricordi, agli oggetti, alla storia, alla scienza. Nel tentativo di far quadrare il cerchio, di individuare il grimaldello di un pi greco che riesca a dare significanza al «rettangolo inesatto» del nostro vivere. Quartine di non facile lettura e non subitanea comprensione, giustificate spesso più da assonanze, ritmi, analogie visive che dalla coerenza di una logica interpretativa: e a questa difficoltà sembra voler soccorrere la poetessa con un commento (differenziato anche graficamente) posto in calce a ciascuna di esse. Glossa che talvolta risulta più fuorviante e immaginosa della stessa poesia, con l’intenzione esplicita di sconcertare il lettore, obbligandolo a fermarsi, a rimeditare, a trovare da solo una qualche illuminazione che lo aiuti a penetrare il significato – fulmineo e nascosto – che si cela nella lapidarietà, gnomica, sentenziale, dei versi. «Un’epitome del cosmo» orgogliosamente provocatoria, quella che propone Annamaria De Pietro, sfidando un eccesso di intellettualismo, un’esibizione quasi compiaciuta di perfezione stilistica, spavaldamente e sarcasticamente controcorrente, come in questa «dichiarazione di poetica»: «Non vada cinta della veste sciatta / buona articolazione d’ossi e vene – / ne segua augusta veste le serene / corrispondenze per misura esatta». Forse più accattivanti risultano le quartine in cui l’autrice si diverte, seriosa ma ammiccante, a prendersi in giro, prendendoci in giro tutti, come in questo esempio: «Non so da quale parte della porta / io stia, se quella fuori o quella dentro. / Fra le maniglie la distanza è corta / e, quando l’attraverso, esco? – entro?» O in questo: «Teme che le si strappi il cuore a brani, / ma dove mettere i brani ordinati, / poi, se i cassetti sono già stipati / e se lo strappo le strappò le mani?», a cui segue l’ironico commento: «Il mio libro di economia domestica delle medie recitava: ‘Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto’. Perché hanno abolito quella materia così pragmatica, così profittevole?» In favore dell’informatica, si suppone.

 

«Leggendaria» n. 111, maggio 2015

RECENSIONI

SMITH

ZADIE SMITH, L’AMBASCIATA DI CAMBOGIA – MONDADORI, MILANO 2015

Mondadori, che nel 2001 aveva pubblicato Denti bianchi della giovanissima Zadie Smith (nata a Londra nel 1975 da padre inglese e madre giamaicana), romanzo divenuto subito un best-seller internazionale, propone oggi una novella della stessa autrice, certamente non allo stesso livello della sua opera d’esordio. Si tratta di un racconto scandito in 21 capitoletti, quanti sono i punti di una partita a badminton, perché proprio sui colpi cadenzati (poc, smash; poc, smash…) di questo gioco si modula la narrazione. Protagonista è la giovane ivoriana Fatou, arrivata a Londra dopo aver attraversato Africa e Italia in cerca di un futuro decente, e dopo aver subito una violenza sessuale in Ghana da parte di un turista russo, insieme a molte altre umiliazioni nei più disparati posti di lavoro. A Londra presta servizio presso una ricca famiglia araba, occupandosi delle pulizie e dei tre figli spocchiosi e aggressivi. Non riceve nessuno stipendio, e le viene nascosto il passaporto perché non possa scappare. Suo unico diversivo è recarsi a nuotare nella piscina di un centro benessere con i biglietti omaggio dei suoi datori di lavoro. Per farlo, ogni lunedì passa davanti all’ambasciata di Cambogia, un villino circondato da un alto muro di mattoni rossi, dall’interno del quale sente sempre arrivare i colpi di volano del badminton. Fatou ha un unico amico, uno studente nigeriano che la istruisce sommariamente con elementari lezioni di storia, raccontandole qualcosa della dittatura cambogiana e dei Khmer Rossi, abbozzando pensieri di una banalità quasi sconcertante: «C’è sempre qualcuno che vuol essere l’Uomo Forte, e arraffare tutto, e dire a tutti come pensare e cosa fare. Quando in realtà è lui quello debole. Ma se un Uomo Forte vede che tu vedi la sua debolezza, non gli resta che distruggerti. Questa è la vera tragedia».

La vicenda, tutto sommato piuttosto inconsistente e senza alcun approfondimento di tipo sociologico, si conclude con l’immotivato licenziamento di Fatou, salvata alla fine dall’ amico nigeriano che le presta generosamente il suo solidale soccorso economico ed esistenziale.

 

«Leggendaria» n.111, maggio 2015

RECENSIONI

NEMIROWSKY

IRÉNE NÉMIROWSKY, JEZABEL – GARZANTI, MILANO 2014

Garzanti ripropone il romanzo di Iréne Némirowsky pubblicato nel 1936, di cui il traduttore e prefatore Lanfranco Binni sottolinea «l’epicità quasi brechtiana», capace di tratteggiare «un ritratto indimenticabile di donna, antico e moderno, archetipico e storico, crudele e vero, che affronta con dolore e con rabbia le dinamiche della complessità femminile e della sua prigione sociale». La protagonista del racconto è la gelida e bellissima aristocratica Gladys Eysenach, reincarnazione della spietata regina biblica Jezabel: smaniosa di asservire persone, sentimenti e situazioni esistenziali ai suoi personali ed egocentrici capricci, incurante delle sofferenze ed umiliazioni altrui, ed ossessionata esclusivamente dalla cura del suo aspetto fisico. Il romanzo si apre con queste parole:«Una donna entrò nella gabbia degli imputati». E’ appunto Gladys, accusata di aver ucciso un giovane penetrato nella sua camera da letto. Forse il suo amante, forse un ladro o un ricattatore: la donna viene condannata a una pena mite, e il sipario si chiude sulla sua vita inquieta e tutto sommato infelice. Ma la gabbia del tribunale in realtà è metafora di ben altra e più feroce costrizione: Gladys non accetta di invecchiare, è terrorizzata dall’idea di non venire più amata dagli uomini, di perdere il suo fascino seduttivo. «Com’era dolce vedere un uomo ai suoi piedi…Detestava la sofferenza; come i bambini, si aspettava ed esigeva la felicità». Passando da un amante all’altro, aspirando solo a suscitare invidia e ammirazione, arriva a falsificare il suo atto di nascita per celare i suoi anni, a frequentare squallide case d’appuntamento pur di godere della sua insaziabile sessualità: ma soprattutto proibisce all’unica figlia di realizzarsi nell’amore e nella maternità, lasciandola morire con indifferenza. La sorpresa finale riguardante l’identità del giovane ucciso riscatta la narrazione, con l’incalzare degli avvenimenti, da qualche indulgenza a toni da feuilleton.

 

«Leggendaria» n.111, maggio 2015

RECENSIONI

HAMILTON

JANE HAMILTON, LA MAPPA DI ALICE – BALDINI & CASTOLDI, MILANO 1996

Un tempo ritenevo che l’abbattersi della sciagura fosse in genere conseguenza di un errore marchiano o di una disgraziata fatalità. Non avevo ancora scoperto che può verificarsi così gradualmente che non se ne avvertono gli indizi premonitori né l’impatto. Magari non se ne percepisce neppure il movimento. Ho imparato che occorrono almeno due o più avvenimenti per alterare il corso di una vita: la verità sfugge una prima volta, una seconda, quindi una terza, e poi in un attimo si ha la sensazione che tutto sia franato di colpo.

Così filosofeggia Alice Goodwin, protagonista del libro La mappa di Alice, una casalinga trentenne che vive con il marito allevatore e con le due bambine in una fattoria del Wisconsin, travolta da una serie di accuse che distruggono la serenità della sua famiglia e la sua reputazione. Lei e il marito («Avevo sposato Howard sapendo che niente lo rendeva più felice della vista del latte che attraverso i tubi passava nella vasca di raccolta… La stalla era la sua guerra. Lui era il generale e le mucche i suoi soldati. Le guidava nelle loro esercitazioni due volte al giorno, sette giorni la settimana, cinquantadue settimane l’anno.») hanno rilevato l’ultima fattoria della cittadina di Praire Center, facendo un ottimo affare economico, ma suscitando da subito fastidio e diffidenza nella comunità ospitante. Troppo diversi, infatti, sembrano entrambi ai loro compaesani: lui, uomo asciutto, gran lavoratore, restio alla cura del proprio aspetto e poco propenso ai rapporti con le altre persone; lei disordinata, mutevole d’umore, scarsamente amante della casa e della cucina, e invece sempre immersa in letture e nella musica; le bambine cresciute spartanamente, senza alcuna concessione a futilità di moda. Quasi degli hippy, insomma, cui dare poco affidamento, indifferenti alla abitudini del paese, «estranei all’immaginario collettivo». Perciò i Goodwin vengono considerati con sospetto, salutati a fatica, trattati scortesemente nei locali pubblici. Sensazioni, impressioni vaghe, ma che prendono man mano consistenza col passare del tempo, fino a dar corpo a veri e propri incubi, a una persecuzione ossessiva. Quest’ansia generalizzata di punizione trova una sua valvola di sfogo quando nel laghetto della fattoria annega la bambina dei vicini con cui, soli, i Goodwin erano riusciti a instaurare un rapporto di amicizia e confidenza reciproca. E’ Alice che viene additata al pubblico ludibrio, per la sua disattenzione o superficialità e, in seguito, perché il senso di colpa che la disgrazia ha provocato in lei le fa assumere atteggiamenti autodistruttivi, che vendono stigmatizzati con acribia. Si scava con cattiveria nel suo passato alla ricerca di episodi che avallino la cattiva opinione che di lei nutre il paese, e così lo schiaffo affibbiato a un ragazzino difficile nella scuola in cui esercita la sua professione di infermiera, assume contorni mostruosi, connotati morbosi e deliranti. Le chiacchiere si ingigantiscono, diventano calunnie sempre più pesanti, finché Alice è arrestata sotto il peso di un’imputazione agghiacciante mossale dalla madre del ragazzino schiaffeggiato. Il marito e le bambine rimangono soli, evitati come la peste da tutta la comunità. Oggetto di telefonate anonime e di sputi per strada: vicini a loro rimangono solamente la famiglie della bimba annegata e un avvocato. Per pagare la cauzione e le spese del processo, Howard è comunque costretto a svendere la fattoria, e a trasferirsi in un’altra città, cercando un impiego qualsiasi. Rimane lucido, razionale e, impedendosi di lasciarsi sfiorare dal sospetto riguardo al comportamento della moglie, cerca di spiegare a se stesso e alle figlie cos’è successo: «A volte, la gente accusa dei suoi guai una persona che non c’entra…Alice si preoccupava tanto di quello che certe persone potevano dire di lei…Temeva che le vecchie comari sparlassero. Io le dicevo di lasciar perdere, che era sciocco far caso ai pettegolezzi. Adesso capisco di cosa bisogna ave paura: delle chiacchiere. Proprio. Le chiacchiere. E non so come abbiamo creduto di poter avviare una fattoria, qui. Occorre aver vicino gente con gli stessi interessi».

Alice viene ovviamente assolta dalle accuse, il bambino si contraddice, rivelando di essere rimasto traumatizzato da una scena vissuta nella sua famiglia, protagonisti sua madre e un estraneo; il caso Goodwin si sgonfia, pretesto di un rito di purificazione collettiva, con un capro espiatorio che necessariamente doveva essere una donna e estraneo alla comunità. Legalmente, quindi, tutto si riduce a niente: ma alcune vite sono state spezzate, due bambine rimarranno segnate per sempre, una coppia vivrà con problemi che non è andata a cercarsi.
L’autrice de La mappa di Alice, Jane Hamilton, si sta segnalando negli Stati Uniti come scrittrice di indubbio talento, sulla scia di Anne Tyler e di una nuova narrativa al femminile, non più intimista o rancorosa, ma aperta anche a tematiche di grosso rilievo sociale e civile. Molto coinvolgenti le pagine sull’annegamento della bambina nel laghetto, l’impatto di Alice con la prigione, la spietata autoanalisi del marito; e in generale il clima di sospetto, la rete viscida di congiura che incatena e soffoca i protagonisti, e inquieta noi lettori, al punto che cerchiamo di consolarci pensando che storie del genere possono accadere solo nei romanzi. Americani, per di più.

 

«L’Arena», 31 luglio 1996

RECENSIONI

DIVRY

DIVRY SOPHIE, LA CUSTODE DI LIBRI – EINAUDI, TORINO 2012

Il monologo che la trentenne scrittrice lionese Sophie Divry mette sulle labbra della protagonista del suo romanzo parte in sordina, un po’ rampognoso un po’ sentimental-confidenziale, per alzare il tono e gli obbiettivi di polemica man mano che si procede nella lettura. La voce che si confessa in queste pagine è quella di una matura signora che da venticinque anni cataloga libri nel reparto destinato ai testi geografici della biblioteca pubblica di una città di provincia, con devozione al suo lavoro ripetitivo, metodico, quasi rassegnato: «catalogare, riordinare, non disturbare, è tutta la mia vita». Lo scantinato in cui lavora diventa un osservatorio privilegiato per commentare sia le abitudini di chi frequenta le sale di lettura, sia i modelli e i limiti culturali del pubblico e dell’editoria, sia i rapporti umani e professionali di chi lavora all’interno dell’edificio. Lettrice onnivora ma scaltrita e dai gusti raffinatissimi, esprime giudizi taglienti e controcorrente sia sulla storia e sulla letteratura francese, sia sul progressivo imbarbarimento di quello che dovrebbe rappresentare per la comunità l’amore per il sapere.

«Mi sento la linea Maginot della lettura pubblica…. Di tutti quei libri che ti saltano addosso a centinaia, il novantanove per cento serve solo ad avvolgerci le sardine. Per le biblioteche sono una calamità. I peggiori sono i libri espresso, quelli d’attualità: ordinati, scritti, stampati, presentati in televisione, comprati, ritirati e mandati al macero in men che non si dica. Di fianco al prezzo, gli editori dovrebbero mettere anche la data di scadenza…».

Un volumetto piacevole, disincantato e amaro, che potrà essere apprezzato soprattutto da chi ama la lettura e i silenzi delle biblioteche pubbliche.

 

«Leggere Donna» n.159, marzo 2013

RECENSIONI

CVETAEVA

MARINA CVETAEVA, A RAINER MARIA RILKE NELLE SUE MANI – PASSIGLI, FIRENZE 2012

Chi ama la poesia non dovrebbe lasciarsi sfuggire questo libro, che raccoglie testimonianze del rapporto che ha unito due tra i maggiori scrittori della prima metà del 900: Marina Cvetaeva e Rainer Maria Rilke. Che non si sono mai conosciuti personalmente, ma che – come succede alle grandi anime- hanno saputo incontrarsi e arricchirsi spiritualmente sia nel rapporto epistolare sia nella lettura reciproca e ammirata della loro produzione poetica. Boris Pasternak, amico di entrambi, favorì la loro conoscenza, invitando Rilke a spedire alla Cvataeva i suoi libri nel maggio del 26: i due si scambiarono in pochi mesi quindici lettere in tedesco («vertigini liriche, dove c’è spazio per l’intesa totale», scrive la curatrice del volume Marilena Rea), fino alla morte di lui, avvenuta per leucemia in un sanatorio svizzero il 29 dicembre dello stesso anno. Il baratro che questo lutto provocò nei cuori e nei pensieri della poetessa russa, il suo sentirsi improvvisamente orfana e vedova di un’amicizia straordinaria ed esaltante, trovò una sua consolante espressione in una «potente ondata creativa», concretizzatasi nella realizzazione di due poemi (Lettera per l’anno nuovo e Poema dell’aria) e nella prosa di La tua morte, tutti composti nei primi mesi del 1927.
Come trovare riparo al dolore, come recuperare memoria e speranza, se non nella composta bellezza dei versi? «Bisognerà pure avere altro: altalena, ramo, / cavallo, fune – salto // più in alto!» , e ancora: «All’estremo scadere del tempo / ci sarò io- occhio di chiarore», scriveva Marina in una profetica e preveggente illuminazione poetica, appena iniziata la corrispondenza con Rilke. E poi, dopo averlo perso: «Se lo sguardo tuo s’è fatto notte / allora la vita non è vita, la morte non è morte», «Buon luogo nuovo, Rainer, azzurro, Rainer!», «Gloria a te che la breccia / hai aperto: più non peso».
Marina Cvetaeva si uccise nel 1941.

 

«Leggere Donna» n.157, dicembre 2012

RECENSIONI

BUKOVAZ

ANTONELLA BUKOVAZ, AL LIMITE – LE LETTERE, FIRENZE 2011

Antonella Bukovaz è poetessa originaria di un piccolo paese sul confine italo-sloveno, e insegna appunto sloveno in una scuola in provincia di Udine. Si occupa dell’interazione tra parola, suono e immagine, ed è attivamente partecipe delle più nuove tecniche di video-audioinstallazione. Anche questo suo libro di versi pubblicato da Le Lettere è accompagnato da un dvd, ad indicare il suo specifico interesse verso la multimedialità. Ma è proprio la sua condizione di bilinguismo quella che più emerge dalla sua scrittura poetica come riflessione sulla produzione letteraria, “al limite” tra espressioni diverse. Un suo poemetto molto interessante, recentemente riproposto nell’antologia Einaudiana  Nuovi Poeti Italiani 6, si apre con una lunga citazione di Pasolini sulla reciproca compenetrazione tra italiano e friulano, ufficialità e marginalità, nostalgia e regressione da una parte e rappresentazione “civile” dall’altra. Ed ecco dunque la sofferta condizione poetica della Bukovaz: «Parlo dal bordo e solo mi capisce / chi arretra per dare spazio / alla respirazione della distanza / tra una lingua e l’altra», «parlo da questa compresenza / in cui sempre cerco la parola persa», «i suoni slavi compongono il mondo / che appena mi consola», «È il linguaggio l’unico altrove che mi resta». Con la consapevole e orgogliosa affermazione della sua unicità di interprete di due diverse anime ed espressioni: «Lingua sconfinata / io ti sono sentiero!». In altre poesie, l’ intenso rapporto vissuto con un paesaggio-persona («Ho deciso di stare dove posso comprenderti tutto… andiamo uno nell’impronta dell’altro…  e pago questo amore sconfinato / con la fragilità di ogni mio respiro») evidenzia comunque questo bisogno assoluto di radicamento (il deittico “qui” viene ripreso in continuazione, a ribadire l’esigenza di un posizionamento nella fedeltà a un luogo: «mi sono fermata qui… posso stare qui… Qui le cose tendono a ciò che è bene»), la necessità di preservare la realtà conquistata, allontanando il timore di una sua scomparsa o dissolvimento: «Distesa lungo l’ultimo sentiero / sono la tua forma senza inganno / traccia di scomparsa / che appare se mi volto dentro / in assenza di percezione».

 

«Leggendaria» n. 97/98, gennaio 2013

RECENSIONI

ANDREIS

DANIELA ANDREIS, AESTELLA, – INCERTI, LEGNAGO 2011

Un piccolo, elegante libro di Daniela Andreis, giornalista veronese, pubblicato dalla giovane e raffinata casa editrice Incertieditori. Si tratta di 24 brevi lettere d’amore, spedite a un amore lontano, a una Aestella che riluce attraverso la lente di un sentimento forte e delicato insieme, pudico e appassionato. Lettere, appunto, inviate e ricevute per posta, con la magia sospesa dell’attesa, di cui si scruta ansiosamente l’arrivo («la mano che le prenderà … girerà dove è scritto l’indirizzo per vedere se è il tuo nome quel nome»), che si fiutano per assaporarne il profumo («l’odore stagionale»), che si indagano in ogni riga e spazio bianco. Di chi le scrive sappiamo che vive al terzo piano di un condominio dove «nessuno conosce nessuno», gli inquilini si evitano o comunicano tra loro attraverso messaggi lasciati nella cassetta postale: sappiamo che vive in un tempo e in uno spazio «siderale», bloccata in un «addiaccio» di paure e estraneità, e che sembra esistere solo in funzione di questo stregato e coinvolgente epistolario amoroso: «ti dico più cose di quelle che vivo…attraverso di te vivo due volte…mi sento relegata in questo spazio siderale come una recluta, una scorta che attende perennemente che venga il suo turno per starti vicino e intanto tiene in ordine la divisa e si lucida le scarpe».

Di chi riceve le lettere sappiamo ancora meno: che è una persona bella, silenziosa, ha «una bocca di vetro infrangibile». Ma a lei si raccontano giorni e minuti, visite ai mercati di roba vecchia, paure e nostalgie, con similitudini e metafore che hanno la grazia e la perfetta evidenza della verità: «Tutto questo mi dà alla testa; provo l’euforia dell’evaso che pur di vivere la fuga, scritta a lungo nel suo cuore, espone la schiena allo sparo». A chi si ama si chiede una cosa sola: «pochi minuti immemori di felicità indimenticabile», che possono essere vissuti anche leggendo o scrivendo lettere d’amore, in un linguaggio espresso «come minuscole onde dentro un bicchiere, o piccoli strappi sulla stoffa…ad un ritmo così lento, così implacabilmente lento, di foglie che cadono senza vento»».

 

«Leggendaria» n.96, novembre 2012