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POESIE

PEDRO DEL FARO

Lo chiamavano Pedro –  ma non era spagnolo –
per il baffo spiovente, la voce suadente, l’aspetto
gitano e marino, un destino di sole e di acqua
nel sangue, imbastito di scarne parole.
Da vent’anni viveva nel faro, che era sua moglie
e sua mamma perché ci passava le estati e i natali;
da solo. Ogni mese arrivava la barca a motore
a portargli coperte vestiti vivande: lui scendeva
le scale a spirale, caricava sei sacchi di roba
sulle spalle – farina per il pane, il vino, saponi.
E poi rimaneva in silenzio a mangiare,
assorto a pensare. Sull’isola gli scogli, sentieri
dirupati, brughiera di mirto e rosmarino.
Usciva di mattino, fischiava a un pescatore,
a un contadino che lavorava l’orto,
ma senza dire niente. Inutile parlare,
faticoso: non c’era abituato.
Piuttosto cantava, canzoni d’amore
che aveva imparato in gioventù.
Adesso che è maturo, quasi vecchio,
Pedro guardiano fa compagnia a se stesso
e non gli serve altro, non ha più voglie
rimpianti speranze. Le poche stanze
del faro sono reggia e monastero:
la minima cucina e il forno a legna,
la camera da letto, il cesso e un salottino.
Di giorno tutto bianco di luce,
di notte le stelle splendenti che quasi le tocchi.
Antares, Cassiopea come un diadema,
sapersi nulla scrutando l’orizzonte,
strizzando gli occhi a rincorrere i lampi
che dalla lanterna sorvolano il mare,
indagano il cielo. Ma c’è da fare,
sempre. Spazzare i pavimenti,
controllare le lenti e la pompa
dell’acqua, comunicare i dati
alla centrale, riempire i secchi
nella cisterna fuori, per lavarsi
e per bere. Eppure, sono cielo
e mare, la linea di confine che li segna
a occupargli la mente, i sogni
quando dorme: a fissare dall’alto
quella riga sottile gli viene da pensare
che la terra sia piatta, e non rotonda:
lunga, distesa, un deserto infinito
e paziente. Azzurro, blu cobalto,
giallo al tramonto, rosato all’alba,
di notte nero in quello spazio aperto
solcato a volte da una fila di navi,
più spesso vuoto e muto. Pedro
si perde, cerca l’aiuto di capodogli
e delfini, oppure un roteare di falchi,
gli stridi dei gabbiani per non sentirsi
abbandonato e solo,
che se morisse nessuno lo saprebbe.
Gli piace udire almeno la risacca,
uno sciacquio remoto prima di addormentarsi;
o quando legge il farfallio di mosche,
di falene, le rondini che sbattono
sui vetri, e il vento, il vento forte;
la burrasca, una buriana di scirocco
o grecale, qualsiasi cosa che lo faccia
star bene o male, ma vivo e vero. Da sveglio
col binocolo sugli occhi
non sa cosa si aspetta di scorgere lontano,
nel sulfureo bagliore di flutti giganteschi:
le ossa spolpate di un antico fenicio,
larvale spettro implorante vendetta
che un tempo era bello, era alto
e amava nella stiva ragazzi moreschi;
finì negli abissi del buio avvinghiato
a una trave (ah, temi, marinaio del mondo,
la morte per acqua!). O spera, il guardiano del faro,
di essere il primo a vedere in un’alba nebbiosa,
confuso col vento, lo sbuffo di vapore
alzarsi dal dorso della bianca balena
trafitta di fiocine, indomita, furiosa,
vittoriosa. E dietro di lei un vascello fantasma
che sfiora le onde, si alza, sprofonda,
poi vola su ali poderose tra le nuvole,
scompare come un sogno, è una fiaba
narrata davanti al camino da un vecchio
che accarezza a parole lui bambino.
Lui bambino non ancora Pedrito
pesava i suoi giorni sulla riva
ciottolosa, a lanciare sassetti
rimbalzanti sull’acqua, poi nudo
si tuffava a bracciate innervosite
dove non si toccava: e il faro
era lontano, a guardarlo, futuro
del futuro, promessa
di silenzio e di avventura, di freddo
e di paura; il faro del destino
di Pedrito bambino.
Che cresciuto e forte come un toro,
con le braccia abbronzate e il primo pelo
sulle guance sul petto tornito
ci portava le signore più grandi
straniere, imparava l’amore, le stringeva
sdraiato tra le chiglie delle barche
a riposo, e la luce del faro
sciabolava i capelli normanni vaporosi,
lo invitava ad osare ogni notte di più.
Così pensa i suoi ricordi compagnia
mentre è solo appoggiato con la testa
alla parete brufolosa inumidita
della stanza in cui conta le ore
di fronte alla finestra salmastra,
fumando sigarette stropicciate
tra le dita, e dalla radiolina
ascolta la voce distante
che racconta una partita indifferente.

 

In Lo Straniero n.180, giugno 2015 e in L’attesa, Marco Saya edizioni, Milano 2018

RECENSIONI

HUERLIMANN

THOMAS HÜRLIMANN, NEL PARCO – GARZANTI, MILANO 1992

Un nuovo autore svizzero, Thomas Hürlimann, nativo di Zug ma vissuto tra Zurigo e Berlino, già noto sia per importanti lavori teatrali, sia per una raccolta di racconti (La ticinese) che gli era valsa dieci anni fa autorevoli riconoscimenti, ha pubblicato presso Garzanti la traduzione di un suo romanzo dell’ 89,  Nel parco. Romanzo di atmosfera, in cui accade poco più di niente: due anziani genitori – lui, ex militare di carriera; lei, moglie tenace e madre tradizionale – porgono giornalmente omaggio alla tomba dell’unico figlio maschio, morto di cancro prima di poter comparire in divisa davanti al padre. «Erano i genitori di un figlio morto. Erano sopravvissuti al loro discendente, al portatore del nome ed erede, che avrebbe dovuto continuare nel futuro il casato. Questo era un controsenso della natura. A esso, un po’ per cordoglio, un po’ per penitenza, veniva pagato un tacito tributo mediante la quotidiana visita al cimitero».

La morte del ragazzo, nato dopo sei femmine, sembra rendere più profondo e definitivo il baratro che da tempo si era aperto tra marito e moglie: primo, insidioso segnale di rottura è il dissidio tra i due sul tipo di stele funeraria da porre sulla sepoltura. E’ la moglie, con femminile e prevaricante testardaggine, che riesce a realizzare il suo progetto di un monumento in granito. Il colonnello si adatta, adeguandosi anche al rito della visita giornaliera al cimitero, un parco elveticamente impeccabile nel suo curatissimo verde, ma altrettanto macabro nel memento calvinista riservato ai visitatori: «Quello che voi siete, eravamo noi. Quello che noi siamo, sarete voi». Docile nel seguire la consorte e nel condividerne il cordoglio, l’anziano militare mantiene però una quasi infantile autonomia nell’imporre a queste visite uno stile soldatesco, ormai patetico: «Il colonnello dava l’ordine di partenza, direzione tomba»; «Lassù gli riusciva proprio tutto. Lì era il fronte, lì il vecchio soldato era nel suo elemento». E ben presto trova una motivazione più urgente dell’omaggio al figlio per giustificare la sua adesione al rito quotidiano: tra le tombe sbuca un gatto randagio, «un essere smagrito, ossuto, tremolante» che lui prende a nutrire di nascosto dalla moglie. E mentre lei è dedita a lavori di giardinaggio o di pulizia della tomba, il colonnello si distrae in grottesche operazioni tattiche di «rifornimento» all’animale, che subito assume un rilievo allegorico, trasformandosi nella proiezione dell’unica forma di vita in quella città dei morti.

«Comparve da Emilio Hagedorn, infarto cardiaco, un’ombra che lambì il marmo chiaro, qualche attimo dopo sgusciò intorno all’acquasantiera del commilitone Kessler, una faccenda di prostata con complicazioni laterali…Allora lo vide, stava arrivando, allarme rosso. Altri tre minuti… e avrebbe raggiunto la carnosa copertura di fogliame sopra la tomba dei Siegenthaler, lui cancro allo stomaco, lei all’intestino». Il sostentamento della bestiola costa al colonnello tempo ed energia, in primo luogo per procurare e conservare la razione giornaliera di carne senza dare nell’occhio (e allora, visite improvvise e ingiustificate al supermercato, riserve di cibo negli armadi di casa o nelle tasche dei vestiti fuori stagione), con il susseguirsi di situazioni imbarazzanti, che allarmano la moglie e tutto il parentado. Ma il vecchio è ancora un soldato: «semel miles, semper miles», e continua imperterrito nelle sue operazioni di rifornimento, studiando nuove tattiche e aggiornandosi su riviste di strategia militare per aggirare il nemico ottenendo lo scopo prefisso. In un crescendo di allucinazioni e frenesie, il gatto diventa alleato e insieme obiettivo strategico: «Il figlio? No, pensava il colonnello. Lo conduceva alla tomba il dovere. Lui, il vecchio soldato a riposo, nella vecchiaia era diventato l’ufficiale di sussistenza di un animale randagio». La moglie non capisce, soffre, si sente schernita nella sua sofferenza di madre, e teme nel marito una forma di demenza senile.

«Lei amava le sere presso la tomba, lì era felice. Quello che diceva era preghiera, e quello che faceva le si trasformava tra le mani in metafora…Un dio malvagio le aveva rubato il figlio, ora un gatto da cimitero le rubava il marito: il suo cuore si chiuse in una morsa di gelo». Intorno alla coppia, sempre più smarrita e incapace di sfogare il proprio strazio, le figlie sciamanti, i generi indifferenti, i nipoti capricciosi, e soprattutto l’imponenza triste della grande villa sul lago, un parco deserto e denso di ricordi, presenze minacciose nel loro silenzio. E’ un disagio inespresso e inesprimibile, quello che mura i gesti dei due vecchi in triste incomunicabilità, reso più drammatico da un paesaggio immobile e inespressivo, da una cultura nevrotica e superficiale, dalla neve che tutto livella, ma su cui ancora compaiono, incancellabili e vincenti, le orme del gatto, tracce di un’animalità che è vita. Molto critico nei riguardi della società in cui è cresciuto, strozzata da mode intellettuali che a volte assumono volti riconoscibili (da quello junghiano a quello antroposofico), Hürlimann è crudelmente pessimista anche nelle pagine finali del romanzo, forse un po’ affrettate e volutamente conclusive, rispetto al lento dipanarsi della vicenda. E crudelmente patetiche sono comunque la pazzia del colonnello, che beve il suo whisky col biberon, e la confusione mentale della moglie, intenta a cercare sul lungolago, ogni sera, la sposa adatta per il figlio morto.

 

«L’Arena», 13 febbraio 1992

RECENSIONI

FRANCK

DAN FRANCK, LA SEPARAZIONE – RIZZOLI, MILANO 1996

Uno scrittore di successo, sceneggiatore abituato alle luci della ribalta, ebreo di sinistra cresciuto nella scia del maggio ’68, approdato a un laicismo ecologico e tollerante, insomma un interessante quarantenne parigino, sicuro di sé e della sua vita, si rivela improvvisamente fragilissimo, sbandato, disperato, quando sua moglie decide di lasciarlo, portandosi via i due bambini, di cinque anni e otto mesi. Torna ad essere, allora, il più tradizionale dei mariti, geloso, ricattatore, infantile. Capace di studiare e di mettere in atto ogni pratica di seduzione e convincimento, pur di trattenerla. Scritto in terza persona, con uno stile conciso, a volte sincopato, quasi a seguire i pensieri e i sentimenti altalenanti, a singhiozzo, dell’autore, il romanzo  La separazione di Dan Franck ha ottenuto nel ’91
il Premio Renadout, ed è stato trasposto sugli schermi con l’interpretazione di Isabelle Huppert e Daniel Auteuil. Si apre con la descrizione di una serata a teatro, in cui lui («Lui») tenta di prendere la mano di lei («Lei») che gli è seduta accanto, «distante e tesa», e non risponde alla sua stretta, o si ritrae. Lui insiste, le preme la spalla, le accarezza un ginocchio, e lei si irrigidisce, si scosta, infastidita. Al ritorno, in moto, non si appoggia alla sua schiena, non gli cinge i fianchi. A casa lo schiva, esce dalle stanze quando lui entra. Alle domande incalzanti del marito oppone annoiata resistenza («Non so, non mi capisco, sarà lo stress, saranno i bambini»). Però si cura di più, si veste con maggiore ricercatezza, a momenti è radiosa: altrimenti soprappensiero, malinconica, via da tutto. Fino a quando confessa di amare un altro, di vederlo regolarmente, di desiderarlo. Un altro («l’Altro»), non meglio precisato, mai descritto, ma onnipresente. Per un mese, dopo la rivelazione, non succede niente: i due si sorvegliano, scaramucciano, tormentandosi con sadismo. Poi lei sta fuori una notte, e lui crolla, impazzisce. Non mangia più, tenta improvvisi recuperi, la ricatta con la rivisitazione degli anni passati insieme, o con la sofferenza dei bambini, verso cui si accorge solo ora di nutrire un affetto morboso. Insieme vanno alla deriva, non hanno più gesti o parole in comune, non si chiamano nemmeno più per nome («Ehi!»); coinvolgono nella loro storia decine di vecchi amici, e parenti, tutti alle esequie di un amore, maledicenti o complici. Infine, la separazione arriva come il minore dei mali, i bambini rimangono a lei, lui pian piano si rassegna a una solitudine riempita di espedienti, non più rancoroso ma senz’altro sconfitto,e convinto che la moglie e i figli, anche se ormai lontani, in una casa che non è la sua, «quei tre resteranno per sempre i suoi».

 

«L’Arena», 21 giugno 1996

RECENSIONI

SCHWARZENBACH

ANNEMARIE SCHWARZENBACH, GLI AMICI DI BERNHARD – L’ORMA, ROMA 2014

Annemarie Schwarzenbach, nata a Zurigo da facoltosi industriali nel 1908 e morta precocemente nel 1942, fu scrittrice anticonformista e ribelle, lesbica e morfinomane, viaggiatrice instancabile e chiacchierata protagonista dei salotti dell’alta borghesia internazionale. L’elegante casa editrice L’ Orma pubblica ora il suo primo romanzo, scritto a ventitré anni, ambientato nell’elitario e ovattato milieu dell’aristocrazia finanziaria, culturale e artistica imperante in Europa tra le due guerre. Protagonisti della narrazione sono i compagni di Bernhard, un diciassettenne tedesco sensibile, mite, dolcissimo che vorrebbe dedicare la sua intera esistenza all’amicizia e alla musica. I giovani che gli ruotano intorno (Gert, Irma, Hans, Christine, Leon…) sono belli, alti, eterei, raffinati, benestanti, privi di interessi politici e indifferenti a qualsiasi scrupolo religioso o solidarietà sociale. Le loro ambizioni sono volte a raggiungere traguardi non tanto economici quanto di notorietà artistica (seppure effimera) come pianisti, pittori, scultori. Vivono senza programmare il futuro, in un continuo accavallarsi di incontri, viaggi, cene, spettacoli, e amori incrociati che mai si trasformano in dedizione, passione o tormento. La seduzione reciproca, la continua allusione a un’omosessualità tentatrice ma temuta, le ripicche adolescenziali, le gelosie e i fallimenti vengono raccontati dall’autrice con vivacità divertita e cronachistica, passando spesso dalla prima alla terza persona, o usando l’artificio didascalico di rivolgersi direttamente al lettore. Non ci troviamo di fronte alla profondità della Woolf, né all’eleganza di Scott Fitzgerald: ma l’inquietudine, l’insoddisfazione morale, i tremori emotivi di questi amici nascono negli stessi anni e nelle stesse atmosfere: «…si dovrebbe vietare ai giovani di dichiararsi soli. Che paradosso, scrivere la tragedia di un giovane».

«Leggendaria» n. 111, maggio 2015

RECENSIONI

CANOZZI – DE PIETRO

MARIA PAOLA CANOZZI, SETTEMBRE SAREBBE UN BEL MESE – MARCO SAYA, MILANO 2014
ANNAMARIA DE PIETRO, RETTANGOLI IN CERCA DI UN PI GRECO – MARCO SAYA,
MILANO 2014

Per le edizioni milanesi di Marco Saya, sono usciti recentemente due volumi al femminile, il primo di narrativa, il secondo di versi, scritti rispettivamente da Maria Paola Canozzi e Annamaria De Pietro.
In un paesino collinare dell’alta Toscana, lussureggiante di vegetazione selvatica e di coltivazioni curate, popolato da ogni specie di animali (terrestri, fluviali, celesti), è ambientato il primo di questi volumi, breve romanzo ecologista della scrittrice fiorentina Maria Paola Canozzi. «Questo è un autentico piccolo paradiso, non a caso si chiama Valbenedetta. Per essere perfetto gli manca solo che tornino le mucche e le pecore a pascolare nei campi. E che spariscano i cacciatori».
La protagonista del racconto, alter ego dell’autrice, è una signora che professionalmente si occupa di restauro, amante della natura e dell’arte, animata da una risentita e vigile coscienza civile e ambientalista, «vegetariana quasi vegan»: trascorre l’estate nella vecchia casa di campagna dei nonni, e il resto dell’anno a Firenze. Nelle settimane di vacanza si trasforma in una sorta di savonaroliana giustiziera delle violenze e degli abusi sugli animali, perpetrati da ottusi e crudeli bracconieri e uccellatori, e vilmente tollerati dall’amministrazione comunale e dal resto della popolazione. Valbenedetta «è un paese di gente che alza le spalle», insensibile nei riguardi di cani, cinghiali, uccellini e scempi naturalistici. La villeggiante pasionaria si incarica di far fuori i più brutali cacciatori simulando maldestri incidenti, e la sua ferocia punitiva lentamente si espande anche a diverse, oltraggiose situazioni urbane. Arriva così a liberare i maiali trasportati sadicamente in camion-mattatoi, e a denunciare le sevizie inflitte alle aragoste durante le feste natalizie cittadine, in una Firenze divenuta invivibile preda di traffico, turisti incivili, indifferenza culturale. La narrazione alterna con ironia ed eleganza episodi surreali e comici ad allarmanti dati informativi sul suicidio a cui il genere umano si sta precipitosamente votando, attraverso l’inquinamento, la corruzione, e ogni tipo di comportamento individuale egoista e distruttivo nei confronti dell’ambiente e degli animali. Settembre sarebbe un bel mese, se non si aprisse la stagione dello sport più feroce e inutile: la caccia. A ciascuno di noi si rivolge l’appello indignato dell’autrice perché si ponga fine a questa barbarie impunita.
Nel secondo volume preso in esame, la poesia di Annamaria De Pietro costituisce un riuscito esempio di come anche l’inflazionato e disinnervato esercizio della scrittura in versi possa trovare nuova, originalissima linfa dal meditato connubio di cultura, mestiere, ironia, intelligenza. In più di trecento quartine, talvolta «caudate scodinzolanti», severamente ligie alla più collaudata tradizione letteraria (endecasillabi, rime ABBA, ABAB…), l’autrice elabora un suo «laboratorio malcerto» di esplorazione esistenziale su tutti gli argomenti possibili, dello scibile e dell’ignoto: dai sentimenti, ai ricordi, agli oggetti, alla storia, alla scienza. Nel tentativo di far quadrare il cerchio, di individuare il grimaldello di un pi greco che riesca a dare significanza al «rettangolo inesatto» del nostro vivere. Quartine di non facile lettura e non subitanea comprensione, giustificate spesso più da assonanze, ritmi, analogie visive che dalla coerenza di una logica interpretativa: e a questa difficoltà sembra voler soccorrere la poetessa con un commento (differenziato anche graficamente) posto in calce a ciascuna di esse. Glossa che talvolta risulta più fuorviante e immaginosa della stessa poesia, con l’intenzione esplicita di sconcertare il lettore, obbligandolo a fermarsi, a rimeditare, a trovare da solo una qualche illuminazione che lo aiuti a penetrare il significato – fulmineo e nascosto – che si cela nella lapidarietà, gnomica, sentenziale, dei versi. «Un’epitome del cosmo» orgogliosamente provocatoria, quella che propone Annamaria De Pietro, sfidando un eccesso di intellettualismo, un’esibizione quasi compiaciuta di perfezione stilistica, spavaldamente e sarcasticamente controcorrente, come in questa «dichiarazione di poetica»: «Non vada cinta della veste sciatta / buona articolazione d’ossi e vene – / ne segua augusta veste le serene / corrispondenze per misura esatta». Forse più accattivanti risultano le quartine in cui l’autrice si diverte, seriosa ma ammiccante, a prendersi in giro, prendendoci in giro tutti, come in questo esempio: «Non so da quale parte della porta / io stia, se quella fuori o quella dentro. / Fra le maniglie la distanza è corta / e, quando l’attraverso, esco? – entro?» O in questo: «Teme che le si strappi il cuore a brani, / ma dove mettere i brani ordinati, / poi, se i cassetti sono già stipati / e se lo strappo le strappò le mani?», a cui segue l’ironico commento: «Il mio libro di economia domestica delle medie recitava: ‘Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto’. Perché hanno abolito quella materia così pragmatica, così profittevole?» In favore dell’informatica, si suppone.

 

«Leggendaria» n. 111, maggio 2015

RECENSIONI

SMITH

ZADIE SMITH, L’AMBASCIATA DI CAMBOGIA – MONDADORI, MILANO 2015

Mondadori, che nel 2001 aveva pubblicato Denti bianchi della giovanissima Zadie Smith (nata a Londra nel 1975 da padre inglese e madre giamaicana), romanzo divenuto subito un best-seller internazionale, propone oggi una novella della stessa autrice, certamente non allo stesso livello della sua opera d’esordio. Si tratta di un racconto scandito in 21 capitoletti, quanti sono i punti di una partita a badminton, perché proprio sui colpi cadenzati (poc, smash; poc, smash…) di questo gioco si modula la narrazione. Protagonista è la giovane ivoriana Fatou, arrivata a Londra dopo aver attraversato Africa e Italia in cerca di un futuro decente, e dopo aver subito una violenza sessuale in Ghana da parte di un turista russo, insieme a molte altre umiliazioni nei più disparati posti di lavoro. A Londra presta servizio presso una ricca famiglia araba, occupandosi delle pulizie e dei tre figli spocchiosi e aggressivi. Non riceve nessuno stipendio, e le viene nascosto il passaporto perché non possa scappare. Suo unico diversivo è recarsi a nuotare nella piscina di un centro benessere con i biglietti omaggio dei suoi datori di lavoro. Per farlo, ogni lunedì passa davanti all’ambasciata di Cambogia, un villino circondato da un alto muro di mattoni rossi, dall’interno del quale sente sempre arrivare i colpi di volano del badminton. Fatou ha un unico amico, uno studente nigeriano che la istruisce sommariamente con elementari lezioni di storia, raccontandole qualcosa della dittatura cambogiana e dei Khmer Rossi, abbozzando pensieri di una banalità quasi sconcertante: «C’è sempre qualcuno che vuol essere l’Uomo Forte, e arraffare tutto, e dire a tutti come pensare e cosa fare. Quando in realtà è lui quello debole. Ma se un Uomo Forte vede che tu vedi la sua debolezza, non gli resta che distruggerti. Questa è la vera tragedia».

La vicenda, tutto sommato piuttosto inconsistente e senza alcun approfondimento di tipo sociologico, si conclude con l’immotivato licenziamento di Fatou, salvata alla fine dall’ amico nigeriano che le presta generosamente il suo solidale soccorso economico ed esistenziale.

 

«Leggendaria» n.111, maggio 2015

RECENSIONI

NEMIROWSKY

IRÉNE NÉMIROWSKY, JEZABEL – GARZANTI, MILANO 2014

Garzanti ripropone il romanzo di Iréne Némirowsky pubblicato nel 1936, di cui il traduttore e prefatore Lanfranco Binni sottolinea «l’epicità quasi brechtiana», capace di tratteggiare «un ritratto indimenticabile di donna, antico e moderno, archetipico e storico, crudele e vero, che affronta con dolore e con rabbia le dinamiche della complessità femminile e della sua prigione sociale». La protagonista del racconto è la gelida e bellissima aristocratica Gladys Eysenach, reincarnazione della spietata regina biblica Jezabel: smaniosa di asservire persone, sentimenti e situazioni esistenziali ai suoi personali ed egocentrici capricci, incurante delle sofferenze ed umiliazioni altrui, ed ossessionata esclusivamente dalla cura del suo aspetto fisico. Il romanzo si apre con queste parole:«Una donna entrò nella gabbia degli imputati». E’ appunto Gladys, accusata di aver ucciso un giovane penetrato nella sua camera da letto. Forse il suo amante, forse un ladro o un ricattatore: la donna viene condannata a una pena mite, e il sipario si chiude sulla sua vita inquieta e tutto sommato infelice. Ma la gabbia del tribunale in realtà è metafora di ben altra e più feroce costrizione: Gladys non accetta di invecchiare, è terrorizzata dall’idea di non venire più amata dagli uomini, di perdere il suo fascino seduttivo. «Com’era dolce vedere un uomo ai suoi piedi…Detestava la sofferenza; come i bambini, si aspettava ed esigeva la felicità». Passando da un amante all’altro, aspirando solo a suscitare invidia e ammirazione, arriva a falsificare il suo atto di nascita per celare i suoi anni, a frequentare squallide case d’appuntamento pur di godere della sua insaziabile sessualità: ma soprattutto proibisce all’unica figlia di realizzarsi nell’amore e nella maternità, lasciandola morire con indifferenza. La sorpresa finale riguardante l’identità del giovane ucciso riscatta la narrazione, con l’incalzare degli avvenimenti, da qualche indulgenza a toni da feuilleton.

 

«Leggendaria» n.111, maggio 2015

RECENSIONI

HAMILTON

JANE HAMILTON, LA MAPPA DI ALICE – BALDINI & CASTOLDI, MILANO 1996

Un tempo ritenevo che l’abbattersi della sciagura fosse in genere conseguenza di un errore marchiano o di una disgraziata fatalità. Non avevo ancora scoperto che può verificarsi così gradualmente che non se ne avvertono gli indizi premonitori né l’impatto. Magari non se ne percepisce neppure il movimento. Ho imparato che occorrono almeno due o più avvenimenti per alterare il corso di una vita: la verità sfugge una prima volta, una seconda, quindi una terza, e poi in un attimo si ha la sensazione che tutto sia franato di colpo.

Così filosofeggia Alice Goodwin, protagonista del libro La mappa di Alice, una casalinga trentenne che vive con il marito allevatore e con le due bambine in una fattoria del Wisconsin, travolta da una serie di accuse che distruggono la serenità della sua famiglia e la sua reputazione. Lei e il marito («Avevo sposato Howard sapendo che niente lo rendeva più felice della vista del latte che attraverso i tubi passava nella vasca di raccolta… La stalla era la sua guerra. Lui era il generale e le mucche i suoi soldati. Le guidava nelle loro esercitazioni due volte al giorno, sette giorni la settimana, cinquantadue settimane l’anno.») hanno rilevato l’ultima fattoria della cittadina di Praire Center, facendo un ottimo affare economico, ma suscitando da subito fastidio e diffidenza nella comunità ospitante. Troppo diversi, infatti, sembrano entrambi ai loro compaesani: lui, uomo asciutto, gran lavoratore, restio alla cura del proprio aspetto e poco propenso ai rapporti con le altre persone; lei disordinata, mutevole d’umore, scarsamente amante della casa e della cucina, e invece sempre immersa in letture e nella musica; le bambine cresciute spartanamente, senza alcuna concessione a futilità di moda. Quasi degli hippy, insomma, cui dare poco affidamento, indifferenti alla abitudini del paese, «estranei all’immaginario collettivo». Perciò i Goodwin vengono considerati con sospetto, salutati a fatica, trattati scortesemente nei locali pubblici. Sensazioni, impressioni vaghe, ma che prendono man mano consistenza col passare del tempo, fino a dar corpo a veri e propri incubi, a una persecuzione ossessiva. Quest’ansia generalizzata di punizione trova una sua valvola di sfogo quando nel laghetto della fattoria annega la bambina dei vicini con cui, soli, i Goodwin erano riusciti a instaurare un rapporto di amicizia e confidenza reciproca. E’ Alice che viene additata al pubblico ludibrio, per la sua disattenzione o superficialità e, in seguito, perché il senso di colpa che la disgrazia ha provocato in lei le fa assumere atteggiamenti autodistruttivi, che vendono stigmatizzati con acribia. Si scava con cattiveria nel suo passato alla ricerca di episodi che avallino la cattiva opinione che di lei nutre il paese, e così lo schiaffo affibbiato a un ragazzino difficile nella scuola in cui esercita la sua professione di infermiera, assume contorni mostruosi, connotati morbosi e deliranti. Le chiacchiere si ingigantiscono, diventano calunnie sempre più pesanti, finché Alice è arrestata sotto il peso di un’imputazione agghiacciante mossale dalla madre del ragazzino schiaffeggiato. Il marito e le bambine rimangono soli, evitati come la peste da tutta la comunità. Oggetto di telefonate anonime e di sputi per strada: vicini a loro rimangono solamente la famiglie della bimba annegata e un avvocato. Per pagare la cauzione e le spese del processo, Howard è comunque costretto a svendere la fattoria, e a trasferirsi in un’altra città, cercando un impiego qualsiasi. Rimane lucido, razionale e, impedendosi di lasciarsi sfiorare dal sospetto riguardo al comportamento della moglie, cerca di spiegare a se stesso e alle figlie cos’è successo: «A volte, la gente accusa dei suoi guai una persona che non c’entra…Alice si preoccupava tanto di quello che certe persone potevano dire di lei…Temeva che le vecchie comari sparlassero. Io le dicevo di lasciar perdere, che era sciocco far caso ai pettegolezzi. Adesso capisco di cosa bisogna ave paura: delle chiacchiere. Proprio. Le chiacchiere. E non so come abbiamo creduto di poter avviare una fattoria, qui. Occorre aver vicino gente con gli stessi interessi».

Alice viene ovviamente assolta dalle accuse, il bambino si contraddice, rivelando di essere rimasto traumatizzato da una scena vissuta nella sua famiglia, protagonisti sua madre e un estraneo; il caso Goodwin si sgonfia, pretesto di un rito di purificazione collettiva, con un capro espiatorio che necessariamente doveva essere una donna e estraneo alla comunità. Legalmente, quindi, tutto si riduce a niente: ma alcune vite sono state spezzate, due bambine rimarranno segnate per sempre, una coppia vivrà con problemi che non è andata a cercarsi.
L’autrice de La mappa di Alice, Jane Hamilton, si sta segnalando negli Stati Uniti come scrittrice di indubbio talento, sulla scia di Anne Tyler e di una nuova narrativa al femminile, non più intimista o rancorosa, ma aperta anche a tematiche di grosso rilievo sociale e civile. Molto coinvolgenti le pagine sull’annegamento della bambina nel laghetto, l’impatto di Alice con la prigione, la spietata autoanalisi del marito; e in generale il clima di sospetto, la rete viscida di congiura che incatena e soffoca i protagonisti, e inquieta noi lettori, al punto che cerchiamo di consolarci pensando che storie del genere possono accadere solo nei romanzi. Americani, per di più.

 

«L’Arena», 31 luglio 1996

RECENSIONI

DIVRY

DIVRY SOPHIE, LA CUSTODE DI LIBRI – EINAUDI, TORINO 2012

Il monologo che la trentenne scrittrice lionese Sophie Divry mette sulle labbra della protagonista del suo romanzo parte in sordina, un po’ rampognoso un po’ sentimental-confidenziale, per alzare il tono e gli obbiettivi di polemica man mano che si procede nella lettura. La voce che si confessa in queste pagine è quella di una matura signora che da venticinque anni cataloga libri nel reparto destinato ai testi geografici della biblioteca pubblica di una città di provincia, con devozione al suo lavoro ripetitivo, metodico, quasi rassegnato: «catalogare, riordinare, non disturbare, è tutta la mia vita». Lo scantinato in cui lavora diventa un osservatorio privilegiato per commentare sia le abitudini di chi frequenta le sale di lettura, sia i modelli e i limiti culturali del pubblico e dell’editoria, sia i rapporti umani e professionali di chi lavora all’interno dell’edificio. Lettrice onnivora ma scaltrita e dai gusti raffinatissimi, esprime giudizi taglienti e controcorrente sia sulla storia e sulla letteratura francese, sia sul progressivo imbarbarimento di quello che dovrebbe rappresentare per la comunità l’amore per il sapere.

«Mi sento la linea Maginot della lettura pubblica…. Di tutti quei libri che ti saltano addosso a centinaia, il novantanove per cento serve solo ad avvolgerci le sardine. Per le biblioteche sono una calamità. I peggiori sono i libri espresso, quelli d’attualità: ordinati, scritti, stampati, presentati in televisione, comprati, ritirati e mandati al macero in men che non si dica. Di fianco al prezzo, gli editori dovrebbero mettere anche la data di scadenza…».

Un volumetto piacevole, disincantato e amaro, che potrà essere apprezzato soprattutto da chi ama la lettura e i silenzi delle biblioteche pubbliche.

 

«Leggere Donna» n.159, marzo 2013

RECENSIONI

CVETAEVA

MARINA CVETAEVA, A RAINER MARIA RILKE NELLE SUE MANI – PASSIGLI, FIRENZE 2012

Chi ama la poesia non dovrebbe lasciarsi sfuggire questo libro, che raccoglie testimonianze del rapporto che ha unito due tra i maggiori scrittori della prima metà del 900: Marina Cvetaeva e Rainer Maria Rilke. Che non si sono mai conosciuti personalmente, ma che – come succede alle grandi anime- hanno saputo incontrarsi e arricchirsi spiritualmente sia nel rapporto epistolare sia nella lettura reciproca e ammirata della loro produzione poetica. Boris Pasternak, amico di entrambi, favorì la loro conoscenza, invitando Rilke a spedire alla Cvataeva i suoi libri nel maggio del 26: i due si scambiarono in pochi mesi quindici lettere in tedesco («vertigini liriche, dove c’è spazio per l’intesa totale», scrive la curatrice del volume Marilena Rea), fino alla morte di lui, avvenuta per leucemia in un sanatorio svizzero il 29 dicembre dello stesso anno. Il baratro che questo lutto provocò nei cuori e nei pensieri della poetessa russa, il suo sentirsi improvvisamente orfana e vedova di un’amicizia straordinaria ed esaltante, trovò una sua consolante espressione in una «potente ondata creativa», concretizzatasi nella realizzazione di due poemi (Lettera per l’anno nuovo e Poema dell’aria) e nella prosa di La tua morte, tutti composti nei primi mesi del 1927.
Come trovare riparo al dolore, come recuperare memoria e speranza, se non nella composta bellezza dei versi? «Bisognerà pure avere altro: altalena, ramo, / cavallo, fune – salto // più in alto!» , e ancora: «All’estremo scadere del tempo / ci sarò io- occhio di chiarore», scriveva Marina in una profetica e preveggente illuminazione poetica, appena iniziata la corrispondenza con Rilke. E poi, dopo averlo perso: «Se lo sguardo tuo s’è fatto notte / allora la vita non è vita, la morte non è morte», «Buon luogo nuovo, Rainer, azzurro, Rainer!», «Gloria a te che la breccia / hai aperto: più non peso».
Marina Cvetaeva si uccise nel 1941.

 

«Leggere Donna» n.157, dicembre 2012

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