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RECENSIONI

TOEWS

MIRIAM TOEWS, I MIEI PICCOLI DISPIACERI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2015

Marcos y Marcos propone ai lettori un quarto romanzo di Miriam Toews, autrice canadese di fama internazionale, nata nel 1964 da una famiglia mennonita di lontane origini ucraine. Di lei la critica ha sempre lodato l’abilità particolare nel raccontare vicende tragiche, in genere circoscritte al microcosmo della famiglia, senza scadere nella retorica o nel gusto del patetico, punteggiando invece la narrazione (scorrevole e colloquiale, fatta di frasi brevi e dialoghi vivaci, con frequenti e puntuali citazioni letterarie) di episodi leggeri, ironici, o francamente comici. Quasi a voler stemperare pudicamente il dolore, imbavagliandolo, quando si fa troppo forte o pericolosamente declamato.
Anche in questo romanzo i riferimenti autobiografici sono espliciti: la residenza stessa dell’autrice nella città di Winnipeg, il claustrofobico clima di fanatismo religioso della comunità mennonita (sempre ottusamente incline alla riprovazione, alla condanna, all’esclusione di chi avverte come potenzialmente diverso, e quindi minaccioso), la dolorosa catena di suicidi parentali, l’originalità controcorrente e le aspirazioni artistiche del nucleo familiare. Protagonista in prima persona è Yolandi, sorella minore e complessata della talentuosa, sensibilissima, geniale Elfrieda. Il rapporto che lega le due è strettissimo, simbiotico. La maggiore è una pianista di successo, «un’assoluta professionista della mondanità. Tutto in lei era di un’intensità incredibile. Così nitido e frizzante». Ma questo eccesso di intelligenza ed emotività l’ha resa fin da piccola un corpo estraneo nel mondo, vulnerabile, incapace di rassegnarsi alla mediocrità. Yoli invece si sa, o si crede, mediocre, e cresce all’ombra della sorella, con ammirata dedizione. Il romanzo si apre su una prima vicenda traumatica della famiglia, costretta a un trasloco non voluto, all’interno di una comunità religiosa fanatica e ottusa: padre, madre, figlie mal si adattano al conformismo dell’ambiente, cementandosi nel loro rapporto di assediati incompresi. Elfrida studia musica e legge poesie, e per lasciare un segno di sé incide su muri e alberi un acronimo tratto da un verso di Coleridge: «IMPD, i miei piccoli dispiaceri». Yolandi cresce goffa e alternativa, con un’inquietudine che la porterà da adulta a contorte scelte sentimentali, a una perpetua instabilità economica, e a inseguire una realizzazione come scrittrice sempre frustrata dai risultati.
Dopo poche pagine, il lettore viene catapultato in una realtà drammatica: il padre, un idealista sconfitto dalla rudezza dell’esistenza, si è ucciso sotto un treno; la madre, positivamente ottimista ma incapace di reagire alla disgrazia, si ammala di cuore; Yolanda si immola all’assistenza adorante della sorella, chiusa nella sua disperata scelta di rinunciare non solo a una luminosa carriera di pianista, ma alla vita stessa.

«La sofferenza, anche se risalente a un passato lontano, è una cosa che si trasmette di generazione in generazione, come l’agilità o la dislessia». I tentativi di suicidio di Elfrida si susseguono implacabili, come i suoi ricoveri, nonostante l’amore e la comprensione di chi la circonda, e della sorella in primo luogo. A niente valgono le carezze, i ricatti emotivi, le minacce, le recriminazioni, le dichiarazioni d’amore di Yolandi, perché «il problema è la vita e la sua invivibilità». Eppure, nonostante il dolore che dilaga, tra le righe aleggia un senso invincibile di leggerezza, di solidarietà e comprensione affettiva che fortifica i rapporti di amicizia e parentela; si impone come un dovere la possibilità di continuare a sorridere, aggrappandosi ai ricordi belli, ai rari gesti di qualche generoso sconosciuto, a preziosi momenti di inaspettata rivelazione della bellezza: «Lo sai che la gente è più felice quando smette di cercare di esserlo?»
Il lungo racconto di Miriam Toews termina con l’apertura alla continuità della vita, e alla necessità della speranza: «Dài, alziamoci, facciamo la doccia e andiamo». Un plauso alla traduttrice Maurizia Balmelli, che ha saputo rendere in un italiano fluido ed elegante la prosa della scrittrice canadese.

 

«succedeoggi», 22 aprile 2015

POESIE

HANS CASTORP C’EST MOI

(0maggio a Giovanni Giudici, rileggendo la sua La Bovary c’est moi e La montagna incantata di Thomas Mann)

I

Deve essere stato l’abbaglio di un momento
un tac di calamita da una parola mia o sua

Da quale frase o sorriso a metà,
gesto delle tue mani nell’aria sospeso:
è stata forse la tua falcata, imperiosa
benché impacciata, maga Midons, encantadora;
oppure un sortilegio della nebbia di Davos
da cui sei uscita – porta sbattuta, mia matita
imprestata. Ma ti amo, e sobbalzo
a ogni passo di dama, e ti indago il pensiero
caso mai fosse vero, fosse possibile che.
Se non sai cosa amare, scegli me.

II

mio amore quanto errore e dolore ci divide
quanto futuro senza futuro si spalanca

Pensami nella mia stanza che assomiglia alla tua,
ed è diversa, su un altro piano. Pensami
sul balcone a provarmi la febbre che non scende.
Mia malata senza domani, sei il mio male
e non guarisci, non migliori: disperata
mi allontani da un futuro indiviso, indivisibile,
che non temo perché non lo amo, destinato
com’è a non averti. Di noi il medico dice
«Abbiate cura della vostra salute»;
ma non sono i polmoni, non capisce.

III

sul fruscio tra gomme e asfalto o dov’è neve
questa luce ti arrivasse questa ombra

Potessi essere tu le pagine che sfoglio
di un volume dell’enciclopedia; lucide, intonse
alle mie dita che tremano dal freddo
e per amore. Fossi tu la pace che è il tuo corpo
quando lo intravedo di sfuggita, ombra
che cammina per la strada in salita, o seduta
in distanza al ristorante. Pace ai miei occhi
i tuoi occhi chirghisi, e labbra finalmente
sulla pelle che scotta. Pensiero nella mente
capace di spazzare le paure, i malocchi.

IV

Lontano come la luna mi domando come puoi
dirmi se è stata quella davvero l’ultima volta

Dove sarai, mi chiedo, in quale tempo
e spazio fuggita, nascosta al mio bene
divenuto insopportabile? Partita senza dirmelo,
che era l’ultima volta e davvero, stavolta.
Se l’avessi saputo, avrei preparato un addio
come si deve, e non il saluto di sempre:
e ti avrei imparato a memoria, il vestito,
le scarpe, le parole taciute. Storia
della mia vita, non può essere che senza
preavviso, senza ripensamenti, tu sia finita.

V

Quale dei lunghi treni ti porterà?
Quale dei lunghi treni ti avrà portato?

Ma sono sicuro che ritornerai.
Me lo dico guardandomi allo specchio,
e mi vedo più vecchio da quando sei andata.
Sbatterai al tuo solito la porta
un mezzogiorno come tanti, trasaliranno
camerieri e pazienti, ma io no:
e non mi volterò al tuo passo strisciato,
anche se – senza fiato e trionfante –
potrei stringerti, stritolarti felice.
Mia signora e padrona, o beatrice.

VI

ma veri i giorni gli anni che per sempre
non ti avrò

Almeno nel sonno ritorna, eterno presente
di un sogno che sappiamo tale, tu ed io.
E non allontanarti più di tanto, non sparirmi
del tutto: se dicessi una parola come Dio,
lo sai, sarei salvato. Invece eccomi qui,
reso a un peccato di scarsi amori stupidi,
perché tu non ci sei, né ci sarai,
viva nella mia carne e nei miei giorni.
O poterti abolire! Mandare via.
Chiamarti amore. Minne Beatrice Maria.

 

 

In Hortus n. 18, II semestre 1995; in Litania periferica, Manni, Lecce 2000; in Omaggi, Einaudi, Torino 2017.

 

RECENSIONI

RIVA

FRANCO RIVA, FILOSOFIA DEL VIAGGIO – CASTELVECCHI, ROMA 2013

Todorov scriveva nel 1995: «Il viaggio coincide con la vita, né più né meno: essa è forse altra cosa che un passaggio dalla nascita alla morte?”. Per il filosofo Franco Riva, docente di Etica Sociale all’Università Cattolica di Milano, il viaggio – a cui è dedicato questo volume densissimo di spunti e provocazioni – non indica solamente e puramente il nostro esistere, bensì è senso e metafora di un’infinità di altri concetti, temi, sentimenti. Quindi viaggio – responsabilità, apertura, accoglienza, violenza, pensiero, racconto. Piacere e stupore, consumo e denaro, lavoro e distrazione, libertà e distacco. Su ciascuno di questi aspetti, Franco Riva medita con acuta sensibilità e tensione, spesso addirittura con risentita ironia, sfrondando la tanta retorica che accompagna oggi l’atto del viaggiare, dell’uscire da sé, dello scoprire altri luoghi, con una sapida antiretorica, capace di interrogarsi lucidamente sui compromessi e sulle sopraffazioni che comporta l’invadere per divertimento o curiosità culturale spazi e abitudini altrui. Viaggiare non è quindi, e non deve essere, gratuito ed egocentrico arricchimento interiore, esperenziale od economico, ma soprattutto possibilità di incontro ed apertura all’altro, crescita spirituale e dono. Considerazioni amare e sarcastiche vengono dedicate a un certo turismo confezionato, consumistico e standardizzato: «Non è possibile smarrirsi perché adesso sappiamo sempre, finalmente, dove siamo. Siamo perennemente nell’intervallo tra una proposta e un acquisto. Siamo sempre in coda a una cassa».

Carte di credito, commerci, trasgressioni, inventari e tariffe. A questo sembra ridursi oggi il viaggiare contemporaneo; e alle foto da esibire su facebook, agli orari di treni e aerei. Lo stile stesso della narrazione di Franco Riva assume, nella prima parte del libro, la frammentarietà incalzante e veloce, quasi imitativa e tautologica, del fenomeno che stigmatizza: «La memoria dei luoghi è lo spazio che si fa tempo. E il luogo del tempo è il tempo che si fa spazio. Fuori e dentro. Interno ed esterno…Vita. Sempre partita , sempre già andata, prima ancora di averne deciso la partenza. Vita partita e mai arrivata, nonostante tutti gli sforzi per arrivare. Mai raggiunta. Viaggio e vita. La partenza della vita, che non si può decidere. Irripetibile. La vita non è mai dov’è, mai quello che è. Sempre in partenza. Non torna. Irripetibile».

La scrittura ponderata della filosofia sembra qui proporsi liricamente in simil-versi dall’impronta ansiosa, quasi derivata da certa poesia contemporanea: «Affidarsi, rischiare. Partire finalmente. Trovare se stessi come un essere trovati. Lasciarsi andare. Ri-trovarsi. Trovare se stessi, perché in quell’identità quotidiana con sé ci si era smarriti. Chiusi. Neppure smarriti: il sé non c’era; da solo con se stesso, non c’è mai stato». Più distesa e meditata risulta al lettore la seconda parte del volume, che si interroga sui temi tipici della riflessione di Franco Riva, ereditati e approfonditi attraverso gli amati “filosofi del dialogo”: Buber, Rosenzweig, Lévinas, Marcel, Tischner. In queste pagine si concentrano considerazioni ispirate a quella che dovrebbe essere la natura etica del viaggio: conquista di uno spazio accresciuto dell’anima, meraviglia, pensiero nuovo, accettazione della complessità e della diversità, scoperta di una prossimità agli altri, responsabilità verso la natura. E passaggio. Da uno stato mentale di chiusura e sospetto ad uno di fiduciosa solidarietà. Franco Riva propone esempi antichi e illustri di viaggiatori che nei loro percorsi hanno modificato la storia dell’umanità: Ulisse e il suo viaggio nostalgico, circolare, di ritorno e ripiegamento; Abramo proiettato in un generoso esodo verso una promessa futura; Gilgamesh e la sua eroica aspirazione alla fama; Adamo ed Eva e la cacciata colpevole; Marco Polo con la curiosità per l’ignoto; Zarathustra nella sua sfida a Dio. E proprio con una frase di Nietzsche (Solo come totalità possiamo conservarci) Franco Riva chiude il suo libro: una totalità complessa, non sigillata, ma capace di trasformazione e di tragitti illuminanti.

 

«succedeoggi», 15 aprile 2015

RECENSIONI

SHAPIRO

BRETT SHAPIRO, L’INTRUSO – FELTRINELLI, MILANO 1994

Di Giovanni Forti, corrispondente da New York per L’Espresso, morto di Aids nel 1992, molti ricorderanno un coraggioso reportage-diario sulla sua agonia, cosciente e combattuta, pubblicato dal settimanale, e una straziante intervista televisiva con Enzo Biagi. Ci avevano impressionato i suoi occhi mobilissimi e stanchi, i tratti tirati, la voce affaticata ma intenerita con cui parlava di sé, del suo essere ebreo e omosessuale, del suo compagno e dei suoi bambini: ma anche di flebo e diarree, di reazioni fisiche mortificanti, della sua voglia di non arrendersi. L’annuncio, dopo poche settimane, della sua morte, ci aveva toccato non solo dal punto di vista umano, ma anche culturalmente, con la consapevolezza di aver perso una voce anticonformista e stimolante.
Ora Brett Shapiro, che aveva diviso con Forti gli ultimi due anni di vita, pubblica presso Feltrinelli un libro che è omaggio al suo compagno e insieme narrazione spietata di un lento, inevitabile soccombere alla malattia: ne è derivata una «storia d’amore della fine del nostro secolo» (come scrive Rossana Rossanda nella sua lucida e partecipe prefazione), più qualcosa d’altro. Una sfida al nostro perbenismo sempre in agguato, uno schiaffo al pregiudizio, un pungolo all’apertura della mente. Giovanni Forti (romano trentaseienne di origine ebraica, ex redattore de Il Manifesto, ex marito di Giovanna Pajetta, padre a tempo pieno dell’undicenne Stefano) incontra a New York tramite un annuncio sul giornale Brett Shapiro, intellettuale suo coetaneo e padre di un bambino adottivo. Forti è da anni sieropositivo, e non nasconde la sua condizione all’amico, che l’accetta insieme a tutte le inevitabili conseguenze: i due decidono di convivere, coinvolgendo nella loro scelta non solo i due figli, ma anche le famiglie d’origine, sempre incombenti e affettuose, totalmente comprensive, e di arrivare addirittura al matrimonio ebraico con rito tradizionale. Di fronte a un rabbino newyorkese, Brett e Giovanni si sposano sotto la huppah, recitando le formule della torah e calpestando i bicchieri di vetro, festeggiati da amici e parenti. Il desiderio di essere una famiglia “vera” è a tal punto impellente, insopprimibile, da richiedere il sigillo del rito, il ritorno alla tradizione più conservatrice e severa, quella della religione ebraica. E ciò che ai nostri occhi cattolicamente italici pare più incredibile, è la totale naturalezza con cui questa scelta viene accettata e condivisa dall’ambiente familiare e culturale che circonda i due compagni: così come ci sconcerta la scelta del coinvolgimento dei due bambini in un ménage tanto diverso dai soliti, non solo ideologicamente, ma proprio nelle abitudini quotidiane, nel sovvertimento dei ruoli, nella divisione dei compiti maschili e femminili. Ci imbarazza la presenza, molto americana e assidua, e per niente ironica, dell’analista-donna, delegata a risanare i traumi, a superare le divergenze in ogni occasione difficile della vita a due; ci infastidisce a volte l’esibizione provocatoria di un epistolario domestico che sembra ingiustificatamente diffuso su episodi troppo particolari e personali. Ma non si può negare al libro la capacità concreta di scuoterci prima ancora che di commuoverci con il resoconto del graduale spegnersi della vita di Giovanni e con la dedizione assoluta, generosa e appassionata di Brett al destino del suo compagno, al punto di convincerlo ad accompagnarlo a Roma, ormai sulla sedia a rotelle, perché lui possa morire dove desidera, tra i suoi, e riposare nel settore ebraico del Verano. Lo strazio della morte di Giovanni risulta dai fatti raccontati con asciutta veridicità, e lo riviviamo un po’ tutti perché ormai sappiamo (chi più chi meno) cosa significa assistere un malato terminale. Eppure davanti a questa morte così accoratamente pianta, ci ritroviamo più fragili e vulnerabili, e allora “ebreo”, “gay”, e quant’altre definizioni si vogliano, appaiono appunto quello che sono: etichette.

 

«L’Arena», 17 febbraio 1994

RECENSIONI

MARTINI

CARLO MARIA MARTINI – ALAIN ELKANN, CAMBIARE IL CUORE – BOMPIANI, MILANO 1993

Cambiare il cuore è l’esortazione che rivolge a tutti i credenti il Cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, in un’intervista concessa ad Alain Elkann e pubblicata da Bompiani. Cambiare il cuore prima ancora dei pensieri e degli atteggiamenti, prima ancora delle abitudini e degli scenari su cui si muove la nostra quotidianità: ed è un cambiamento che si attua ponendosi soprattutto in una posizione di silenziosa e fiduciosa attesa, di disponibilità all’incontro con Dio che, se aspettato con fede, arriva e non delude. Incalzato dalle domande, sempre molto corrette e trattenute, quasi pudiche, di Elkann, il Cardinale Martini si lascia coinvolgere dalle tematiche più varie, spaziando dalla banalità del contingente all’universalità, dal concreto alla teoria. Accenna brevemente ad alcuni particolari biografici (la nascita a Torino da una solida famiglia borghese non particolarmente religiosa, il rapporto più intenso con la madre e un fratello, la passione per la montagna e per il teatro), per soffermarsi più a lungo sulle scelte fondamentali che hanno disegnato i confini della sua esistenza. Dapprima, quindi, la presa di coscienza di quale destino lo aspettasse: «Mi sembra che sia stato tra i dieci e gli undici anni, quando ho incominciato a intuire che Dio voleva davvero entrare in un rapporto personale con me, che io potevo parlargli come a un amico, che c’era tra noi una vera amicizia. In quel tempo ho anche cominciato ad avere il senso della ‘totalità’ di Dio, cioè la percezione che Dio è tutto e può chiedere tutto, la dedizione di una persona e della sua intera esistenza».

In seguito, con la giovinezza, più espliciti si fanno i punti di riferimento culturali, le letture, gli esempi che emozionano e motivano (S. Tarcisio, S. Luigi Gonzaga, S. Stanislao Kostka), per arrivare ai problemi e alle tentazioni adulte su cosa sia la fede, su come conquistarla e mantenerla, narrati attraverso la pregnante metafora dello scalatore sorpreso da un banco di nebbia, e che pure, attaccato alla roccia, attende il ritorno del sole. Con estrema umiltà, il Cardinale confessa quanto può essere difficile oggi esercitare il sacerdozio: «Certo, vi sono stati momenti in cui l’esperienza di essere prete e religioso mi è apparsa particolarmente faticosa, al limite della sopportabilità…ma gli anni non hanno fatto che confermare la bontà della scelta presa all’inizio». Consapevolezza della propria finitudine di creatura, ma anche coscienza di un’ineliminabile tensione all’infinito, che si può raggiungere attraverso la riflessione e il silenzio: «Senza silenzio mi sento dilacerato dalla molteplicità delle cose che mi cadono addosso e che vorrebbero monopolizzarmi. Ho dunque bisogno dell’ascolto di Dio così come ho bisogno dell’aria per respirare».

Ciò che ci sembra più particolarmente e generosamente aperto alle istanze religiose dell’uomo d’oggi, è che il Cardinale Martini torni a parlare delle questioni fondamentali della fede (vita e morte, peccato e redenzione, Chiesa e altre religioni), senza immiserire il dibattito in questioni formali tanto di moda tra altri teologi: la sessualità è un dono, e Martini non parla di limitazione delle nascite; l’aids è una tragedia, e i suoi malati sono fratelli da accogliere, da comprendere. Parole coraggiose anche nei riguardi dei poveri, di chi non ha lavoro, della sua diocesi di Milano e di tutte le questioni politiche, metropolitane e planetarie che siano. Ma soprattutto un richiamo forte e cordiale a chi pratica altre religioni (in primis l’ebraismo), effettuato materialmente con la fondazione della  Cattedra dei non credenti, ormai alla VI edizione in Milano, affinché il confronto riesca ad approdare a una ricerca comune. Il tono di ogni risposta di Carlo Maria Martini è affettuoso, indulgente, senz’altro non dogmatico, di sprone alla nostra potenzialità di arricchimento, ben sapendo che la «fatica del vivere» è di tutti: la nostra, quindi, ma anche la sua, «perché anche coloro che hanno ‘un ruolo’ la condividono senza sosta né sconti con ogni uomo e donna, vecchio e bambino, malato e disperato della terra».

 

«L’Arena», 3 febbraio 1994

RECENSIONI

COCTEAU

JEAN COCTEAU, IL CAMMINO DI UN POETA – ARCHINTO, MILANO 2015

Questo ultimo (e postumo) libro di Jean Cocteau vide la luce in Germania (paese che il poeta riteneva più ricettivo della Francia, «con il suo retaggio filosofico, metafisico e metapsichico») nel 1953, e solo oggi l’editrice Archinto ce lo propone con un’esaustiva prefazione di David Gullentops. Non propriamente un’autobiografia, né un libro di memorie: piuttosto, una serie di illuminanti considerazioni sull’esistenza, sull’arte, sulla creazione di chi ha fatto della poesia la sua missione. A partire da una rivendicazione esplicita al diritto di invenzione e ricostruzione fantastica della propria vicenda umana: «Il poeta cammina avvolto da una nebbia di inesattezza, di parole mal comunicate, di atti che non ha commesso, di leggende». Chi scrive è destinato a non essere compreso dai lettori («Anche se la gente lo legge, essa è attratta solo da quel che le sembra corrispondere a ciò che prova. Non lo legge. Si legge. Non lo guarda. Si guarda.»; «Quel che accade nell’anima di un poeta è lontano e incredibile»), è individualista ed eretico («Io sono un anacronismo. Un uomo libero»), si allontana da ogni norma, «si accanisce a disobbedire», sempre in cerca di «un vero che non è quello degli altri». Cocteau racconta la sua nascita nel 1889 nel Seine-et -Oise «da una famiglia semplice e amabile», segnata da «un misto di conformismo e anticonformismo», e subito modifica o censura alcuni eventi biografici fondamentali, come il suicidio del padre. Si sofferma sulle amicizie parigine degli anni ’20, sugli incontri arricchenti (con Stravinskij, Picasso, Radiguet, Satie, Proust, Rodin, Maritain, Apollinaire, Jacob, Modigliani, Cendrars, Poulenc), e su quelli più conflittuali con Gide o Mauriac. Da tutti loro assorbe «un’audacia interna invisibile», che lo fa «correre più veloce della bellezza» e gli insegna «quell’insulto alle abitudini senza il quale l’arte ristagna e resta un gioco». Da allora Jean Cocteau entra «in lotta contro se stesso e contro gli altri», ma solamente con l’intento di raggiungere un unico scopo, quello che ogni artista si deve prefiggere: arrivare a comprendere «l’estremo di sé», le proprie ossessioni, ma anche il proprio inesauribile e imperdonabile desiderio di felicità e di amore, immodificabile come ogni destino. L’arte con cui si confronta non è solo quella della scrittura: umilmente impara a tentare le vie sconosciute della pittura, della cinematografia, del teatro, e addirittura della fabbricazione artigianale di arazzi. Perché misurarsi con la creazione significa annullarsi a favore della propria opera, farsi sacerdoti di una possessione e di un’energia irrazionale simile all’inconscio desiderio erotico, collezionare «le più grandi ingiurie e i più grandi elogi», ben sapendo però che «la libertà trova sempre la sua ricompensa».

«succedeoggi», 7 aprile 2015

RECENSIONI

JUNG

CARL G. JUNG, RISPOSTA A GIOBBE — BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2012

«Il libro non dev’essere altro che l’interrogante voce di un singolo, che spera o attende d’incontrare la pensosità dei suoi lettori». Così scriveva Carl G. Jung nel tentativo di giustificare «scherno e sarcasmo» spesso affioranti in questo suo volume del 1952, in cui si era proposto di affrontare da psichiatra i dilemmi fondamentali della visione religiosa, quali si esprimono nelle Sacre Scritture.
E soprattutto di approfondire la questione più problematica e imbarazzante per chi crede, cioè la giustificazione del male e della sofferenza, e la loro conciliazione con la fede in un Dio buono e paterno. Partendo quindi dall’esame del libro di Giobbe, e da questa figura emblematicamente giusta e pia, costretta a patire crudeli sofferenze morali e fisiche, che ardisce interrogare Yahwèh, e «attende aiuto da Dio contro Dio», lo psicanalista svizzero prende quasi rabbiosamente le parti del mite oppresso, dell’uomo indifeso e perseguitato, contro la «selvatichezza e perversità divina… un Dio smodato nelle sue emozioni… roso dall’ira e dalla gelosia». La colpa di Giobbe, secondo Jung, risiede nella sua coraggiosa intelligenza e indipendenza di giudizio: «Giobbe individua l’antinomia interna di Dio, e con ciò la luce della sua conoscenza personale raggiunge essa stessa una numinosità divina». Nella sua istintiva identificazione con il personaggio biblico, Jung mena fendenti rabbiosi contro la potenza sovrumana del creatore: «Quest’uomo abbandonato, indifeso e senza diritti, alla mercé del suo nemico, appare a Yahwèh tanto manifestamente pericoloso da ritenere necessario demolirlo con i colpi della sua artiglieria più pesante».

E quindi l’ansia esegetica dello psicanalista arriva polemicamente ad affrontare non solo le intenzioni inconsce di Dio (talmente invidioso dell’uomo da volersi incarnare nel Figlio), ma tutta la storia dell’Antico e Nuovo Testamento, e addirittura dei testi apocrifi (quindi parte della Genesi e il Libro di Enoch, Ezechiele e il Salmo 89, i Vangeli e l’Apocalisse) e dei più importanti protagonisti delle Scritture.
Di tutti Jung traccia ritratti impietosi. «Nel carattere di Cristo si fa notare una certa irascibilità e, come spesso avviene nelle nature emotive, pure una certa mancanza di autoriflessione»; «Pietro possiede poco dominio di sé e un carattere instabile»; «Paolo appartiene a quelli il cui inconscio era in preda a turbamento e dava luogo a delle estasi di rivelazione», «Giovanni potrebbe avere facilmente dei cattivi sogni che non appaiono nel suo programma cosciente… una vasta rete di risentimenti e di pensieri di vendetta».

In queste personalità poco equilibrate, in preda a irrazionali e ingestibili turbamenti, Jung rileva un fondamento comune a tutti i tipi psicologici religiosi: «Nell’inconscio è presente tutto quanto è stato respinto dal conscio, e quanto più il conscio è cristiano tanto più l’inconscio si atteggia a pagano». Forse solo di Maria, di cui nel 1950 era stato proclamato il discusso dogma dell’Assunzione, Jung riesce a salvare l’aspetto simbolico di Mediatrix archetipica, risalente ai miti orientali della Donna-Sole, della Sakti indiana, della Sophia alessandrina: mito necessario all’umanità (e incompreso dai protestanti), nella sua aspirazione alla pace, all’equilibrio, all’intercessione materna.
Tesi stimolanti, queste junghiane, anche se indubbiamente datate dal punto di vista dell’antropologia e della storia delle religioni, e comunque rivelatrici dell’ego ipertrofico di molti indagatori della psiche, sempre pronti a scandagliare isterismi e patemi altrui, individuali o collettivi, sorvolando sui propri complessi e incoerenze comportamentali.

 

«incroci on line», 5 aprile 2015

RECENSIONI

MURAKAMI

RYU MURAKAMI, BLU QUASI TRASPARENTE – RIZZOLI, MILANO 1993

Ciò che sappiamo dei giapponesi si riduce forse a una serie di luoghi comuni che fanno il paio con quanto si dice nel mondo di noi italiani. Piccoli, dai capelli lisci e neri, dalle gambe storte; lavoratori fanatici, propensi allo spionaggio industriale e al turismo intruppato, potenzialmente inclini al suicidio. Sospettiamo in loro faziosi accanimenti e tragiche esaltazioni, di cui ci riconosciamo, noi latini, paciosamente incapaci; li reputiamo più accaniti di noi in tutto, nella finanza, nella tecnica, persino nell’arte. Chi ama Jukio Mishima sa quali livelli di drammatica morbosità, mescolata a meditata epicità, sappia arrivare la loro letteratura. Spietati nell’autoanalisi (e cosa ci si potrebbe aspettare da un popolo che usa cinque sillabe per scrivere il pronome “io”? Wa-ta-ku-shi-wa!), paiono altrettanto inesorabili nella rigidezza verso l’altro. Ma ecco che può bastare un romanzo – provocatorio, inatteso e veloce come un pugno a tradimento – a ribaltare tutti i nostri pregiudizi, a metterci di fronte a un universo sconosciuto e insospettabile, in qualche modo addirittura temibile. Blu quasi trasparente  è l’opera prima di Ryu Murakami, tradotta e pubblicata da Rizzoli a vent’anni dalla sua contestata apparizione, quando il giovanissimo e trasgressivo autore era stato insignito del prestigioso premio Akutagawa, inneggiante al romanzo nuovo e scandaloso, polemicamente ostile all’immagine ufficiale e patinata dell’Impero Nipponico.
Protagonista del libro è un gruppo di giovani di cui si sa poco o niente: li si può supporre studenti, impiegati o artisti, anche se nella vicenda non si parla né di università, né di uffici, né di mostre. I giovani – tra i quali il narratore ha lo stesso nome dell’autore, Ryu, quasi ad autorizzare a ritenere il racconto autobiografico-, sembrano dediti a poche, ripetitive, ossessive attività: droga, sesso, musica. Droga a fiumi, in siringhe passate di vena in vena, o in pillole sciolte in misture micidiali, incubi e allucinazioni percorsi dall’autore in uno stravolto delirio di abbagli visivi e sonori. Sesso meccanico e violento, per lo più di gruppo e angoscioso, descritto con analitica asetticità e un’attenzione maniacale a umori, sudori e liquami vari, con una particolare predilezione per il vomito, in ogni sua forma e variante. Musica sparata a tutto volume da stereo o stadi, sottofondo indispensabile a qualsiasi vicenda riguardi la generazione viziata e incolpevole del «rock and fuck»: J.Hendrix, Led Zeppelin, Door, Rolling Stones costituiscono il leit motiv di queste pagine, e forse il solo riferimento temporale, l’unico ancoraggio ai corrosivi anni ’70 in cui sono ambientate. Il romanzo è infatti abissalmente lontano da ogni storicizzazione, da ogni ambientazione geografica. E’ un Giappone privo di qualsiasi eredità orientale – di pensiero, di immagine o di civiltà – e invece inaspettatamente vicino ai sobborghi delle grandi metropoli occidentali. I suoi protagonisti appartengono a una realtà multietnica (coreani e africani, americani e irlandesi convivono senza differenziarsi in niente) di auto-emarginazione, di polemica e disperata contrapposizione a una cultura non più riconosciuta come tale. Avevamo, vent’anni fa, visto film sullo stesso argomento (Trash, ad esempio, che aveva fatto epoca), letto libri underground di cui ci è rimasto poco, se non vaghe sensazioni di malessere, e la constatazione che oggi tutto questo è stato spazzato via, non è approdato a nulla. E ora, Blu quasi trasparente arriva a insinuarci il sospetto che se il nuovo Oriente è così, se la giovane letteratura giapponese si è tanto e tristemente omogeneizzata, meglio Mishima, Tanizaki, Kawabata: sono più immaginosi, più sensuali, più lirici del documentarista Murakami e dei suoi spietati reportages.

 

«L’Arena», 12 agosto 1993

POESIE

LE MURA DI VERONA

Si raffredda la tua mano nella mia.
Sei proprio freddo, e pallido. Di marmo.
Mi spaventa il tuo respiro che va via
e il cuore fermo, ogni fibra in disarmo.

Mia anima, mi senti? Non fuggirmi,
non mettere alla prova il nostro bene.
Hai giurato fino a ieri di aderirmi
per sempre, mia roccia, mio lichene.

La tua bocca, adesso, le tue mani
sono quelle di un morto, non più mie.
Se verrà, lo maledico, il domani,
i suoi incubi, le sue dicerie.

Svegliati, caro, dimmi che hai scherzato.
Non ferire così i miei quindici anni,
i quaranta che avrò, ed un passato
breve, il futuro di nuovi capodanni.

Dimmi che avremo figli col tuo viso
e i miei occhi, che leggerò
in loro accennato il tuo sorriso.
In quello che diranno ti vivrò.

Sei così bello e giovane, un ragazzo.
Mio ragazzo mio sposo mio bambino,
che mi amavi col terrore di un pazzo
a cui hanno ipotecato il destino.

Sei stato la mia alba, il mio risveglio.
Puoi essere la notte, il sonno eterno?
Allora dormi, se per noi è meglio
che vivere a Verona, nell’inferno.

Ma che inferno dolcissimo è stata
questa città che ci ha fatto incontrare.
Oltre le mura della nostra borgata
non c’è mondo che ci possa salvare.

Qui c’è la piazza dei nostri appuntamenti
confusi tra la folla del mercato,
le mie rincorse, i tuoi pedinamenti
negli incontri casuali sul sagrato.

Il nostro fiume che procede lento
tra le arcate del ponte di sassi,
intorno ai campi di avena e frumento
dove tremando precedevo i tuoi passi.

Potessi rinnegarlo, io, il mio nome,
e tu tuo padre, la tua discendenza.
Riuscissimo a capire perché e come
si può sporcare anche la trasparenza.

E’ la nostra città che ci uccide,
così gentile e onesta come pare;
la gente che saluta e poi deride
chi nella vita non si sa adeguare

ai balletti agli inchini ai pregiudizi,
agli odi di borgata e di famiglia,
alle virtù esibite, ai tanti vizi
che anche il fango trasformano in fanghiglia.

Sono i potenti e le gerarchie,
i vecchi amici che ci hanno diviso
inventandosi trame, strategie,
per accerchiare il nostro paradiso.

Non è il mio amore che ti ha fatto male
ma il loro odio, la loro supponenza.
Il troppo bene non è mai mortale
come l’invidia, come la maldicenza.

I tronfi monsignori senza dio
che domani diranno la messa
non sanno quanto tu sei stato mio
senza toccarmi e con quale promessa:

ma vedi, io mi stendo qui vicino
e tengo nella mano la tua, viva,
pronta a seguirti in un lungo cammino.
Arriveremo insieme a un’altra riva.

 

In  Le mura di Verona, Lietocolle, Faloppio 1998 e in  Un diverso lontano, Manni, Lecce 2003

RECENSIONI

MALETI

GABRIELLA MALETI, PRIMA O POI – GAZEBO, FIRENZE 2014

Gabriella Maleti, scrittrice e fotografa da molti anni residente a Firenze, e fondatrice con Mariella Bettarini delle Edizioni Gazebo, nonché redattrice della rivista  L’area di Broca, delinea in questo libro di versi non solo il suo percorso di vita, ma anche tutta la sua personale filosofia, il suo partecipe e solidale sguardo sull’avventura che ogni uomo è chiamato a condividere con il mondo, a partire dalla nascita. Come ben evidenzia nella sua prefazione Mirco Ducceschi, il suo è «Un resoconto poetico che dalla sintesi e dalla presa d’atto del proprio vissuto sa farsi declinazione e variante, sfaccettatura di una negatività che non è bilancio di anni vissuti o a venire ma instabile bilancia dell’esistenza…». Il volume è suddiviso in tre sezioni, di cui dà testimonianza riassuntiva il titolo: c’è un Prima, un Poi, e un conclusivo O. Nel suo Prima, Gabriella ci offre uno spaccato dell’infanzia trascorsa nella pianura modenese: «Sì, tutto è mio e rimane: i pomeriggi sul Panaro, / il viso nell’erba, la solitudine accesa, / i diverbi candidi con gli insetti. / E poi le ragnatele del cesso nella campagna, / le notti come falci e le falci lunari»

Non solo la maledizione della povertà rurale, in cui «Dio taceva. / Solo Cristo si faceva vedere», ma anche l’infelicità più privata che derivava dall’essere nata nell’ «incauta verosimiglianza / di una famiglia, di un’unità rappezzata con saliva», da «incomprensibili genitori», non desiderata e cercata, «poiché vita nasce anche senza volontà di vita». Eppure il ritratto delle sofferenze materne, e della rudezza insensibile «di un uomo, / per caso padre», si tinge con il passare degli anni di un sentimento liberato da ogni rancore, e invece pietoso, clemente: allora versi commoventi vengono dedicati alla morte estranea e lontana di entrambi i genitori, quando la figlia tenta di riavvicinarli in extremis infilando nel taschino del padre, vestito a festa nella bara, una foto della mamma. A questo doloroso e faticoso Prima giovanile, segue un Poi della maturità, vissuta tra Milano e Firenze, con l’affascinante scoperta di un mondo nuovo, ricco di cultura e di incontri vitalizzanti, di una diversa e orgogliosa fisicità, non più costretta in stereotipati ruoli imposti dalla cultura dominante. «Anni di gran bel toscano», in cui l’autrice impara ad amarsi e ad amare, a ribellarsi, a vincere complessi e sensi di colpa («Io non so cosa dovrebbe in me tacere / e cosa parlare»), rifiutando «esecuzioni sommarie, paure», e imparando ad accettare ogni giornata nella sua stupefacente unicità: «Giro nel piccolo cortile, / raccatto foglie, campi, / è il meglio della mia vita». Infine, l’ultima sezione del volume, dedicata a un disgiuntivo O, si radica nelle riflessioni più emotive e approfondite, scandaglianti il mistero del vivere e del morire, del perché di ogni inizio e di ogni fine, nell’esperienza personale e storica, sociale e cosmica. Gabriella Maleti passa quindi dalla tranquilla accettazione del nostro essere transeunti, precari e forse inessenziali nel destino universale («chiusi nella teca/ che ci è data ,/ e non scelta», «Imbroglio. E’ questo il senso, la conclusione.», «Chi sei? Un esempio inconcluso», «ciò che in me viveva non era che / una scarsa prova delle tante»), al rimpianto di non aver saputo godere pienamente di ogni attimo dell’esistenza, insieme alla nostalgia per i momenti belli vissuti, soprattutto a contatto con la natura: fino alla consapevolezza quasi religiosa della propria insostituibile peculiarità («Ma ‘qualcosa’ ci ha definito, sospinto. / No, non penso a me come solo polvere. // E se anche fosse, quello che serve, / ora, qui, / per arrivare decentemente alla polvere / è non credere alla sola polvere.”). Per cui l’invito, la preghiera incessante da rivolgere a tutto e a tutti, diventa quasi un cantico di fraterna letizia francescana: “dite anima, piano, / segnatela a dito: / potenza che non si scrosta, / non perisce, / chiamate anima, / chiamatevi».

«Leggendaria» n.110, marzo 2015

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