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RECENSIONI

VALDUGA

PATRIZIA VALDUGA, MEDICAMENTA – GUANDA, PARMA 1982

Un libro pieno di notti, è il primo libro di poesia di una giovane autrice veneta, Patrizia Valduga, che sembra muoversi con totale sicurezza e quasi provocatoriamente nell’oscurità dei sensi rievocata dalle parole, mentre esse rimangono sospese come monadi in un’ atmosfera di alambicchi e filtri amorosi. Medicamenta,appunto, è il titolo, e da medicare sono corpo e mente con l’unico benefico rimedio dei versi. La Valduga, novella fata morgana, li amalgama con perizia quasi scientifica, attenta a non trasgredire metri classici quali il sonetto e l’ottava, ma mescolandovi contemporaneamente ingredienti quanto mai dissimili: consacrazione e dissacrazione della tradizione letteraria, recuperi del duecento e Zanzotto, ironia e pietà, ma soprattutto un’onnipresente sensualità, a volte ostentata a volte solo suggerita. “Notte” è la parola più ricorrente, e alle notti sono intitolate le tre sezioni del libro, sottintendendo che la poesia deve far riaffiorare alla luce ciò che è buio, perché passato e sprofondato nella memoria o perché taciuto per sempre. Quello che la poesia non ha mai trovato il coraggio e la gioia di raccontare, è la descrizione felice e innamorata del corpo maschile, l’esaltazione del sesso maschile. La poesia femminista ha spesso ironizzato o aspramente censurato l’argomento, la poesia omosessuale l’ha talvolta edulcorato. Patrizia Valduga, invece, rovescia i ruoli pietrificati dei duelli e delle schermaglie d’amore, si fa protagonista di una caccia che ha per oggetto il corpo dell’altro, e cerca di possederlo con crudezza e insieme dedizione: «o strascinarmi al suolo / e con lascivo assalto, anche il midollo / succhiargli…o con audaci mani a volo / provarne gli inguini». Una «vera carnale festosità» nutre la prima sezione Notte dei sensi.
Un inferno di carne, come indica l’epigrafe dantesca; e i richiami a Dante sono costanti non solo nelle immagini dei grovigli umani, quanto anche nella mimesi dello stilnovismo («Che tanto / amor non muta e muta mi trascino»; «di mie doglie, lagnanze lagne e lai») o della petrosità («E nottetempo la gente si arrapa, / s’ ingrifa, al serra serra si disgroppa»; «su ammucchiarsi d’ umano alto m’accappia»; «lor secrezioni, escrezioni contermini»). La sezione intitolata al Marino è naturalmente quella in cui l’omaggio al barocco è più vistoso, in cui i giochi di parole, le magie di rime e assonanze diventano sostanza stessa della poesia, mentre notte e giorno, morte e vitalità del sesso non sono che accidenti, pretesti poetici. Le ottave di endecasillabi sembrano le più calibrate e le più felici del volume, nel loro artificio retorico si placa anche l’agitazione formale e di contenuti della prima parte. Infine, l’ultimo capitolo del libro Notti mancate, favoleggia in un tono sospeso tra il cavalleresco e il pastorale di contese amorose, di seduzioni che ci riportano a un’atmosfera tassesca. L’allusione nega qualsiasi concretezza ai concetti, che sono gli stessi di sempre, ma sottintesi o appena accennati; così avviene che i puntini di sospensione di cui la Valduga si serve in modo ossessivo, arrivino a imitare il balletto del corteggiamento, con le attese, i preparativi e l’avvicinamento, a cui segue la concitazione di una strofa che simula la frenesia e l’improvvisa precipitazione dell’accoppiamento fino alla tranquilla e conclusiva pacatezza dell’ultimo verso («Premorienza ci quieta a maraviglia»). Ci troviamo davanti a un libro nuovo e intelligente, verrebbe da dire forse “troppo” intelligente, costruito anche nelle esitazioni, che lascia intravedere dei punti deboli, delle zone scoperte solo dove questa costruzione viene meno: nelle poesie più brevi, che dovrebbero essere una sorta di illuminazioni, o scansioni ritmiche, ma che in realtà non riescono a uscire dalla estemporaneità. Patrizia Valduga si propone quindi come poeta dal fiato lungo, dall’ampio disegno architettonico, che non lascia spazio all’impressionistico o all’abbozzo.

 

«Produzione e Cultura» n. 28, ottobre 1982

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PAZZI – MARTY

ROBERTO PAZZI, IL BAMBINO ; INSEL MARTY, CAPO DI NOTTE – GUIDA, NAPOLI 1991

Già più di venti sono i volumetti usciti per i tipi dell’editore napoletano Alfredo Guida nella collana  La Clessidra; volumetti bifronti, doppi e incrociati, metà bianchi e metà neri, con due racconti diversi di due diversi autori: uno molto noto, e uno meno, o affatto. Letto il primo testo si capovolge il libro proprio come fosse una clessidra, e si inizia il secondo. Formula intelligente e spiritosa che permette di attirare l’attenzione dei lettori su scrittori esordienti, dimezzando le spese di pubblicazione. Da alcuni mesi si trova in libreria la coppia Roberto PazziInsel Marty, in passato già a fianco nella redazione della rivista Sinopia, autori di due racconti lunghi differenti tra loro quanto tematica, simili per gusto e per sensibilità. Attenti ai moti dell’anima e ai viaggi della mente, più interessati all’individualità che alla collettività, Pazzi e Marty sembrano apprezzare in misura maggiore la miniatura che l’affresco. Roberto Pazzi, che si era imposto nell’85 con Cercando l’imperatore, romanzo sulla Russia della rivoluzione, racconta qui con la cura per le sfumature e la delicatezza d’accenti che gli sono propri, la storia semplice di un bambino, semplicemente intitolata appunto  Il bambino. Ritratto dello scrittore da piccolo, autobiografia fiabesca (già dall’incipit «Molti anni fa, in un piccolo paese, nacque, sotto il segno del Leone, un bambino») e malinconica di un ragazzino come ce ne sono tanti, senza particolari drammi e grosse infelicità, ma con un’evidente inclinazione alla fantasticheria, alla tristezza immotivata. Il bambino è nato in una città di mare, ma presto è stato portato a vivere nella pianura nebbiosa, come in esilio, all’ultimo piano di un palazzone tetro: «seppe subito di essere prigioniero e molto presto vide nelle stazioni e nei treni la magia della liberazione». L’avventura grande della sua esistenza è il viaggio estivo che riporta al mare lui e la mamma, sottraendoli alla noia dei riti paterni (le partite alla radio, i discorsi sportivi – metafora di ben altre aggressività e umiliazioni-, il lavoro ripetitivo in banca), alle passeggiate educative con il vicino di casa, ai rapporti difficili coi parenti più ricchi. Il bambino è protagonista involontario di fondamentali scoperte: il telefono misterioso, che sa svelare la «fittizia teatralità» di chi lo usa, la lettura miope del quotidiano, indagato dai grandi solo nella pagina dei morti, l’universalità della cultura intuita attraverso le eterne romanze di Verdi… E’ un mondo piccolo, ripiegato su se stesso, quello in cui il bambino vive, in anni – quelli del dopoguerra – nei quali la politica si impone come tragedia ignorata dai più. Lui ne recepisce solo echi lontani, meno interessanti delle voci che gli parlano dentro. Diverso è il tema di  Capo di notte, racconto lungo di Insel Marty, analista junghiana che risiede a Firenze, autrice di versi e raccolte poetiche tra le più originali degli ultimi anni: è alla sua prima prova narrativa, e fa ben sperare per il futuro. Protagonista della sua storia è un giovane intellettuale, glottologo nella formazione e nelle aspirazioni, per necessità taxista notturno, che indaga l’aspetto oscuro della città, dei colleghi e dei clienti con l’ansia del filosofo e del mistico, sperando di imbattersi almeno in una risposta alle tante domande che lo tormentano. Emiliano vive un difficile e disincantato rapporto “diurno” – e nel suo universo mentale il giorno appartiene alla banalità, alla ripetitività, all’inautentico – con una quasi moglie indolente e gattesca, una Fausta che ama cucinare col burro e ciondolare in disordinata attesa di lui. Ma la vita vera è quella passata a bordo della sua vecchia Citroen, la Tilde O, con i minuti scanditi dalla voce femminile della centrale, e i passaggi offerti alle persone più strambe. Una coppia di musicisti in crisi, due gemelli lestofanti, e infine una misteriosa ragazza che si fa portare al canale, in cerca di volpi o lepri che danzino alla luna. Con questi personaggi il taxista riesce a superare le convenzioni di colloqui insipidi, riesce ad attingere a scampoli di autentico che illuminano la notte esterna e interna ai pensieri. Insieme a loro è testimone di visioni improvvise e inebrianti: uno sciamare di zingarelli imprevisti che sbucano dal buio per poi farsi improvvisamente ringhiottire, un gruppo di Hare Krishna ondeggianti festosi nella nebbia, prostitute ferme ai falò, visioni reali che si alternano a memorie di infanzia (volti, cani, periferie del passato), implorando quasi una partecipazione, una sofferenza. Tutto, meno che l’indifferenza. Al racconto, fascinoso e in qualche modo turbante, nuoce qualche eccesso di disinvoltura analitica, qualche citazione professorale che fa capolino qua e là («Di giorno lo spettro linguistico spazia tra fonemi visibili, non cade nell’infrarosso animale né svetta ebbro sull’ultravioletto della mente»; «Ma proprio questa potenza ad Emiliano appariva coercitiva in modo intollerabile, non faceva gioco bensì necessità – era come la flagranza accecante del bios»). Sono stecche narrative che finiscono per rompere l’incanto, il tono favoloso che lega i vari episodi, così come il finale pare inadeguato rispetto alle attese del lettore, quasi che l’autrice si fosse spazientita dei suoi stessi indugi.

 

«L’Arena», 7 maggio 1992

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SAFFO

SAFFO – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2012

A dispetto di una malevola tradizione che voleva la poetessa di Lesbo scarsamente avvenente, se non addirittura deforme, a noi piace immaginare questa grandissima “decima musa” così come ce l’ha descritta il poeta Alceo, suo contemporaneo : «dolce, coronata di viole». E così infatti ce la consegna questa splendida, anche editorialmente, antologia pubblicata da Nomos e curata da Silvio Raffo, che ne traduce egregiamente, con elegante dedizione, trentatré poesie, delle centoquarantaquattro che ci sono rimaste. E ne mette in luce, nella breve e intensa prefazione, la classica e limpida perfezione, sottolineando in queste composizioni «gli archetipi e i fondamenti della poesia lirica di tutti i tempi»: la presenza dell’io, del paesaggio naturale e della forza del sentimento amoroso, avvertito con tutta la delirante forza che squassa i sensi, intenerisce e immalinconisce l’anima, avvolge nelle spire accecanti della gelosia, fa esplodere il cuore di felicità. «Amore che scioglie le membra / dolceamara invincibile fiera», «vento / che sulle querce d’alto monte piomba», «Sei giunta, hai fatto bene, ti bramavo», «Io amo l’eleganza, lo sapete, / lo splendore del sole e la bellezza / mi toccarono in sorte e ne son lieta». Proponendo il testo greco a fronte, Silvio Raffo fornisce al lettore una traduzione assolutamente fedele alla struttura metrica originale, rispettosa in particolare della strofa saffica (costituita da tre endecasillabi e un adonio), e sottolineando la limpida perfezione dei versi, che anche dopo ventisette secoli mantengono tutta la loro luminosa classicità, che li rende sempre vivi e moderni, alla stregua di molta lirica novecentesca: «Naufragata nel cielo con le Pleiadi / la luna. E’ mezza / notte, il tempo passa. / Io giaccio sola».

 

«Leggendaria» n.99, marzo 2013

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RIGOTTI

FRANCESCA RIGOTTI, METAFORE DEL SILENZIO – MIMESIS, MILANO 2013

Questo volumetto pubblicato nella collana dell’Accademia del Silenzio dalla filosofa Francesca Rigotti, docente all’Università della Svizzera Italiana, è diviso in due parti, la prima delle quali indaga il senso delle metafore del silenzio, mentre la seconda si interroga sul rapporto che collega silenzio e parola allo spazio e al tempo. Entrambe le sezioni esplicitano le loro tesi basandosi su robuste argomentazioni teoriche, radicate in tutta la riflessione filosofica novecentesca. I nomi più citati – e talvolta contestati – sono quelli di Nietzsche,Wittgenstein, Heidegger, Levinas, Derrida, Foucault, Bachelard, Bauman. Vengono menzionate anche due pensatrici donne: Julia Kristeva e la nostra Rosi Braidotti; è risaputo che le donne, contrariamente a quello che si tramanda, parlano meno degli uomini, e scrivono meno. Proprio partendo da un assunto ideologico femminista, Francesca Rigotti espone la sua originale teoria sull’esistenza di due tipi diversi di silenzio: un silenzio di ghiaccio e di pietra (solido, massiccio, fermo e chiuso in se stesso) e un silenzio liquido-magmatico (marino, profondo, mobile, contenitore). Il primo è maschile, duro e razionale; il secondo è femminile, morbido e soffuso. La parola interviene su entrambi, spezzando il primo con la violenza di un’arma appuntita o pesante, emergendo dagli abissi del secondo come lava galleggiante. L’autrice corrobora questa sua intuizione con dotti riferimenti letterari e musicali (Händel, Bach, Boulez, Cicerone, Ovidio, Pirandello, Rabelais, Vercors, Byatt), ma anche rifacendosi ad acute osservazioni linguistiche ed etimologiche. La seconda parte del libro mette a confronto invece i due tanto discussi concetti di tempo e spazio, ancora sfruttando le categorie del maschile e del femminile: qui però quasi capovolgendoli, perché al maschile viene attribuita la mobilità fagocitante del tempo, mentre si riserva al femminile la statica resistenza dello spazio. Uno spazio silenzioso e un tempo parlante.

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

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MARAINI

DACIA MARAINI, GITA A VIAREGGIO – FAHRENHEIT 451, ROMA 2013

Questo bel racconto che Dacia Maraini pubblicò su Paragone nel 1964 viene ora riproposto dall’attenta casa editrice romana Fahrenheit 451, con un’illuminante ed acuta postfazione di Eugenio Murrali. Due coppie di mezz’età, in evidente crisi di stanchezza matrimoniale (Antonio e Pietra, Gino e Tina) decidono in un piovoso pomeriggio sotto Pasqua di lasciare la capitale e di dirigersi a Viareggio, con il pretesto di far visita a un vecchio amico pittore, Carmelo. Al volante dell’auto è Tina, voce narrante e sguardo disincantato- deluso e insieme spietato- su luoghi, oggetti e persone. L’autrice segue con meticolosa e fredda analiticità sia il percorso materiale dell’automobile (sorpassi e insulti, rallentamenti e soste, indifferenti paesaggi esterni), sia il vagare mentale della protagonista, e il suo soffermarsi su ciò che succede all’interno dell’abitacolo: spezzoni di discorsi, sigarette e caramelle, noia e piccole provocazioni. La descrizione dei corpi e degli ambienti è puntuale, asettica e lenta, come in una serie di fedeli ma impersonali inquadrature cinematografiche: «Il suo braccio è corto, molto corto rispetto al resto del corpo. Le dita invece sono lunghe, normali, con dei ciuffi di peli biondi sul dorso delle falangi»; «…in disordine, giacciono sparpagliati cinque o sei barattoli di colore, una manciata di pennelli e pennellesse, uno spruzzatore elettrico, due bocce di colla americana, della carta di giornale, due coltelli da cucina macchiati di verde, una grande latta di trementina e dei tamponi di garza imbevuti d’olio e di colore».

A Viareggio, la gita delle due coppie si concluderà con un duplice tradimento, vissuto dalla protagonista con assoluta estraneità e abulia, che lo stile asciutto e neutrale della Maraini riesce a rendere con intelligente finezza.

 

«Leggendaria» n. 104, marzo 2014

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CAMPO

AAVV, CRISTINA CAMPO. SUL PENSARE POETICO – FEERIA, FIRENZE 2011

Secondo l’editore di questa antologia di saggi che dieci studiosi hanno dedicato a Cristina Campo, «nei convulsi anni di autocelebrazioni narcisistiche in cui viviamo, ci sta di fronte con una sorprendente e sia pur impervia esemplarità» la figura di questa sensibilissima, colta, vulnerabile poetessa e intellettuale bolognese, vissuta a lungo sia a Firenze sia a Roma. Guido Ceronetti la definì «filatrice dell’inesprimibile», «trappista della perfezione», protagonista di un «umbratile, filtrato viaggio nell’esistenza» che la portò a indagare i percorsi segreti dell’anima, attraverso lo studio appassionato della mistica e della liturgia orientale e ortodossa, la frequentazione di letture spirituali (da Eckhart a Silesius a Simone Weil) e dei più importanti poeti e filosofi a lei contemporanei (Luzi, Merini, Alvaro, Zolla, Emo), l’interesse per la musica e la fiaba, ma anche l’impegno civile nei riguardi di tutti gli avvenimenti politici, culturali e religiosi della sua epoca. Il volume esplora con analitico rigore i vari aspetti della produzione letteraria di Cristina Campo: dal suo ricchissimo epistolario (1942-1976), definito dalla studiosa Maria Pertile «residuo dell’assoluto», alla sua empatia nei riguardi degli ultimi e dei fragili, alla devozione verso la letteratura intesa quasi come pratica religiosa, fino alla sua biografia vissuta all’insegna della riservatezza e della discrezione, che la portò ad affermare severamente: «Che nulla traspaia dell’intimo cuore, nulla sia noto di noi che il sorriso».

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

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MORETTO

LUCIANA MORETTO, LA MEMORIA NON HA PALPEBRE – LA VITA FELICE, MILANO 2012

Da un frammento di Emily Dickinson, il titolo di questa raccolta di poesie di Luciana Moretto sembra suggerire che chi ricorda non chiude mai gli occhi, continua a tenerli ostinatamente e nostalgicamente aperti su volti, voci, gesti delle persone che abbiamo amato e che ci hanno lasciato. «Che cos’è la poesia se non il perpetuo racconto di un’assenza, di qualcosa che continuamente manca e che paradossalmente e sempre ci insegue con la sua presenza?», scrive nella sua partecipe prefazione Piero Marelli. Una poesia che si propone di annullare la distanza, recuperando tempi e spazi messi in ombra, ma mai definitivamente cancellati, dalla morte di chi ci è stato caro. In questo caso, del fratello dell’autrice, che lei è certa di poter ritrovare in un’altra, più generosa e perenne dimensione: «sicura dell’eterna compresenza / del tutto nella vita, nella morte», «certo prosegue di là, oltre il confine / d’ombra il patto di alleanza che un’anima / tiene accostata all’altra», «non arresa presenza, / garanzia di vita che continua» nella metafora di un asfodelo giallo reciso che persiste inspiegabilmente a rifiorire. Il fratello amato, le cui ceneri sono conservate in un’urna lontana, «nel continente estremo in vista / del mare», torna vivo nella foto dell’infanzia, sollevato in braccio dalla madre orgogliosa dell’unico figlio maschio. O nel quaderno ritrovato, con i riassunti dell’Iliade, e nei suoi inquieti vagabondaggi intorno al mondo, di cui la sorella poetessa si faceva rassicurante tramite presso i familiari «perplessi». O ancora nell’eco di una telefonata gentile, nelle immagini allegre del giorno del matrimonio. Ma soprattutto nella poesia più delicata del volume, che raffigura il fratello «smagrito e stanco» intento a curare le rose del suo giardino: «Spesso la morte è gentile / e ha buoni modi. Non toglie / qualcosa di vistoso, le basta / che muoia una cosa / una sola, diversa ogni volta. // E così piano piano / dalle tue mani ha tolto la rosa».

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

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MASTROCOLA

PAOLA MASTROCOLA,  FACEBOOK IN THE RAIN – GUANDA, MILANO 2012

Un racconto gradevole e pulito, scritto in un linguaggio terso e privo di ambizioni artistiche, che sembra accontentarsi di narrare con delicatezza e pianamente una sorta di fiaba contemporanea, ambientata in un paesino dell’Appennino centrale, con protagonisti modesti che conducono una vita priva di slanci, avventure, ideologie. Anche la trama non si prefigge di indagare socialmente o psicologicamente il fenomeno dei network, ma semplicemente propone una storia di comune e tranquilla banalità sentimentale. Una vedova cinquantenne, il cui unico diversivo quotidiano sembra essere la visita al cimitero alla tomba del marito, e lo scambio di confidenze e piccoli favori con altre donne in lutto, scopre improvvisamente la possibilità di aprirsi al mondo attraverso Facebook, e diventa inconsapevolmente ma implacabilmente una vittima di Internet.

«Uno si sentiva subito meglio, subito…collegato. Mai più solo, senza fili. Si sentiva una centrale da cui si diramavano infiniti fili che andavano tutti verso le altre persone e le legavano a sé… Una rete, appunto!»

Su Facebook, Evandra incontra vecchi compagni di scuola e sconosciuti, e viene tentata anche dal desiderio di conoscere queste persone fisicamente, imbattendosi di conseguenza in cocenti delusioni e in pericolosi imprevisti. Rimane comunque tanto dipendente dal suo pc, da preferire questa sua nuova esistenza virtuale alla realtà dei rapporti familiari e amicali di sempre.
Questa passione informatica le provoca però ben presto acuti sensi di colpa in quanto la distoglie dalle visite al camposanto, in passato trascurate solo nelle giornate di pioggia. Sarà un suo timido corteggiatore a cercare goffamente di risolvere gli scrupoli vedovili di lei con un ingegnoso sistema idraulico in grado di far piovere davanti alle finestre del suo appartamento, giustificando così le sue assenze dal cimitero e indirizzando il racconto verso un prevedibile e romantico lieto fine.

 

«Leggendaria» n. 95, settembre 2012

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MURGIA

MICHELA MURGIA, L’INCONTRO – EINAUDI, TORINO 2012

Michela Murgia torna con questo romanzo alla sua Cabras natale, qui anagrammata in Crabas, «cittadina di novemila anime», che vive «di un respiro comune ritmato dal suono delle campane», in cui l’esistenza, continua «con balsamica noncuranza», in equilibrio tra tradizioni millenarie e ansie di modernità, animata da «una fede popolare in cui malocchio e rosario convivevano senza contraddizione». Qui passa le sue estati il bambino Maurizio, ospite dei nonni che lo accolgono con rustica amorevolezza: alla fine della scuola i genitori, operai in città, confondono il loro unico figlio tra i «ragazzini ossuti e bruni con qualcosa di rapace negli occhi», a giocare sulla strada partecipando di «una comunità infantile sbilenca e provvisoria». «È così’ che si diventa davvero fratelli a Crabas»: condividendo avventure nei campi e in battaglie navali sullo stagno, partecipando alle feste parrocchiali e alle sagre, ascoltando le storie di fantasmi raccontate dai vecchi seduti di sera all’esterno delle case. In paese bisogna fare i conti con il “noi”, poiché «tutti parlavano di sé al plurale con la ronzante fluidità di uno sciame d’api intorno all’alveare». Maurizio impara a intessere relazioni con gli altri, soprattutto vivendo in simbiosi con due amici, Giulio e Franco: con loro scopre il significato della solidarietà, della complicità e poi improvvisamente del tradimento e della separazione, per ritrovare infine il gusto della riconciliazione e della fraternità recuperata. Giochi, scontri, monellerie ruotano intorno alla vecchia chiesa di Santa Maria guidata da Monsignor Marras, cui i tre ragazzi incendiano il cortile e una palma centenaria nel tentativo di eliminare col fuoco una colonia di aggressive pantegane. Qui si anima anche il dissidio con il nuovo, evoluto parroco che inaugura una concorrente chiesa di periferia: polemica che sfocia in una dissacrante e divertente processione tra le due comunità che si fronteggiano a colpi di invocazioni, giaculatorie e rosari pochissimo devoti. Il racconto scorre veloce e pulito, senza particolari originalità lessicali o sintattiche: e lo stile appare addirittura qua e là un po’ inamidato, con i dialoghi tra i ragazzi spesso ingessati in un italiano molto letterario e irreale. Soprattutto la trama, piuttosto debole, non riesce a elevare la narrazione al livello di altre precedenti prove della Murgia.

 

«Leggendaria» n. 97/98, gennaio 2013

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TORREGROSSA

GIUSEPPINA TORREGROSSA, ADELE – NOTTETEMPO, ROMA 2012

Con questo sapido e intrigante monologo teatrale, ambientato in una rigorosa e oppressa Sicilia degli anni ’60, Giuseppina Terragrossa ha vinto il Premio Roma 2008  Donne e teatro. Protagonista è Adele, una sessantenne sciatta e rancorosa, che ha vissuto e sprecato la sua esistenza nelle mura domestiche, assediata da presenze maschili mal sopportate, ondeggiando tra nevrosi e sadismo.
Rimasta incinta diciottenne di un uomo che l’ha abbandonata, sposa «’u manciato», un chimico violento, marchiato da una disgustosa malattia cutanea, che tuttavia riconosce come suo il bambino di lei, Ciccio, e anzi si lega a lui con un affetto protettivo e paterno. Adele vive il rapporto con il figlio e il marito con una sorta di nauseata e imposta dedizione, odiando se stessa, i corpi maschili che la circondano, e senza riuscire ad ammorbidire il suo livore nemmeno con la nascita del secondogenito, Gabriele. «’U manciatu s’era fatto pretenzioso, voleva trovare la tavola conzata, il picciriddo curcatu, un silenzio di chiesa e la pasta nel piatto…».

Con un ritmo narrativo incalzante, e un linguaggio reso assolutamente vivido ed espressivo dalle numerose interferenze dialettali («ammucciavano il sole con il crivo!»), Giuseppina Torregrossa riesce a rendere senza pietismi e con partecipe adesione l’abbattimento morale di questa donna, che si riduce e parlare con i suoi fantasmi mentali, chiusa nelle sua cucina, spettinata e ciabattona, ammorbando l’esistenza soprattutto al figlio maggiore, mai desiderato eppure profondamente amato, fino a fargli del male fisicamente, ad allontanarlo da casa, per poi perderlo definitivamente con un’ultima, crudele, ferita quando pensava di averlo riconquistato.

 

«Leggendaria» n.97/98, gennaio 2013

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