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RECENSIONI

IRIGARAY

LUCE IRIGARAY, L’OSPITALITA’ DEL FEMMINILE – IL MELANGOLO, GENOVA 2014

Stimolante anche se avveniristico, nella sua spiazzante utopia, questo breve saggio di Luce Irigaray, dedicato al concetto di ospitalità e di accoglienza nella società multiculturale di oggi. «Più siamo costretti a interfacciarci con chi o cosa è estraneo o distante da noi, più dobbiamo scoprire cosa ci è proprio»; quindi, per aprirci all’altro, dobbiamo tuttavia rimanere noi stessi, non divenire uno, ma restare due: imparando a modificarci nelle nostre abitudini stratificate in millenni di cultura impositiva e poco democratica, nel linguaggio sempre orientato alla prima persona singolare, nelle situazioni abitative e urbanistiche ermeticamente chiuse al diverso. Non tanto integrando, quanto coesistendo in una rispettosa e paritaria vicinanza. E’ più propriamente femminile l’apertura verso l’accoglienza e l’ospitalità, sedimentata fisicamente nell’esperienza materna, metaforizzata dall’esistenza della placenta che nella gravidanza nutre il bambino pur tenendolo distinto dalla madre. Non si deve inglobare chi non è noi, ma imparare a ospitarlo senza prevaricazioni. Spesso l’ospitalità viene intesa come «pratica di un gesto unilaterale e paternalistico verso un individuo più bisognoso rispetto a noi»: non deve essere un gesto caritatevole, né aspirare all’assimilazione dell’altro che cancelli la sua specificità. La prima cosa da fare, a livello sociale e individuale, per impostare una nuova cultura dell’ospitalità è «organizzare lo spazio in modo da creare un’architettura che renda possibile l’esistenza di ognuno e l’incontro tra individui», aprendo il circolo dell’orizzonte in cui siamo immersi, recuperando ambienti in grado di accogliere ogni corpo e cultura altra. Dove trovare questi spazi generosi e incontaminati? Secondo Irigaray «la natura potrebbe essere il luogo ideale per la coesistenza, se le condizioni climatiche lo permettono, ma non sempre ciò è possibile». Soprattutto nelle nostre asfissianti metropoli. U-topia, non luogo, secondo Thomas More.

 

«Leggendaria» n. 110, marzo 2015

RECENSIONI

DE SIMONE

ANNA DE SIMONE, CASE DI POETI – MAURO PAGLIAI EDITORE, FIRENZE 2012

In questo originale, commosso e commovente volume, Anna De Simone offre al lettore il ritratto di sessanta poeti novecenteschi, italiani e stranieri, famosissimi o quasi ignoti al grande pubblico, con i loro omaggi alle case che hanno abitato, confondendosi nelle loro atmosfere, nelle loro ombre e luminosità accecanti, negli sfarzi e negli squallori: case dell’ infanzia e della maturità, di lutti e di nascite, di amori e di abbandoni. L’autrice ci presenta ogni poeta non solo nella curata bio-bibliografia finale, ma soprattutto attraverso una serie di ritratti fotografici di volti e ambienti che bene colgono la loro particolare domesticità, incorniciandoli in versi e prose che sempre rimandano alle stanze vissute: «I luoghi mentali sono diventati luoghi reali e viceversa, capaci di offrire scenari ogni volta inediti su situazioni, vicende interiori e brandelli di storie perdute…nella convinzione che le case dei poeti esercitino un grande fascino sui lettori, e qualche volta diventino, come la poesia, un corrimano, un rifugio o un sogno da sognare quando la quotidianità diventa incomprensibile o insopportabile».

Allora, di un poeta del focolare come Pascoli, accanto alle foto del giardino, dello studio e della casa natale, la didascalia propone, tra gli altri, questi versi: «io, la mia patria or è dove si vive: / gli altri son poco lungi, in cimitero». E della bellissima e malinconica Achmatova: «Sotto l’icona un liso tappetino, / dentro la fresca stanza è sceso il buio». Di Wislawa Szymborska: «A destra c’è la mia casa, che conosco da ogni lato, / insieme ai suoi scalini e all’entrata, / e dentro accadono storie non dipinte»». Dello sperimentalismo di un poeta ancorato alle sue campagne come Zanzotto godiamo questo incipit: «Del mio ritorno scintillano i vetri / ed i pomi di casa mia, / le colline sono per prime  / al traguardo madido dei cieli», e di Montale la notissima chiusa: «Tu non ricordi la casa di questa/ mia sera. Ed io non so chi va e chi resta»

 

«Leggendaria» n. 103, gennaio 2014

RECENSIONI

SCHWARZENBACH

ANNEMARIE SCHWARZENBACH, OGNI COSA E’ DA LEI ILLUMINATA
IL SAGGIATORE, Milano 2012

La casa editrice milanese Il Saggiatore rifonda dopo più di cinquant’anni l’elegante collana di narrativa breve e saggi Le Silerchie, e tra i primi volumi proposti offre ai lettori un racconto del 1929 di Annemarie Schwarzenbach. Nata a Zurigo nel 1908 e morta nel 1942, la Schwarzenbach fu scrittrice anticonformista e ribelle, omosessuale e morfinomane, viaggiatrice instancabile e chiacchierata protagonista dei salotti dell’alta borghesia europea. In questo racconto ambientato nel fantastico e ovattato ambiente degli hotel di lusso engadinesi, in ristoranti frequentati da raffinati e danarosi clienti provenienti da tutto il mondo, su piste da sci e da pattinaggio curate maniacalmente, in bar esclusivi animati dalla musica di orchestrine jazz, la giovanissima Annemarie descrive l’incontro folgorante, addirittura devastante con una misteriosa e seducente signora.

«Di fronte a me c’è una donna, indossa un cappotto bianco, il suo viso è abbronzato sotto una capigliatura scura, pettinata all’indietro con rudezza maschile, rimango colpita dalla forza, bella e luminosa del suo sguardo, e ora ci incontriamo, per lo spazio di un secondo, e provo l’irresistibile impulso di avvicinarmi a lei, un impulso ancora più aspro e doloroso di seguire l’immenso ignoto che si desta in me come un desiderio ardente e un invito».

«Vedere una donna» (Eine Frau zu sehen): con queste tre parole inizia la narrazione, quasi a indicare una rivelazione, l’illuminazione di un’anima «solo per un secondo, solo nel breve spazio di uno sguardo… come se dovessimo incontrarci sulla soglia dell’ignoto, questa frontiera oscura e malinconica della coscienza». L’incontro avvenuto in ascensore avrà ovviamente un suo seguito, quando la giovane scrittrice deciderà di seguire il suo «diritto al desiderio». Il manoscritto originale di questo diario sentimentale è rimasto fino al 2007 presso l’Archivio svizzero di letteratura di Berna, dove è stato recuperato, trascritto e riordinato dalla nipote dell’autrice, Alexis Schwarzenbach, che di questo volume scrive la postfazione.

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

RIPA DI MEANA

LUDOVICA RIPA DI MEANA, LA MORTE DI GADDA –  NOTTETEMPO, ROMA 2013

Per un anno e mezzo, dall’autunno 1971 al maggio del 73, Ludovica Ripa di Meana si recò nella casa romana di Carlo Emilio Gadda per preparare una trasmissione televisiva sulla sua opera e sulla sua vita. Man mano che cresceva la confidenza e l’empatia tra i due, il grande scrittore chiedeva alla “signora Meana” (così le si rivolgeva) di leggergli brani dei suoi stessi capolavori, o di classici, dando segni di approvazione, o addirittura commuovendosi fino alle lacrime quando ascoltava i Promessi Sposi. Le poche pagine ora riproposte da Nottetempo sono le conclusive di un diario tenuto dall’autrice in quegli anni, la testimonianza ««di natura rigorosamente privata» di incontri che lei proponeva a Gadda «per consolarlo e rassicurarlo di fronte all’imminenza del buio», come scrive
Andrea Càsoli nella postfazione. Descrizioni quasi devote di un interno domestico, e soprattutto del «processo di mortificazione» di un «remoto prigioniero» a cui l’amica vuole trasmettere «infinito amore» per «staccarlo, con furia, dalla sua desolazione». E con affetto quasi filiale, con pietas rispettosa racconta le umiliazioni di quel grande corpo malato, le sue furie, le sue decadenze e i suoi pudori. Manifestando una sorridente partecipazione, Ludovica Ripa di Meana narra delle schermaglie del genio con la sua vecchia domestica Giuseppina, che lo tratta come «un infante di pochi mesi», lo lava e disinfetta con alcol e acqua di colonia, gli prepara cibi appetitosi e ci litiga furiosamente perché lo considera la sua «criatura». E infine si sofferma sul momento tremendo del trapasso di Gadda, sul respiro faticoso che diventa «un terribile nitrito», e poi la spogliazione, il lavaggio, e il gesto rituale e riconoscente con cui lei gli annoda la cravatta per l’ultima volta: «Finalmente giace l’hidalgo…E’ vestito da prima comunione e ha scarpe nere lucide spropositate»; «Clown desolato, inondato di luce».

 

«Leggendaria» n.103, gennaio 2014

RECENSIONI

RUCHAT

ANNA RUCHAT, IL MALINTESO – IBIS, COMO 2012

Anna Ruchat, traduttrice dal tedesco e scrittrice, in questo libriccino di intensa partecipazione civile, scritto tuttavia con uno stile secco e lontano da qualsiasi sbavatura emotiva, narra le vicende di un gruppo di persone rom e rumene ammassate nella fabbrica dismessa della Snia Viscosa a Pavia. Accostatasi a questa realtà di degrado e umiliazione all’inizio del 2007, insieme a qualche volontario della Caritas per portare cibo e vestiti a donne e uomini dimenticati da Dio e dal mondo, si ritrova da subito coinvolta nelle loro esistenze, partecipe con indignazione alle loro sofferenze, e testimone impotente dell’indifferenza «della classe politica affarista e provinciale che governa la città». Frequenta le famiglie disperate e abbrutite dei rom, parla soprattutto con le donne, umiliate da aborti, gravidanze precoci, violenze e prostituzione; con i bambini e i giovani, costretti a rubare o a elemosinare, a difendersi dalle persecuzioni razziste esterne e dalle rivalità familiari nel campo, e a lottare per cercare vanamente un’integrazione scolastica o lavorativa sempre rifiutata. Testimonia sgomenta la condizione di assoluto degrado in cui queste persone trascorrono le loro giornate, tormentate da freddo, assalite da torme di topi voraci, continuamente in balia di sporcizia, alcol, infezioni e malattie. Alla fine la sconfitta arriva per tutti, quando la Snia viene sgomberata e abbattuta, e il popolo dei rom disperso: «Li portano in giro di notte, sugli autobus, come scorie radioattive…». Ad Anna Ruchat resta il rimpianto di non essere riuscita a opporsi alla cecità egoista dello stesso suo mondo borghese e intellettuale: «La verità è però che non reggo più a tutto quel mare di sofferenza, la mia impotenza mi mortifica…». Riesce tuttavia a fare qualcosa di fondamentale, traducendo e facendo pubblicare le poesie della regina degli zingari Mariella Mehr, organizzando per lei una serata di successo nel teatro di Pavia, e riproducendone alcuni versi sofferti anche in questo libro: «Ride male la donna degli incubi. / E io sono ancora selvaggina di un’ipocrisia qualunque / e di una qualunque rabbia. // Allora sperate con me / tutti voi soccombenti. / Spera anche tu / mio cuore / un’ultima volta».

 

«Leggendaria» n. 104, marzo 2014

RECENSIONI

ANGELI

SIRO ANGELI, IL GRILLO DELLA SUBURRA – SCHEIWILLER , MILANO 1990

Nella sua prefazione al volume di poesie Il grillo della Suburra di Siro Angeli (Roma, Barulli 1975), ripreso quindici anni dopo dall’editore Vanni Scheiwiller nella collana All’insegna del pesce d’oro (Milano 1990), Alfonso Gatto definiva «scorbutico, freddo e ardente insieme» il poemetto che dà il titolo al volume, e su cui ora vorrei soffermarmi. Scorbutico nel senso di scostante, di poco accattivante, ombroso come un puledro ribelle alle redini di qualsiasi lettore-cavaliere. Freddo perché meditato (premeditato) in ogni verso e rima, costruito in un’architettura rigida e severa, che non lascia spazio a nessuna improvvisazione o scarto fantastico. Ardente perché animato da una vis polemica savonaroliana, da una feroce critica morale nei riguardi della società odierna. A ragione Gatto parlava, a proposito di questa poesia, di «frenata incandescenza», perché Siro sapeva che se la poesia è visione, allucinazione, ispirazione allo stato larvale, tale non deve rimanere, e prima di arrivare alla pagine deve essere “frenata”, appunto, lavorata, limata, con umiltà artigianale che mal sopporta la presunzione dell’estemporaneità. «Poesia difficile, impervia, in virtù della sua chiarezza», proseguiva Gatto, e infatti questi versi, lontani da ogni sperimentalismo alla moda, totalmente rispettosi di metrica e punteggiatura, non presentano punti oscuri, di difficile interpretazione: dicono tutto, senza lasciare al lettore alcuno spazio di interpretazione soggettiva e di co-invenzione. Eppure sono versi da leggere con un occhio al vocabolario per la quantità e la qualità delle voci usate, rare nelle pagine dei nostri poeti contemporanei (sanie, contrafforti, altane, tabe, annonari, subornarli, annaspo, elitre, abigeati, erebo, sinodali, sirti, latebre, offa, fomiti, arcosoli, lemuri, miasmi, falansteri, ectoplasmi, abbrivi, sinusoidi, incalchi, inflorescenza, esborsi, antelucani, lacerto: sono solo alcuni dei vocaboli che mi si presentano, nella loro inusuale peculiarità, a una veloce rilettura); versi anche sintatticamente spigolosi, contorti, graduati in un climax di crescente sospensione, di intensi rimandi e posticipazioni: si noti che il primo punto fermo si offre allo sconcertato lettore solo al 119° verso, alla conclusione della III sezione e della diciassettesima strofa. Questo accenno mi offre lo spunto per parlare della struttura del poemetto, genere senz’altro molto praticato nella poesia del dopoguerra (si pensi al primo Caproni, o all’ultimo Bertolucci), eppure mai, credo, con tanta rigorosa acrimonia ed esclusiva, inflessibile disciplina come ne  Il grillo. Si tratta di nove sezioni, ciascuna articolata in un numero di strofe che varia da cinque a undici, di sette versi in novenari con un’originalissima mobilità accentuativa. Proprio questa scelta del novenario , verso imparisillabo tra i meno usati nella nostra tradizione letteraria, e invece prediletto da Siro, la dice lunga sulla sua aristocratica tendenza ad andare contro corrente, a porsi sempre fuori dalle mode: la dice lunga anche sulla sua abilità compositiva, sull’attenzione posta a non ripetersi, scartando magari le soluzioni più facili (si badi a questi quattro versi della nona sezione: «le bràci delle sigarétte / adescatrìci di passànti / ritardatàri si diràdano / attravèrso i vetri accostàti»: con accenti sulla II e VIII, sulla IV e VIII, sulla IV e VII, sulla III e VIII). Anche il gioco delle rime è quanto mai abile e dotto, con un prevalere ossessivo di rime ricche su quelle povere, di rime interne, derivative, imperfette. Se consideriamo le cinque strofe della terza sezione, troviamo le seguenti rime, per lo più molto dislocate nella sezione o interne ai versi: giunto-punto-assunto, ariosità-città, quieta-pietra, foresta-finestra-agreste, lassù-più, aspro-annaspo, momento-casamento-sbattimento, interdetto-tetto-dirimpetto, strepito-trepida, celi-dice-tace-voce, disperso-universo-verso, moto-immoto-monotono-remoto, stillicidio-dissidio, voce-atroce, confonde-riprende-rispondersi, elitre-celi, cornice-dice, stridore-ore, muove-dove, evidenti già a una prima, parziale indagine. Sempre in questa sezione, in cui per la prima volta compare l’immagine positiva del grillo, foriero di salvezza, con la sua «trepida voce / che si confonde nello strepito / atroce come un’eco», è proprio il suo verso di «grumo disperso / di vita» ad essere onomatopeicamente reso con una serie incalzante di “r” seguite o precedute da consonante: grillo, agreste, estranea, pietra, crepita, spremere, attrito, aspre, elitre, stridore, credere, crepa, interdetto, travi, cornice, grumo, disperso, universo, verso, trepida, strepito, atroce, sino alla sventagliata finale «e subito riprende tra unisono / e controcanto nel suo gracile / metro a interrogarsi e rispondersi».
Il grillo della Suburra, completamente riveduto e in parte riscritto a Zurigo tra l’87 e il 90, era però stato composto a Roma, negli anni 1955-75, anni difficilissimi per Siro che aveva appena perso la prima moglie (a cui nel ’64 aveva dedicato i versi memorabili de L’ultima libertà, ed. Mondadori), e si era trovato per sopravvivere a dover abbandonare la sua professione di sceneggiatore cinematografico, impiegandosi alla RAI dove avrebbe presto raggiunto qualifiche e responsabilità elevate. Di Roma questo poemetto vive, una Roma pagana e blasfema, cristiana e purissima, corrotta e corruttrice, inquinata e stupenda. Una Roma toponomasticamente citata in versi (da Via dei Selci a Via Lanza, da Termini a Piazza dei Cinquecento, dalla «cicatrice di Via Cavour» alla «laguna dei Fori» fino ai «vicoli della Suburra»), ma metaforicamente personificata – vittima e carnefice insieme – in una tentacolare giungla, in un’«estranea foresta / di pietra che ha nome di città». Questa Roma viene descritta in una torrida notte di fine luglio, in cui l’estate assume sembianze animate e animalesche, minacciose se non addirittura ributtanti, e «uscendo da paludi / sciroccali…// aggredisce…// la pendice / esquilina con denti e unghie», e solo verso mattino si placa nella memoria di una natura ancestrale e incorrotta:

ora che il cuore della notte / trasale ad un presentimento / d’alba e gli asfalti e i selciati / si preparano ai freschi annaffi / zampillanti dall’autobotte / rammemorando spente estati / quando furono anch’essi folti / boschi, prati e orti antelucani (IX,6).

Tuttavia prima di raggiungere questa quiete dimenticata dagli uomini, è stata protagonista e preda di un’assordante e impietosa babele di veicoli:

lì dove l’assenza di semafori / e di trasbordi vessatori / viepiù lo scalmana in saturnali / estivi e la falla immissaria / da Via Lanza lo muta in fiumana / mentre rifluendo su a raffiche / un’altra corrente lo contraria (II,3);

di persone:

i passanti / alfine sottratti all’usura / pagata nel giorno agli orari / si avventurano per una tabe / varia di rumori discordi / lasciando a tratti che trabocchi / la stanchezza in discorsi annonari (II,1);

di luci:

lo sfaglio d’una duplice rampa / su cui insegue ed epitaffi / si innalzano riverberanti / e come a additare un confine / in lettere cubitali si stampano / nel buio ogni volta che schiaffi / di fari li prendono a bersaglio (II,4);

di rumori:

le giunture morse dai freni / scricchiolano con un bramito, / svampano subitanei baleni / dall’attrito fra cavi e ruote, / porte a pneumatici battenti / scattano alla preda che s’offre / stridendo come denti (VII,5-6)

La fauna umana è descritta senza alcuna simpatia o partecipazione, è incubo, è carne animale quando si asserraglia nelle metropolitane per compiere il rito domenicale della gita al mare:

tuberi imponenti di crani / espansi a fondere in un lardo / solidale nuche e doppimenti, / volumi matronali che esuberano / renitenti in flaccidi emisferi / su cui le stagioni sinodali / declinano verso i climateri; // compagni di muscoli irti / su toraci dediti all’azzardo / delle palestre e delle gare, / scompigli di capelli spioventi / su facce addette a ruminare / mucillagini interminabili / di gomme tra frasi e sbadigli; // seni assolati nella salsa / vampa delle domeniche in sirti / proletarie, a rivalsa dei tedi / stanziali durati dentro celle / d’uffici tra battiti di tasti / o nelle cucine tra lavabi / guasti ed odori di cibarie (IV, 5-6-7);

o nei bar:

… chissà quale essenza / di lete ch’essi bevono a sorsi / ingordi credendo di estinguere / con la sete ricordi e rimorsi (VIII,3);

o nelle sale d’aspetto delle stazioni:

in mezzo a una turba consorte / che dagli accessi in lunghe tratte / si sperpera sulle banchine, / dai ventrilòqui ininterrotti / degli altoparlanti agli agguati / tesi dai carrelli onerari, / dagli scrosci delle latrine / ai ronzii dei locomotori (VIII,5);

o nello squallore di una periferia desolata:

attraverso gasometri e scali, / rimesse e cisterne di benzina, / mercati rionali e barriere / daziarie, officine e terminali / di tram, cimiteri di macchine / dove la vita in una messe / d’ortiche e gramigne si ostina (V,2).

In tale implacabile inferno, visionaria e minacciosa ossessione, unico scampo, brandello di umanità (montalianamente: occasione, miracolo) sono poche immagini che si salvano dal delirio farneticante cui abbiamo ridotto il nostro vivere quotidiano: la luna che persevera nella sua pacata indagine notturna:

ora che la lama della luna / umida ancora di salsedine / sparsa da mari interstellari / scalfisce con miti fendenti la scorza indurita del tempo / per restituire alle parvenze / la pura nudità dei momenti (I,5);

il trasalimento pudico delle adolescenti che si offrono a impietosi sguardi altrui:

ma soffi più leni lambiscono / la gracilità che ad impuberi / fanciulle incava guance e sterno, / e nelle guardate di sottecchi, / nei rossori che si propagano scontrosi / dalle confezioni domestiche / rimproverate dagli specchi, / impara a cogliere pretesti / apprensivi perché si riveli / una grazia ormai adolescente / nelle iridi che ardono ignare (IV,9-10);

o finalmente nel grillo che, nascosto chissà dove in una Roma sub-umana, insiste a ripetere a se stesso il suo verso, implorazione o denuncia. Grillo poesia, grillo poeta, che nessuno ascolta e di cui nessuno si cura, presenza gratuita e necessaria, sacrificale e salvifica, che rende possibile con il suo canto il perpetuarsi del prodigio magico dell’esistenza che si rinnova, se solo qualcuno gli presti orecchio:

il grillo, poco più d’un punto / nel buio, un grumo disperso / di vita in sé scisso ed assunto / nel magma in cui l’universo / fluisce, ti chiedi che dice / e ripete a sé solo per ore / ed ore, che cosa lo muove // a quello sbattimento, verso / dove o chi trepida la voce / che si confonde nello strepito / atroce come un’eco, tace / e subito riprende tra unisono / e controcanto nel suo gracile / metro a interrogarsi e rispondersi (III,22-35).

Questo è quanto, in questo momento di pena, di strazio provocato dalla sua improvvisa scomparsa, sono riuscita a scrivere su Siro Angeli poeta, da lettrice appassionata che si occupa di critica solo a livello dilettantesco, con il massimo, però, di distacco emotivo possibile. Quanto vorrei scrivere di Siro uomo è per me infinitamente più doloroso e pudico. Vorrei fosse davvero possibile, anche solo per un attimo, il miracolo di un’inversione di tendenza nel percorso del tempo, e averlo qui, reale come mi sembra adesso che ne scrivo, piccolo e ossuto, azzurro negli occhi e profondo nella voce; mio padre putativo e padre delle nostre bambine, nostro grillo e poeta domestico, “del focolare”. Vorrei potergli mostrare questi quattro fogli, e che lui sorridesse appena, incerto tra soddisfazione e imbarazzo, si sistemasse gli occhiali sul naso, prima di darmi il voto di sempre: 6+.

 

«Bloc Notes» n.25, giugno 1992

RECENSIONI

BIAGINI

ELISA BIAGINI, DA UNA CREPA – EINAUDI, TORINO 2014

Giustamente la quarta di copertina di questo libro di versi di Elisa Biagini (Firenze 1970) sottolinea nella scrittura poetica dell’autrice l’ossessione per il corpo. Per offrire al lettore un inventario dei termini anatomici utilizzati, se ne può abbozzare un elenco: bocca, lingua, labbra, palato, gola, saliva, fronte, orecchio, lobi, occhio, palpebra, pupille, capelli, mano, dito, unghia, polso, braccia, scapola, prima cervicale, piede, rotule, caviglie, polmone, cuore, ombelico… Una sorta di esibizione, più che una rappresentazione, della fisicità materiale di cui siamo composti, in singoli elementi quasi stilizzati, e resi artificialmente come nella destrutturazione della pittura cubista e futurista, che se ci spingiamo alla contemporaneità, può anche ricordare i calchi plastificati delle sculture di John De Andrea, in cui la vita pare assente, e la carne diventa un simulacro sintetico. Il corpo spezzettato è reso formalmente nella frantumazione dei versi: brevi, martellanti, irrigiditi nel rifiuto di qualsiasi abbandono lirico. Il corpo, proprio ed altrui, è avvertito minacciosamente armato, arroccato in difesa o pronto all’attacco, come si evince dall’uso frequente di una terminologia aggressiva: ascia, forbici, lama, spillo, spigolo, spine, fil di ferro, coltello, freccia, morso. Con la ricorrente “crepa” che dà il titolo al volume: «e la schiena si / crepa, astuccio / di semi / che spingono» (da notare l’inclemenza degli enjambements, che intervengono severamente a tagliare i versi). Il rapporto con l’altro da sé è vissuto all’insegna dell’incomunicabilità, con amara rassegnazione e totale disincanto: «La scapola è già l’ascia / tavoletta di leggi non scritte: / affatica l’abbraccio / impiglia l’indicare / torce il crescere»; «parliamoci / come tolte / le calze, prima che / la lingua collassi / e ci s’inciampi»; «la voce s’imbianca di / silenzio, le ombre / s’infittiscono tra i denti». E insomma sembra che il corpo, più che a relazionarsi con l’esterno, serva ad alimentare incubi: «C’è uno che ha i miei occhi / li strizza come spugna dopo / i piatti, li tira come lenzuoli,  / li incastra a fermare le porte»; «La saliva non usata prima // chiude le fessure tra i / denti, poi mura la // lingua al palato». Anche la pausa ristoratrice che potrebbe essere rappresentata da una gita, si trasforma in una angosciosa discesa agli inferi, in una miniera di sassi, polvere, pirite, buio e caldo (La gita), al cui interno l’altro diventa fantasma irraggiungibile : «Ci cerco, a noi due: / tu nube di memoria, / io che mi sfuggo / come di mercurio, / tremito di termometro / che ingoio, vetro e tutto». Una poesia scolpita, questa di Elisa Biagini, concretissima e visionaria, anche nei riferimenti letterari a cui rende esplicito omaggio, traendone spunto per un collage tormentato e radente: Paul Celan e Emily Dickinson, dalle cui fessure di angosciosa bellezza ricava materia e ispirazione: «come su foglio / accartocciato / che si liscia / resta il / segno // crepa / a colarci / l’inchiostro. // (noi ci imbeviamo / d’infiniti spigoli.». Una sorta di allucinato film surrealista alla Buñuel, in cui il corpo rimane ostaggio non tanto di divinità crudeli, quanto di una assurda e silenziosa assenza di significato, in un’estraneità reificante.

 

«Poesia» n.305, giugno 2015

RECENSIONI

IKKYU

IKKYŪ SŌJUN, NUVOLE VAGANTI – UBALDINI, ROMA 2012

La casa editrice Astrolabio-Ubaldini dedica un’importante pubblicazione a Ikkyū Sōjun, maestro zen giapponese del XV secolo, e alle sue 150 composizioni poetiche. Curato e tradotto esemplarmente dalla iamatologa Ornella Civardi, il volume si apre con un’approfondita introduzione alla vita, al pensiero e all’epoca in cui visse questo famoso «saggio non saggio», anticonformista riformatore e divulgatore della pratica zen, finissimo calligrafo e ispiratore della cerimonia del tè, nonché mentore del teatro del nō. Ikkyū (1394-1481), figlio disconosciuto di un imperatore e di una dama di corte, fu avviato bambino alla carriera monastica in un’epoca in cui lo zen stava perdendo la sua purezza originaria, istituzionalizzandosi in conformismi e compromessi col potere che ne minavano il messaggio di povertà e illuminazione interiore. Abbandonato il tempio della scuola Rinzai, il giovane mistico scelse di percorrere la strada disagevole ma più nobile e sincera del monaco itinerante, alla ricerca di una dimensione esistenziale e di pensiero meglio aderente alla sua vocazione interiore. Adottato il nome di Kyōun (nuvola vagante) preferì mescolarsi alla popolazione più misera e marginale, componendo poesie e coltivando il bambù, ma soprattutto rifiutando l’ipocrisia delle regole imposte da una rettitudine di facciata e dalla decenza comune, e accettando anche di sfidare lo scandalo e la provocazione nelle sue frequentazioni di bettole e bordelli: «quelli che pretenderanno di possedere lo zen, di sapere la Via, quelli saranno i veri impostori, i nemici della Parola. Siamo ciechi che conducono per mano altri ciechi…». La condotta di Ikkyū fu sempre finalizzata alla conquista di una profonda libertà interiore, fino agli anni della vecchiaia, trascorsi accanto a una cantante cieca molto più giovane (che rivitalizzò il suo spirito e la sua poesia in una nuova dimensione erotica), e poi nell’accettazione di un ruolo istituzionale come guida del tempio Daitokuji. I 150 componimenti poetici antologizzati, composti tutti da strofe di quattro versi secondo l’antica tradizione cinese, sono raccolti in undici capitoli tematici, introdotti ciascuno da un esauriente approfondimento di Ornella Civardi, e raggruppati secondo argomenti che esplorano la natura, i sentimenti, la ricerca della verità, la ribellione al conformismo, la conoscenza di sé. Si tratta di poesie lievi, attraversate da una sapienza umile e compassionevole, attenta a recepire ogni sfumatura dell’esistente, con gratitudine e partecipe adesione: «Boscaioli e pescatori, / loro sì che la sanno. / Non hanno bisogno di scanni preziosi, / di appositi palchi per fare lo zen. / Sandali di paglia e bordone / per girare l’universo, / La pioggia per casa l’aria per cibo / una vita intera».

Secondo la curatrice del volume, per Ikkyū la poesia «diventa lo strumento privilegiato lungo la via verso l’illuminazione… La carica cognitiva che porta con sé è così forte da destrutturare le barriere del senso e aprirle la strada fino al cuore dell’Essere». Nei suoi versi «troviamo tutto lo spettro delle emozioni e dei sentimenti, squadernati sulla pagina senza falsi pudori e senso delle convenienze, innocentemente nudi di fronte al giudizio del lettore, da cui reclamano un’identica nudità». Quindi, nessun intento didattico o falsamente moralistico in Ikkyū, bensì più spesso il dubbio, la sberleffo, la risata dissacratoria contro ogni dogma: «Saggezza di ieri, / oggi è stupidità».
Il volume si chiude con un esaustivo glossario di personaggi, termini, regole e linee di pensiero buddista, che ben introducono anche il lettore profano alla scoperta di uno straordinario universo filosofico ed etico.

 

«incroci on line», 13 giugno 2015

RECENSIONI

INSANA

JOLANDA INSANA, LA CLAUSURA – CROCETTI, MILANO 1989

Seguo le poesie di Jolanda Insana da diversi anni, con quella curiosità intellettuale che rasenta l’ammirazione e non è mai sicura se sia giusto abbandonarcisi o meno. Con emozione, quindi, alcune estati fa, ho atteso la sua comparsa ad una lettura pubblica di poesie ai Giardini Botanici di Roma, in mezzo a un pubblico che scandiva gli applausi a seconda della notorietà (e non della consistenza) degli interpreti; io, ingenuamente forse, cercavo di distinguere i pochi poeti veri da molti autori di versi, badando anche alla risonanza emotiva che mi suscitavano parole e immagini insieme. Jolanda Insana era riuscita a scuotermi, così essenziale in maglione e pantaloni scuri, capelli corti e grigi, voce sicura e profonda. Aveva letto una poesia che si intitolava Bomba, bell’esempio di originalità e forza, tra tanto manierismo-cerebralismo-intimismo. La guardavo, intensa e drammatica, con la sua espressiva faccia sicula, e siccome amo ricamarci sopra (sulle facce e sui nomi) riflettevo che forse la poesia italiana era riuscita a ritrovare una sua Cassandra, fustigatrice e incorrotta. Una che si porta addosso un nome impressionante, “Insana” (opposto al verbo “sana, guarisce”: quindi “ammala, fa impazzire”), con queste due “I” iniziali che pungono come due spilli, non può non essere inquietante, deve esserlo anche poeticamente, oltre che come persona. L’ultimo libro pubblicato dall’Insana si intitola La clausura: titolo che potrebbe voler indicare una vocazione imperiosa in favore dell’esclusione dell’esterno e dall’esterno; ma che potrebbe anche essere stato scelto solo in funzione della sua durezza onomatopeica. Infatti l’esterno (l’altro) rientra, seppure di straforo, nelle pagine di questo volume: e sono ambienti assolati e pagani (Sicilia, Marocco), nordici e severi (Germania), a volte dai tormentati contorni biblici. Si intuisce anche una presenza maschile, piuttosto meschina, e comunque più odiata che amata, puro pretesto alla carica di rancore che vuole esprimersi: «Ti scardo e sbramo e ti scotenno con parole»; «non cardo né canto e non penelopo al telaio /… e non sarai certo tu / che mastichi erisamo a imbudellarmi»; «se è questo che vuoi mi mozzo la mano e te ne faccio / dono… / e dunque mi riprendo la mano e ti carpiono». E tuttavia la prima e dichiarata intenzione dell’autrice è senz’altro metalinguistica, e la sua poetica viene ribadita asseverativamente e in continuazione: «così inforco le parole e le giro per troppa tenerezza»; «e non mi smielo / e sotto i colpi della lettera dura»; «e per troppo fastidiume abbandono le strade / dell’omotonia e svolgo e avvolgo etimologie / apparigliandone la differenza»; «contro ogni evidenza / non comunica nulla la bocca che riafferma che è bocca / nelle pagliose parole capaci di abbrigliare / la stessa eteroclisia che dice la verità della specie…». Poesie rapide e densissime, che si inceneriscono dopo un bagliore accecante: la Insana diffida – è evidente – della lunghezza che stempera e diluisce l’intensità («bevitori di rapidi sorsi / siamo incantati dalla lunga durata»), e demanda al messaggio poetico la folgorazione salvifica del riscatto dal male: «e credo che la parola molto assista chi per lei molto / rischia». Gli artifici linguistici cui la Insana si affida per sconcertare il lettore-preda (poiché questa sembra essere la sua fondamentale aspirazione) sono in primo luogo l’uso/abuso della “s” impura (smielo, sfrangere, sfrotto, sconturba, scardo, scavezzante, sbramo, svolare, sbravanta, spicchio, sgraffia, straglio, scortico, scardoso, sbroda: sono i più espressivi tra i quasi duecento usati…), poi la fusione di parole (affondafantasmi, solincendio, superfluitava, contemplascenari…), i numerosi neologismi, che ribadiscono – anche in seguito a successive letture – una carica difficilmente assorbibile di aggressività, di concentrata violenza. E tale e tanta è questa forza, da risultare a volte squilibrata rispetto all’oggetto stesso della poesia, per cui anche chi sia favorevolmente disposto ad accoglierla, finisce per temere un autocompiacimento eccessivo, un virtuosismo fine a se stesso. Una vox clamans savonaroliana come questa di Jolanda Insana necessiterebbe, forse, di temi pari ai suoi toni.

 

«Hortus» n.7, gennaio 1990

RECENSIONI

FRABOTTA

BIANCAMARIA FRABOTTA, IL RUMORE BIANCO – FELTRINELLI, MILANO 1982

«Bianco» è una parola chiave per penetrare tra i rumori di questo libro di Biancamaria Frabotta, che si intitola appunto  Il rumore bianco. «Bianco»» non si dice, di solito, del silenzio? Non è al silenzio che colleghiamo il candore della neve, che cade senza produrre suono, che attutisce qualsiasi vibrazione acustica? E quale colore può avere il rumore, se non una tinta violenta (il nero, il rosso, un giallo fosforescente?). Un rumore bianco pare un’offesa al senso comune, anzi un’ipotesi di sospensione del senso, di attesa/sorpresa: in questo titolo c’è già poesia. Ma nell’intenzione che lo ispira c’è anche dell’altro: una motivazione più sottile, una provocazione più acuta. Nel linguaggio scientifico, rumore bianco viene definito il suono prodotto dalla collisione delle molecole immerse nel fluido della loro corsa. Un rumore che può essere assordante ma che il nostro orecchio non percepisce. Presente nell’aria intorno a noi, dentro di noi; possiamo chiamare rumore bianco anche quello della poesia, con i suoi suoni e i suoi silenzi. Alle parole dette, più che a quella letta in silenzio, la Frabotta affida il compito di comunicare poesia (vedi anche un suo interessante articolo, Il poeta in palcoscenico su Il Manifesto del 27 dicembre 1981): e i lettori sono immaginati «accecati…ammutoliti, …altro che come un orecchio / un ombroso orecchio guardone», un pubblico di ascoltatori. Queste poesie sono infatti da leggere a voce alta, sonore, nervose, asseverative. Ma di tanto in tanto la voce si concede, quasi a raccogliere respiro e dolcezza, la pausa riposante del più cantato dei versi, l’endecasillabo. E può essere un endecasillabo provocatorio, come una spallata data apposta («Spremi la resina il pimento il piscio»); è comunque una distrazione, una concessione all’orecchio desideroso di refrain. In queste pagine letteratissime, lontane dalla discorsività e da ogni spontaneismo, si è sorpresi da qualche arcaismo come da un vezzo (cui talvolta Frabotta indulge anche in prosa): l’aggettivo che precede il nome («la tua sudata pelle»), o l’avverbio che precede il verbo («per finalmente esserci», «sfrontatamente ridere»). Subito dopo si è magari costretti a sbrogliare i mille fili delle tecniche raffinate dell’inversione sintattica, dell’eliminazione della punteggiatura, della divisione delle parole a fine verso non giustificata da altro che dalla scansione metrica. Ancora una volta un omaggio alla voce, e non fa niente se è un’offesa all’occhio («Monade chiac / cherina», ««lenzuolo inzu / ppato»). Ci siamo abituati a leggere – o a scrivere- un certo tipo di poesia femminista, molto didascalica, a volte rancorosa, oppure privata in modo totalizzante. Questa della Frabotta è senz’altro poesia femminista, nei contenuti più che nella forma. Il linguaggio femminile, nonostante le molte teorizzazioni, sembra non riesca a inventarsi («Anche se oggi ti rendo l’onore delle armi / il fuoco sacro dell’imitazione»). Gli strumenti poetici sono sempre quelli, bisessuali, come li vuole chiamare Porta nell’introduzione al libro. E i temi sono quelli propri di una poesia femminista, ma né didascalica né rancorosa, semmai fiera, altera («Non come te poeta io sono / io sono poetessa e intera / non appartengo a nessuno»). Le altre, le donne, le sorelle sono presenze concretissime nelle due prime sezioni del volume, amate irrazionalmente ma anche razionalmente giudicate: «Prepolitiche / da sempre e scorrette agitano / l’ascia bipenne dei moicani e scuotono le piume. / Vi offriamo perline colorate per piombo. / Siamo già spaventate dall’urlo dei cani. / Cerchiamo di farvi paura».

Oppure: «Amiche che così identiche vi fa uniche / il guerriero pudore declinante / l’irragionevolezza del passo». Il rapporto con loro è tormentato («E’ la vita che vi debbo o / il suo estinguersi per sempre?», «Lasciami / correre a nascondermi fra le macerie / per paura e vergogna delle sorelle che / ci rapano la testa come a donne di partigiano / incinte di seme tedesco»), ma basato sulle certezze di una sorellanza: «Insinui perché la tua razza così ti vuole. / Lei invece mi dà già la sua solidarietà. / La vedi? Là, dall’altro marciapiede».

Anche il privato entra in questa poesia, ma in maniera pudica e riservata, «Un bambino che di parlare non ne vuole sapere». Un privato chiuso, che non rivela niente di sé, che potrebbe essere il privato di tutti: ci sono le altre, c’è un lui, una lei. Un privato che irrompe con un “tu” personalizzato, subito però dirottato sul piano dell’oggettività, dell’impersonale, del pubblico; dal tu al lei/lui al loro, nella stessa poesia, lo sguardo interno può diventare occhiata esterna. Il rapporto con l’altro non è mai abbandonato, ma sempre vigile, ostile: il maschio è appunto il lui, oggetto di indagine, in definitiva estraneo. Non c’è un uomo in particolare, nessuna storia o relazione personale è privilegiata: di questi corpi virili si vedono sempre e solo i fianchi, le spalle, girati dall’altra parte, in una loro chiusa indifferenza. Delle loro menti si intuisce una comune abilità nel tessere inganni di parole, nel sezionare argomenti con logica angusta. Questa logica maschile è incomprensibile, temuta perché vincente seppure povera, condannata dalla sua rigidità. E’ la severità di Abelardo, «disperso» nelle sue trame di pensiero, «idee intricate», la cui «sapienza non vale misurare l’ardore di vegetale» rispetto al coraggio, alla voglia di vivere di Eloisa. Se filosoficamente domina Abelardo, è Eloisa la «morbosa, terragna» che ha il suo regno tra i meli, le foglie, i passeri, l’acqua, le alghe. L’eterno duello tra cultura e natura ha trovato i suoi emblemi, un Abelardo ascetico, un’Eloisa «prensile mobile radice», che preferisce «le corde di terra / e non una mongolfiera vuota di vento». Il verso finale di questo poemetto e del libro suggerisce una meta a chi scrive, donna, poesia di donna: «si emigra al sud, a ali spiegate».

«Produzione e cultura» n. 26/27, giugno 1982

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