Mostra: 1561 - 1570 of 1.702 RISULTATI
RECENSIONI

BUKOVAZ

ANTONELLA BUKOVAZ, AL LIMITE – LE LETTERE, FIRENZE 2011

Antonella Bukovaz è poetessa originaria di un piccolo paese sul confine italo-sloveno, e insegna appunto sloveno in una scuola in provincia di Udine. Si occupa dell’interazione tra parola, suono e immagine, ed è attivamente partecipe delle più nuove tecniche di video-audioinstallazione. Anche questo suo libro di versi pubblicato da Le Lettere è accompagnato da un dvd, ad indicare il suo specifico interesse verso la multimedialità. Ma è proprio la sua condizione di bilinguismo quella che più emerge dalla sua scrittura poetica come riflessione sulla produzione letteraria, “al limite” tra espressioni diverse. Un suo poemetto molto interessante, recentemente riproposto nell’antologia Einaudiana  Nuovi Poeti Italiani 6, si apre con una lunga citazione di Pasolini sulla reciproca compenetrazione tra italiano e friulano, ufficialità e marginalità, nostalgia e regressione da una parte e rappresentazione “civile” dall’altra. Ed ecco dunque la sofferta condizione poetica della Bukovaz: «Parlo dal bordo e solo mi capisce / chi arretra per dare spazio / alla respirazione della distanza / tra una lingua e l’altra», «parlo da questa compresenza / in cui sempre cerco la parola persa», «i suoni slavi compongono il mondo / che appena mi consola», «È il linguaggio l’unico altrove che mi resta». Con la consapevole e orgogliosa affermazione della sua unicità di interprete di due diverse anime ed espressioni: «Lingua sconfinata / io ti sono sentiero!». In altre poesie, l’ intenso rapporto vissuto con un paesaggio-persona («Ho deciso di stare dove posso comprenderti tutto… andiamo uno nell’impronta dell’altro…  e pago questo amore sconfinato / con la fragilità di ogni mio respiro») evidenzia comunque questo bisogno assoluto di radicamento (il deittico “qui” viene ripreso in continuazione, a ribadire l’esigenza di un posizionamento nella fedeltà a un luogo: «mi sono fermata qui… posso stare qui… Qui le cose tendono a ciò che è bene»), la necessità di preservare la realtà conquistata, allontanando il timore di una sua scomparsa o dissolvimento: «Distesa lungo l’ultimo sentiero / sono la tua forma senza inganno / traccia di scomparsa / che appare se mi volto dentro / in assenza di percezione».

 

«Leggendaria» n. 97/98, gennaio 2013

RECENSIONI

ANDREIS

DANIELA ANDREIS, AESTELLA, – INCERTI, LEGNAGO 2011

Un piccolo, elegante libro di Daniela Andreis, giornalista veronese, pubblicato dalla giovane e raffinata casa editrice Incertieditori. Si tratta di 24 brevi lettere d’amore, spedite a un amore lontano, a una Aestella che riluce attraverso la lente di un sentimento forte e delicato insieme, pudico e appassionato. Lettere, appunto, inviate e ricevute per posta, con la magia sospesa dell’attesa, di cui si scruta ansiosamente l’arrivo («la mano che le prenderà … girerà dove è scritto l’indirizzo per vedere se è il tuo nome quel nome»), che si fiutano per assaporarne il profumo («l’odore stagionale»), che si indagano in ogni riga e spazio bianco. Di chi le scrive sappiamo che vive al terzo piano di un condominio dove «nessuno conosce nessuno», gli inquilini si evitano o comunicano tra loro attraverso messaggi lasciati nella cassetta postale: sappiamo che vive in un tempo e in uno spazio «siderale», bloccata in un «addiaccio» di paure e estraneità, e che sembra esistere solo in funzione di questo stregato e coinvolgente epistolario amoroso: «ti dico più cose di quelle che vivo…attraverso di te vivo due volte…mi sento relegata in questo spazio siderale come una recluta, una scorta che attende perennemente che venga il suo turno per starti vicino e intanto tiene in ordine la divisa e si lucida le scarpe».

Di chi riceve le lettere sappiamo ancora meno: che è una persona bella, silenziosa, ha «una bocca di vetro infrangibile». Ma a lei si raccontano giorni e minuti, visite ai mercati di roba vecchia, paure e nostalgie, con similitudini e metafore che hanno la grazia e la perfetta evidenza della verità: «Tutto questo mi dà alla testa; provo l’euforia dell’evaso che pur di vivere la fuga, scritta a lungo nel suo cuore, espone la schiena allo sparo». A chi si ama si chiede una cosa sola: «pochi minuti immemori di felicità indimenticabile», che possono essere vissuti anche leggendo o scrivendo lettere d’amore, in un linguaggio espresso «come minuscole onde dentro un bicchiere, o piccoli strappi sulla stoffa…ad un ritmo così lento, così implacabilmente lento, di foglie che cadono senza vento»».

 

«Leggendaria» n.96, novembre 2012

RECENSIONI

MARIANELLI

MARIANELLO MARIANELLI, VEDERE O NON VEDERE – AKTIS, PISA 1992

Viviamo nella civiltà dell’immagine: vedere e essere visti ci rassicura sulla realtà della nostra stessa esistenza; protagonista attivo o passivo dell’accadere, offuscato dall’indistinto o abbagliato dall’eccesso, è lo sguardo il più vitale e sfruttato dei cinque sensi. Per Marianello Marianelli, germanista di fama, recensore per La Nazione e scrittore in proprio, lo shakespeariano “Essere o non essere” si ripropone in un più probabile e veritiero Vedere o non vedere, dove l’azione dell’occhio è sinonimo e garanzia di un rapporto autentico con il reale, di una penetrazione che è anche possesso. Vedere come acquisizione di coscienza, ma insieme condanna alla consapevolezza e alla disillusione; non vedere come cecità, incapacità ad agire, morte civile, ma insieme libertà di sogno e, perché no?, di errore. I quattro racconti che Marianelli raduna sotto il titolo, appunto, di Vedere o non vedere, definiti dall’autore «meditazioni narrative», vengono accomunati tutti in qualche modo dalla riflessione sui drammatici vantaggi (agiti o patiti) dell’osservazione. Secondo modalità già sperimentate nei suoi ultimi volumi di racconti, l’autore si inventa un quotidiano impastato di futuro, con avveniristiche striature di fantascienza: nella prima storia, ad esempio, immagina una clinica – che ha la spietata efficienza di un lager – in cui la gente può registrare in cassetta, e poi visionare secondo rigidissime clausole, i propri sogni. Pazienti in cui tutti potremmo riconoscerci, frequentano la clinica in preda ai desideri più inconfessabili, pazzi di rimpianti o gelosia, drogati da un onirismo fasullo, da una visionarietà artificiosa. Così uno scrittore famoso rinuncia a inventare ulteriori trame narrative perché trova più rapido, comodo e redditizio produrre, registrare e mettere in commercio i suoi sogni, commentati da critici in delirio e acquistati da un pubblico ignorante. Anche gli animali sognano, con una ingenuità e una poesia che li rivela molto migliori dei loro padroni. Se è difficile difendere i sogni della gente (il direttore della clinica verrà infatti ricattato, lusingato, spiato, minacciato e alla fine distrutto materialmente insieme alla sua creatura), ancora più problematico è difendere la gente dai suoi sogni, tirannici e crudeli divulgatori delle miserie morali di ognuno. Nel secondo racconto, ambientato a Pisa, un’inspiegabile malattia o fattura condanna Piazza dei Miracoli a una progressiva e irrimediabile autoriduzione. I monumenti rimpiccioliscono, sembrano voler ritirarsi in se stessi, e il mondo scientifico impazzisce nel tentativo di individuarne cause e rimedi. Sarà un semplice ingegnere poco “coltivato” a scoprire la natura di questa stregoneria: i monumenti rimpiccioliscono relativamente alla frequenza con cui vengono fotografati o filmati, si dimostrano allergici alla scienza e al progresso, pretendono che li si guardi come li si è guardati per secoli, con fede e stupore ammirato, con l’indugio paziente che meritano i capolavori, in silenzio. Ancora il silenzio è il protagonista per negazione dell’ultimo racconto, ambientato in un’ aldilà particolare, ridotto all’esistenza di sole voci, a una vita eterna fatta di parole. I profumi, la musica, le visioni di ogni genere possono essere solamente raccontate da voci «beate e sospese», più o meno fioche, più o meno convinte. Se all’inizio era il Logos, Marianelli suppone che anche alla fine unica superstite rimanga la parola, e a lei venga demandata la responsabilità di creare o annullare qualsiasi parvenza di realtà. Nel più breve e delicato dei quattro momenti narrativi, Marianelli riesce forse a raggiungere con naturale eleganza e fluidità il più alto dei suoi esiti, amalgamando al meglio (come suggerisce sapientemente Giampaolo Rugarli nella prefazione) «quotidiano e meraviglioso». Il suono esile di un flauto si insinua nella mente dell’autore ad avvisarlo dell’imminenza di un evento triste: una morte, un allontanamento, un addio.

Marianelli ha una scorza rude, scontrosa e talvolta pungente, che non ama essere sbucciata, ma che qua e là si scortica con ritrosia, rivelando, tenerissima e incantata, la polpa dolce di un frutto ignorato dai più.

 

«L’Arena», 8 ottobre 1992

RECENSIONI

BOMPIANI

GINEVRA BOMPIANI, L’ULTIMA APPRIZIONE DI JOSE’ BERGAMIN
NOTTETEMPO, ROMA 2014

Ginevra Bompiani propone ai lettori in queste poche pagine un ritratto dello scrittore spagnolo José Bergamin (1895-1983), che fu combattente a fianco dei comunisti nella guerra civile, oppositore politico di Franco, due volte esule, animatore di riviste e pubblicazioni politiche e, verso la fine della sua lunga esistenza, sostenitore dell’indipendenza basca. Amico dei più importanti intellettuali contemporanei (Rafael Alberti, Garcia Lorca, Bunuel, André Malraux), Bergamin fu sempre e soprattutto amico del popolo, e dal popolo ricambiato con un affetto e un rispetto che rasentavano l’idolatria. Ginevra Bompiani lo conobbe negli anni ’60, e mantenne con lui un rapporto di reciproca stima e confidenza: ne ammirava la sterminata erudizione, l’acuta ironia, l’incredibile facondia, che si esprimeva in divertenti arguzie, stravaganti calembours, estemporanei ma profondissimi aforismi. La rievocazione del tempo trascorso in sua compagnia («un tempo così colorato, così vivo, così bagnato di emozione»), a discorrere di corride e d’altro (nei ristoranti, davanti a un piatto di “caldo de la casa”, con i camerieri che orecchiavano ammirati; oppure nelle passeggiate notturne attraverso Madrid) è velata da un sentimento di malinconica commozione, di consapevole, irreparabile perdita. Cosa raccontava Bergamin? «Non la vita, non le creature di Dio, non le continue catastrofi dell’esistenza, non le crudeltà, le empietà, le passioni: solo la lingua e i due luoghi nei quali raggiunge i limiti estremi di verità e menzogna: la poesia e la politica, Dio e il Diavolo».

E com’era, fisicamente? Magro, con mani e labbra sottili, «naso lungo, berretto basco, schiena un po’ curva, sguardo malinconico». La sua ultima apparizione, a 88 anni, fu sul pianerottolo di casa, con l’improvvisazione di qualche passo di flamenco, come sapeva fare lui, «per fondere, in un’essenza unica, la comicità e la grazia».

 

«Leggendaria» n.105, maggio 2014

RECENSIONI

RASY

ELISABETTA RASY, FIGURE DELLA MALINCONIA– SKIRA, MILANO 2012

Le otto riflessioni che Elisabetta Rasy raccoglie in questo volume sono state pubblicate su Il Foglio  tra il 2010 e il 2011, in occasione di importanti mostre di pittura avvenute in diverse città italiane ed europee. Partendo da considerazioni estetiche (la natura della luce, l’importanza del paesaggio, lo scorrere inesorabile del tempo nelle espressioni dei volti, il rilievo politico della ritrattistica… E ancora: la malinconia, l’abbandono, l’ordine e il disordine…), l’autrice compie degli excursus culturali che abbracciano sapientemente letteratura e filosofia, storia e psicanalisi, in una scrittura insieme lieve e profonda, elegante e allusiva. Così le considerazioni sull’uso della luce in Turner e Goya trovano un loro puntuale contrappunto in rimandi e citazioni che spaziano da Rousseau a Poe, da Bachelard a Adorno, senza che la pagina risulti appesantita da un eccesso di esibizionismo nozionistico. Il paesaggio di Cima da Conegliano, quasi attonito e invariato («ogni cosa, se pure è soggetta al tempo, ha diritto alla sua intemporalità, ogni cosa vuole essere se stessa nel tempo immobile e interminabile della creazione»), viene commentato da passaggi tratti da Goethe e Zola, e attraverso i severi richiami critici di Cesare Brandi. La vecchia  di Giorgione offre lo spunto per una meditazione sulla vanitas come caducità e morte; i ritratti risorgimentali di Garibaldi suggeriscono riflessioni sullo sguardo e la tristezza. Ma è soprattutto nel capitolo dedicato ai gatti che l’ intelligente acutezza di Elisabetta Rasy manifesta una particolare seduzione: partendo da un ricordo infantile (i felini domestici della bisnonna, e il “pappone” di pesce che si preparava per loro quotidianamente), la scrittrice passa a illustrare il chiostro di Santa Chiara a Napoli, con i suoi colori lussureggianti e le scene profane animate dai personaggi più vari e, appunto, da gatti; per poi commentare l’annunciazione di Lorenzo Lotto e finire con la drammatica descrizione delle stragi di animali nella Mosca stalinista raccontata da Šalomov.

 

«Leggere Donna» n. 166, gennaio 2015

RECENSIONI

NEMIROWSKY

IRÈNE  NÈMIROWSKY, L’INIZIO E LA FINE – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2013

“Camille Deprez non avrebbe accettato di piegare il rigore delle leggi per piacere nelle alte sfere, ma aveva come massima meta l’arte comune agli ambiziosi di armonizzare le sue convinzioni con i suoi interessi. Nel mondo della giustizia aveva sempre goduto di un prestigio che si rifaceva meno alle sue funzioni che alla sua austerità, alla sua integrità. La sua giustizia era temibile. Tuttavia non era odiato, ma rispettato così come temuto. Nel senso del rigore soltanto. Lui si sentiva moralmente autorizzato a mettere d’accordo il proprio dovere con le proprie passioni”.

Il protagonista di questo bel racconto di Irène Nèmirowsky è un inflessibile procuratore di provincia, interessato tanto alla sua carriera quanto al trionfo delle legge, impermeabile a qualsiasi supplica o corruttela, e insensibile a ogni commozione. Condannato da un tumore in fase terminale, si trova a riesaminare la propria vita con la stessa severità con cui ha sempre giudicato le esistenze altrui, senza fare sconti né a se stesso né a chi si trova di fronte a lui in qualità di imputato. In questo caso, il figlio di un importante e contestato uomo politico: accusato di aver ucciso la moglie per gelosia, il giovane sarà in realtà oggetto di diverse valutazioni morali proprio in conseguenza del potere paterno. Procuratore e assassino si fronteggiano davanti al tribunale definitivo della morte, entrambi colpevoli in modi diversi. L’autrice spinge il lettore a interrogarsi sul mistero insondabile del male, sulla sua inevitabilità esistenziale, sulla sofferenza che provoca sia nelle vittime sia nei suoi artefici, sull’impossibilità del perdono legale, e sulla difficoltà della clemenza. Irène Nèmirowsky scrisse questo racconto (finora inedito in Italia) nel 1935, contemporaneamente al romanzo Jezabel, che pure tratteggia una figura femminile condannata per omicidio, egocentrica e incapace di pietà, in cui l’autrice rifletteva forse il tormentato rapporto con sua madre.

 

«Leggere Donna» n. 166, gennaio 2015

RECENSIONI

MESSORI

VITTORIO MESSORI, LA SFIDA DELLA FEDE – SAN PAOLO, MILANO 1993

Definito recentemente dal L’Europeo «ultra moderato» (in compagnia di Formigoni, Opus Dei, Giacomo Biffi), Vittorio Messori, giornalista e scrittore cattolico molto noto, e attualmente opinionista di  Avvenire  e  Jesus, è senz’altro ideologicamente di parte, e di parte non progressista, ma non risulta certo moderato nei temi e nei toni. Le Edizioni San Paolo hanno accolto in un volume di 500 pagine 216 articoli che Messori ha pubblicato con spirito militante negli ultimi anni, presentandoci un prodotto editoriale di grande valenza culturale e politica, provocante e barricadiero già nel titolo: La sfida della fede . Secondo Guitton, riportato da Messori, per un filosofo «scrivere un articolo di cronaca è cogliere ciò che vi è d’eterno nell’attualità che passa», e l’autore modenese si attiene saldamente a questo spirito di ricerca del duraturo nell’effimero, dello sconfinato nel limite. Infatti il punto di partenza di queste meditazioni è sempre uno spunto di cronaca, dall’ora di religione al Meeting di Rimini, agli Hooligans, alle polemiche sulla Sindone, e numerosissimi sono i personaggi citati, politici italiani o stranieri, intellettuali, teologi o gente comune. Ma il punto d’arrivo è comunque un altro, più universale e rispondente a una visione cattolica dell’esistenza, rigidamente e orgogliosamente chiusa nella consapevolezza della superiorità del cattolicesimo rispetto alle altre religioni, siano esse quella ebraica, quella protestante o quella islamica. Anche in ciò lontano dalle tendenze teologiche più moderne, Messori sembra divertirsi a far provocatoriamente boccacce all’ecumenismo. Si può forse tentare un giudizio formale di questa scrittura in cui stile e pensiero si porgono vicendevolmente soccorso, cementandosi in un tutto inscindibile: Messori stesso dà al proposito tre consigli per attuare un buon giornalismo e per preparare omelie d’effetto: semplificazione, cioè riduzione di ogni articolo ad un solo tema, che va smontato e svelato negli ingranaggi più nascosti; personalizzazione, cioè mettersi in gioco, parlare in prima persona; drammatizzazione, quindi cercarsi un antagonista da confutare e combattere, sia esso «un uomo, un’idea, il peccato che è in noi». Con il risultato che gli scritti di Messori sono concreti e di conseguenza anche nella forma suffragati da frequenti esempi o citazioni. Nel contenuto, il nostro autore ricorda lo sprezzo della modernità di un Ceronetti, gli strali rabbiosi contro il senso comune di un Cioran, l’astio verso la stupidità di un Canetti; caustico e diretto, mai conciliante o diplomatico, sa di attirarsi meno fulmini di quelli che scaglia. E gli oggetti della sua polemica sono tanti, e di successo, e vincenti: dal turismo di massa («nuovo, oppressivo obbligo sociale, potente devastatore antropologico e culturale»), alla rivendicazione gay e femminista, alla falsificazione attuata dai media sui dati scientifici, all’ecologismo fanatico, che più di ogni altra cosa sembra catalizzare le rabbie feroci di Messori, molto spesso sacrosante. Chi sceglie Messori come avversario sa di trovarsi di fronte a posizioni ben nette e tranciate senza sfilacciamenti, spesso a un’ironia feroce poco disposta a patteggiamenti. I mulini a vento contro cui combatte questo Don Chisciotte dell’Eucarestia, sono tanti e giganteschi, camaleontici soprattutto nella fazione in cui lo stesso Messori si situa. E allora giù bordate sulla burocrazia clericale, che rischia di soffocare con la sua elefantiasi lo scarso clero superstite, sull’enorme quantità di documenti, discorsi, encicliche che «assedia il piccolo gregge», sul cedimento teologico e catechistico che tende a ridurre la nostra fede a «un cristianesimo asettico, sterilizzato, tutto nei limiti del gusto da borghesia del terziario: una fede presentabile in società». E ancora, imbarazzanti difese d’ufficio delle pagine considerate più buie della storia del Papato, come la difesa argomentata di Papa Alessandro VI Borgia. Di fronte a tanto fervore savonaroliano, anche un miscredente qualsiasi e i tanti «cristiani della domenica» si trovano a leggere con ammirato stupore pagine di ardente animosità sulla fede, sulla necessità di «irrompere in chiesa» per affermare la generosa follia del messaggio divino, contro il buon senso, il tiepidume. Messori non annacqua la parola evangelica, la rende se possibile più cruda, pronuncia a voce chiara e forte il suo «credo quia absurdum», al punto da non sorridere all’ipotesi che l’ebreo errante esista davvero, che circoli qualcuno tra di noi che è stato testimone della vita di Gesù: «Possiamo anche fidarci, scommettere sul sì, accettare quella dimensione cui la ragione ci ha portati, ma che alla fine la travalica: non la contraddice, la supera…». Credere l’incredibile, altrimenti che fatica, che vanto ci sarebbe nel definirsi cristiani? Messori mette in crisi gli incerti, provoca i disinvolti laicizzanti, manda in tilt femministe radicali da mezza tacca, scrivendo banalità urtanti e offensive mescolate a verità trasparenti e sconvolgenti. Giù il cappello davanti a tanta spietata e faticosa coerenza.

«L’Arena», 30 dicembre 1993

RECENSIONI

SAPIENZA

GOLIARDA SAPIENZA, L’UNIVERSITA’ DI REBIBBIA – EINAUDI, TORINO 2012

Einaudi ristampa dopo trent’anni il romanzo che Goliarda Sapienza (intellettuale, attrice, femminista siciliana: donna libera e anticonformista) scrisse dopo la sua detenzione a Rebibbia per furto. Si tratta di pagine dense e veloci, dettate da un’ansia di resoconto e confessione che sopraffa anche la riflessione su ciò che significano colpa e castigo, pena e riscatto. «A sirene spiegate» l’autrice viene introdotta nel carcere, dapprima in una cella isolata, costretta in un silenzio e in un’immobilità innaturali che debilitano da subito anima e corpo e annullano qualsiasi fantasia o progettualità di futuro. Quindi trasferita in una cella comune, costretta a una promiscuità fisica e di pensiero che dapprima la sconcerta e spaventa, ma lentamente finisce per conquistarla a una consapevole, riconoscente solidarietà. Le sue compagne di prigionia appartengono in genere al popolo, si esprimono in romanesco, con un gergo colorito e iniziatico: sono condannate per spaccio di droga, furto, rissa, prostituzione, omicidio. Ma ci sono anche le detenute politiche, con una loro rabbiosa coscienza critica e utopistica. Hanno soprannomi di fantasia: Marilyn, Mamma Roma, James Dean, Annunciazione, Suzie Wong… Si amano e si odiano tra di loro, si picchiano e si denunciano alle guardiane, si invitano vicendevolmente nelle celle a prendere il tè, organizzano un loro mercatino interno, scrivono leggono cantano e imprecano, o vivono in una sorta di immobile catatonia. Ma le differenze di classe e di cultura rimangono inalterate come nel mondo di fuori: «Qui dentro noi privilegiati dalle famiglie, protetti fin da bambini dal bisogno vero, restiamo larve anemiche, né buoni né cattivi, né onesti né disonesti, a confronto di questa masnada di bucanieri che in un modo o nell’altro non s’è piegata ad accettare le leggi ingiuste del privilegio».

Una scuola di vita, anzi un’ università da cui si esce marchiati per sempre, diversi, e convinti che non si esiste se non nella collettività.

 

«Leggendaria» n.93, maggio 2012

RECENSIONI

VALDUGA

PATRIZIA VALDUGA, LIBRO DELLE LAUDI – EINAUDI, TORINO 2012

Questo nuovo, esile, volumetto di poesie di Patrizia Valduga, con dedica iniziale a Giovanni Raboni, «infinitamente amato», è suddiviso in tre sezioni, formalmente del tutto omogenee ( si tratta sempre di distici in endecasillabi), ma diverse nei temi, nei toni e nei destinatari cui la poetessa si rivolge. La prima parte, che ricalca modalità delle litanie e delle laudi medievali, fino ad imitare le giaculatorie popolari della devozione cattolica a noi più vicina, è tutta dedicata alla malattia e alla morte del suo compagno, che viene scongiurata, maledetta, temuta, ricattata, in versi che talvolta raggiungono l’altezza della perfezione («che tu sei il mio permesso di soggiorno / per dovunque, non solo per Milano», «Hai raddrizzato questo cuore storpio / restando muto, immobile e lontano», «Io sempre al limitare del mio niente»), altre volte si limitano a risultati un po’ troppo facili e banali: «Signore di ogni tempo di ogni vita, / per la sua vita ti dò la mia vita», «Sono preghiere, versi veri e vivi, / perché tu viva, amore. Amore, vivi!». La seconda parte scandaglia le ragioni di un’angoscia esistenziale che attanaglia l’autrice dalla primissima infanzia, e che ha trovato requie e scampo solo nella solidità rassicurante del suo amore per Raboni : «Adesso, amore, metti insieme tutto :  / angoscia e rabbia, panico e piacere», «Ma questo male impresso nella mente / mi ha portato da te, vero?, Giovanni…», salvandola da memorie di violenze, malattie, sessualità precocemente vissuta e patita, più di qualsiasi terapia psicanalitica. La terza sezione del libro ritrova l’amaro sarcasmo e l’invettiva di prove precedenti di Patrizia Valduga, quando depreca «la prosaglia di tutti i giornalisti», e la cultura modaiola, effimera, superficiale che ormai domina Milano e l’Italia, escludendo dai suoi giri verità e grandezza. Ma da tutto il libro il lettore ricava il sospetto di un compiaciuto concedersi a una sorta di atteggiato manierismo, assolutamente scaltrito nei suoi esiti formali, ma alla fine simile a un collaudato esercizio di retorica, che perciò suona poco autentico, poco sincero.

 

«Leggendaria» n.93, maggio 2012

RECENSIONI

FORLANI

FRANCESCO FORLANI, PARIGI, SENZA PASSARE DAL VIA – LATERZA, BARI 2013

«I miei erano molto preoccupati, in quel 21 giugno del ’91, perché non avevo un lavoro, non parlavo la lingua e non eravamo ricchi di famiglia. Io mi ricordo soltanto che ero partito con la valigia da mimo, di cartone puro, che scendendo dal treno si era rotta, aperta in due, come se quei milleduecentonovantuno chilometri se li fosse fatti tutti da sola».

Non è l’amarcord di un tradizionale emigrato che dal nostro sud abbia cercato lavoro e successo all’estero, ma la rievocazione antiretorica che Francesco Forlani fa della sua partenza da Caserta, dopo la laurea in filosofia, per raggiungere Parigi: città-mito in cui ha cercato riparo e consolazione, soprattutto intellettuale, al sorgere del ventennio berlusconiano, e dove saltuariamente risiede tuttora. I trentatré capitoli in cui si suddivide questo vivacissimo e coinvolgente romanzo sono scanditi logisticamente secondo i suoi spostamenti (abitativi-lavorativi-trasgressivi-esistenziali) nei vari arrondissements della metropoli francese. Quindi dalla sua abitazione in un sottotetto «pittoresco e basso» (con travi a vista, cesso che si ottura in continuazione, invasione di blatte e una seducente vicina tentatrice), condivisa con l’amico scrittore Massimo Rizzante, il giovane e vulcanico Francesco si muove inquieto e perennemente affamato – di cibo, letture, sesso, amori, incontri – nei vari quartieri parigini, circondato da un universo cosmopolita di personaggi dalle occupazioni più varie: librai, cuochi, poeti, jazzisti, grafici, manovali. Sulle orme di altri celeberrimi stranieri che avevano fatto della città la loro patria (Cioran, Hemingway, Cvetaeva, Modigliani, Henry Miller, Anaïs Nin…), questa banda squattrinata insegue il sogno di fondare una rivista letteraria,  La bête étrangère, e il miraggio di un riconoscimento non solo culturale, ma vivaddio magari anche economico. Tra lezioni private di italiano, performances teatrali, occupazioni saltuarie e spesso umilianti, i protagonisti del libro trascorrono il loro tempo in avventure varie, pigiati nei metrò o sfidati da estremisti di destra a colpi di forchetta in un ristorante, in lavanderie a gettone o in musei e biblioteche, negli uffici finanziari dell’Unesco o al cimitero di Père-Lachaise, sui boulevards o nei parchi lussureggianti del centro. In una Parigi in cui però scoppiano anche le bombe, e si viene costretti a passare la notte in un commissariato per schiamazzi, o ancora si accompagna una ragazzina italiana in ospedale perché si sottoponga a una inutile e crudele terapia di chemio. Cementati da un’amicizia solidale e incrollabile, da un’utopistica fede nell’arte e nella letteratura come panacea dalla fatica di vivere, i personaggi di Forlani abitano questo «immaginario Monopoli parigino»» senza passare dal via, ma anche senza arrivare mai a una meta definitiva. E se i genitori dell’autore lo raggiungono, intimoriti e orgogliosi, nella metropoli trovandolo «sciupato», ecco che torna la tentazione ricorrente di un rientro alla base, di una sistemazione più tranquilla e appagante (tentazione a cui cede l’amico più caro, Massimo, lasciando Francesco nel baratro di una sconsolata solitudine). Ma è più giusto e poetico resistere, rimanere attaccati a un desiderio di libertà e sradicamento da confortanti abitudini borghesi: «Chiunque cerca chiunque e, quando l’ha trovato, il vento lo riporta dovunque», creando dalla propria esperienza una suggestiva e scoppiettante mappa letteraria, ad uso e consumo di lettori curiosi e non conformisti.

 

«incroci on line», 14 maggio 2015

error: Content is protected !!