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RECENSIONI

BAINBRIDGE

BERYL BAINBRIDGE, LO DICE HARRIET – ANABASI, MILANO 1993

Di un’autrice britannica, Beryl Bainbridge, del tutto sconosciuta da noi, è stato pubblicato presso Anabasi Lo dice Harriet, «un piccolo romanzo nero di rara fattura», come recita la quarta di copertina. Il volume narra le vicende di due ragazzine terribili che, negli anni subito dopo la seconda guerra mondiale, vivono in Inghilterra, in una città di mare, svagandosi con passatempi al limite del lecito, in un crescendo di allusività e morbosità che coinvolge vischiosamente anche il mondo degli adulti. Harriet, delle due adolescenti, è la più disincantata: appena quattordicenne, esile e nervosa, ha già una sua cinica visione del mondo e dell’amore: «A tredici anni, amare qualcuno vuol dire solo farsi un’esperienza». In base a tale direttiva cerca di svezzare la sua romantica e grassoccia amica del cuore, che ne segue fedelmente ogni dettame. Le due adolescenti accumulano quindi esperienze, dapprima con dei prigionieri di guerra italiani, quindi con personaggi alquanto originali del luogo. Con questi scendono in spiaggia, intrattenendosi in confidenze velate e tormentose, e scambiando con loro «l’atto di amicizia», all’insaputa dei genitori, i quali si mostrano scissi tra la voglia di essere fiduciosi e l’ansia preoccupata per eventuali allarmanti conseguenze. Tra le vittime preferite dei loro giochi proibiti, c’è l’elegante signor Briggs, ribattezzato Zar: un uomo colto e raffinato, ma ormai sfatto fisicamente e moralmente, impastoiato nel lugubre matrimonio con una grassa madama che passa i pomeriggi a gustarsi la tv dei ragazzi. Harriet e la sua amica imbastiscono un flirt sottile intrigante con l’anziano uomo, fatto di ammiccamenti e ripicche, avances e ritrosie, lusinghe e rifiuti. Zar ha paura, si vergogna, fa appello alla solidarietà di parenti e amici, ma viene irretito via via in una ragnatela di promesse e calunnie; cede, si concede, sembra impazzito dal desiderio, attratto dalla sfrontatezza e improntitudine morale di Harriet, e dall’amore estasiato da cui è stata presa la ragazzina più giovane. Le due adolescenti lo perseguitano, arrivano a spiarlo, a tormentarlo in casa sua e in ogni momento della giornata: lui si lascia adescare, pur tormentato dalla riprovazione verso se stesso e vanamente inseguito dalla moglie, sempre più petulante. Quando il rapporto tra i tre assume le sembianze di una vera e propria relazione, al clou di un incontro clandestino la più disarmata e infantile tra le due ragazze ammazza a bastonate la signora Briggs, inopportunamente tornata a casa.
Di fronte ai recenti episodi di violenza assassina da parte di giovanissimi, di cui siamo stati impotenti testimoni, ci siamo chiesti quanto di meccanico e inconsapevole agisse nelle menti e nelle mani omicide. Beryl Bainbridge arriva a supporre un automatismo inarrestabile e inconscio in azioni come quella che descrive: «Colpii ancora, con disperata audacia, perché non poteva guardarmi in faccia, e quando cadde lentamente di lato scivolando nell’ombra come una foglia gigantesca, vidi lo Zar sul portone che mi guardava. Non potei muovermi, né abbassare il braccio… Dentro di me piangevo e amavo i miei genitori con tutte le mie forze, ma non riuscivo a muovermi… Ero contenta che ora fossero arrabbiati con me, perché mentre colpivo la signora Briggs avevo avvertito uno strano desiderio di vendetta: perciò mi toccavano il castigo e l’espiazione…».

La conclusione del romanzo – che mi sembra giusto non rivelare- è in linea con le premesse: la perfidia di Harriet, che ha armato la mano assassina, non cede nemmeno di fronte al sangue e alla morte. La sua malvagità sembra ben suggerita dalla riproduzione sulla copertina del volume del ritratto di Balthus  Jeune fille au chat, in cui una bambina osserva biecamente il futuro lettore, quasi a sfidarlo, braccia incrociate dietro la testa, ginocchio sollevato a mostrare sfrontatamente le mutandine, calzettoni arrotolati e un gatto minaccioso ai piedi. Occhi bambini come quelli che attribuiamo a Harriet, spudorati e protervi ma in qualche modo giustamente accusatori nei confronti di un mondo di adulti che non ha insegnato loro ad amare.

 

«L’Arena», 23 settembre 1993

RECENSIONI

BARILE

LAURA BARILE, AMELIA ROSSELLI – NOTTETEMPO, ROMA 2014

Laura Barile propone ai lettori una lettura ravvicinata e partecipe di alcuni testi di Amelia Rosselli, poeta tra i più essenziali e difficili del nostro novecento, artefice di una «lingua terremotata», di uno «sperimentalismo linguistico e metrico, audace e rigoroso al tempo stesso». Nell’introduzione, Barile offre una rispettosa e non invasiva ricostruzione della biografia rosselliana, dalla nascita a Parigi nel 1930 agli esili londinesi e newyorkesi (in fuga dalla persecuzione fascista che l’aveva brutalmente resa orfana di padre e zio), per soffermarsi sugli studi linguistici e musicali, e sull’approdo italiano – prima a Firenze, in seguito a Roma. Una formazione tormentata e dolorosa, che incise profondamente su Amelia, «dotata di un carattere estremo e di un fragile sistema nervoso, inquieta e inquietante adolescente», fino a minarne per sempre la salute psichica, costringendola negli anni ’50 ai primi ricoveri e a una serie di elettroschock. Fedele alla riservatezza nel privato del poeta («Tendo all’eliminazione dell’io»), Barile si concentra soprattutto sulla sua produzione in versi, a partire dal poemetto  La Libellula del 1958, che viene commentato nelle sue fonti ispiratrici – musicali e filosofiche – e nella sua originalissima struttura lessicale, che si serviva dell’onomatopeia come di frequenti calembours etimologici, di derivazioni e contrazioni e «parole fermentate». La metrica particolare di questa composizione comportava la chiusura del verso con un’interruzione secca, e frequentissimi enjambements, dettati dalla costrizione in 11-13 centimetri fissata dal suono del campanello «che nelle vecchie macchine da scrivere segnalava la fine del rigo». Questo monologo interiore, «fluido snodarsi di suoni e immagini in movimento, che si generano sulla base di processi associativi e musicali», vide la luce solo nel 1969, in un’edizione anomala di fogli A4, con caratteri tipografici che riproducevano quelli della macchina da scrivere. Le edizioni Nottetempo hanno scelto di impaginare i testi rosselliani ruotati orizzontalmente rispetto all’orientamento consueto, proprio per non spezzare i versi, aderendo così all’invenzione metrica del poeta, «che partecipa dell’immagine visiva e della partitura musicale». «E io / lo so ma l’avanguardia è ancora cavalcioni su / de le mie spalle e ride e sputa come una vecchia / fattucchiera, e nemmeno io so dove è che debbo / prendere il tram per arricchire i tuoi sogni, / e le mie stelle».

Altri testi fondamentali presi in considerazione e commentati da Laura Barile sono tratti da Variazioni belliche del 1964, e da Documento del 1976. Del primo libro si sottolineano sia la struttura musicale della lingua «rotta e scorretta», sia la «forma-cubo», lo spazio quadrato in cui Amelia Rosselli comprimeva «la tensione fra l’impulso corporeo e quello logico della scrittura», in un intreccio di serie e variazioni derivate dalla tecnica dodecafonica e dalle produzioni post-weberniane. Testi che intrecciano «passione amorosa, passione musicale e passione civile», dall’esaltazione femminile della sessualità alla tragedia collettiva della storia e della lotta di classe («Caduta sulla linea di battaglia. La bontà / era un ritornello / che non mi fregava ma ero fregata da essa! / La linea / della / demarcazione tra poveri e ricchi»): poesie spesso di difficile decifrazione, ma da seguire «col corpo», aderendo fisicamente ad esse, e «abbandonando la pretesa di capire tutto». Dell’ultimo volume pubblicato in vita da Amelia, vent’anni prima della sua scelta di morte volontaria, «tormentata dalla malattia nervosa, da allucinazioni uditive e da una forma di mania di persecuzione di tipo politico», Laura Barile commenta pochi versi programmatici, che è qui giusto e commovente riportare: «Conto di farla finita con le forme, i loro / bisbigliamenti, i loro contenuti contenenti / tutta la urgente scatola della mia anima la / quale indifferente al problema farebbe meglio/ a contenersi. Giocattoli sono le strade e / infermiere sono le abitudini distrutte da / un malessere generale. / La gola nella montagna si offrì pulita al / mio desiderio di continuare la menzogna indecifrabile / come le sigarette che fumo».

 

«succedeoggi», 20 marzo 2015   e  «Leggendaria» n.111, maggio 2015

POESIE

TARCISIUS

(omaggio a Pier Paolo Pasolini, rileggendo  Le ceneri di GramsciIl pianto della scavatrice)

 

I

Non è di maggio questa impura aria
di quasi alba, di quasi estate
che non somiglia a una stagione calda:

ma sembra il primo autunno, fresco,
un po’ bagnato di foschia leggera…
Con un quarto di luna strana, bianca

che già la sera prima si affacciava
stanca tra le nubi grige, sfilacciate,
e ora ha voglia di sparire in cielo.

E la stazione è muta, solitaria, scura:
poche le luci al neon ancora accese.
Ma a che serve la luce?

Tanto uno solo abita la fine notte
sulla panchina del binario sei.
Truce, aggrondato sopra la pietra dura

dorme col membro gonfio tra gli stracci,
e gli altri poveracci come lui non sono qui,
spariti chissà dove, inghiottiti

in altri posti squallidi: la spiaggia,
il lungomare, depositi di autobus
o cantieri, rimesse abbandonate.

Eppure è maggio, è quasi estate
e c’è silenzio, fradicio e infecondo;
se intorno spiove fa più paura

il mondo zitto di chi non serve a niente,
gente che non domanda e non risponde,
alza le spalle, sputa, non saluta.

Il mare si intravede di lontano,
si sentono le onde che sbattono
sul molo, e piano uno sciacquio.

Lui è solo, la schiena sopra il marmo
gli fa male, si rigira, si tocca,
con la bocca semiaperta: è giovane,

rumeno, lo chiamano Tarcisius.

II

Si è appena addormentato, ha aspettato
che passassero le guardie, i metronotte
custodi del silenzio e del sonno cittadino.

Vicino alla panchina c’è il suo sacco
teso di roba sporca, dentro: calze,
mutande e fogli di giornale.

Stracco così si sente già da tempo,
eppure non lavora, un posto fisso
insomma; non ha niente. Cammina

ogni mattina tra la gente, gira
nelle piazze e nei mercati,
presta le braccia a trasportare casse,

lava le auto, fa il manovale
se è fortunato, e lo pagano
a ore. La sera è morto di sudore

e fatica, sente addosso l’odore
aspro della pelle, la puzza
dei piedi martoriati.

Come i poveri povero, a volte
ruba. Una mela, biscotti
nei negozi alimentari, robetta.

Si lava al mare con una saponetta,
lava i vestiti e li asciuga
sulla sabbia. Sotto la camicia

nasconde il passaporto, sacro
come fosse un sacramento.
Giù al porto si è fatto degli amici

rumeni come lui, ma più felici
perché hanno un lavoro. Tarcisius
non dispera; ogni mattina spera

nel miracolo. Di trovare un portafoglio
per strada, gioielli d’oro perduti
tra i rifiuti. Fruga

nei mucchi secchi d’immondizia

del quartiere in penombra,
non teme la sporcizia delle dita.

Ma da dove gli viene
quest’amore per la vita, questa
disperata passione di essere nel mondo?

In fondo al cuore crede
che domani sarà meglio,
che qualcosa accadrà, di grandioso.

Il riposo arriva la sera. Respira la spenta
trepidazione della notte,
e si addormenta come un bambino:

come dopo aver detto una preghiera.

III

La stazione si trova tra grami caseggiati,
fumosa, quasi in periferia.
Pochi lampioni le fanno compagnia

di notte, con scarsa luce gialla,
spioni tra le ombre dei carrelli,
tra i tabelloni di partenze e arrivi.

Vicino c’è un locale: lì si spaccia
(pasticche, coca, robaccia da poco).
La polizia sta al gioco, ogni tanto

ferma qualcuno e lo denuncia.
Disamore, mistero, e miseria
dei sensi: il vuoto, e senti

il mancare di ogni religione vera.
La musica martella nel silenzio,
rimbomba uguale, monotona, distante.

Il rombo delle auto e delle moto
si perde tra le grida di ragazze
stridule e pazze di frenesia e di sesso,

avvinghiate a corpi esaltati, esibiti
nel loro turgore vitale.
Sono le quattro del mattino, e in quattro

sbucano dal sottopasso di corsa
sul binario. Cercano da fumare
e si spintonano, parlano, fischiano,

forti come ventenni forti, belli,
quasi eleganti nelle scarpe a punta,
nelle camicie fresche. I jeans di marca.

Hanno vinto se stessi e gli altri
in questa notte di tarda primavera:
giovani divinità cui non si nega

una vittoria facile, una preda.

IV

Allegri, inconsci, interi
vivono di esperienze ignote
a loro stessi, non amano indagare

nei pensieri. A loro basta
avere da bere, da fumare: e divertirsi,
ridere, godere come ossessi.

Ecco si fermano ad osservare
il fagotto a forma di uomo
sdraiato sul marmo della panca,

addormentato. Gli passano vicino:
uno di loro sputa sul suo sacco
di tela, glielo sfila di sotto

la mano penzoloni, lo solleva
a braccia alzate e ride soddisfatto
del trofeo. E lui bambino dorme

e non si accorge che gli svuotano
per terra il suo tesoro.
Povero come un gatto del Colosseo,

possiede un po’ di biancheria spartana,
tre sigarette, un accendino in similoro,
e cara più di tutto una fotografia.

Se la mostrano a vicenda, sghignazzando,
facce rotonde e serie da rumeni:
una famiglia come tante, ma via, lontana,

che odora di bisogno e nostalgia.
Da quella realtà umile e sporca,
confusa e immensa si devono salvare,

i quattro leoncelli di periferia.
E allora il fuoco come un rito antico
può purificare. Brucia la foto,

il sacco: gli indumenti.
Si sparge fumo e una puzza acre.
Loro contenti mostrano i denti al buio,

e non è che l’inizio, si guardano
eccitati e vogliosi di qualcosa
di forte, un esercizio di sana goliardia.

Maschi e virili, in due
pisciano addosso a lui addormentato,
uno gli spruzza il viso e i capelli,

e svegliati vigliacco invertebrato!

V

In un attimo è in piedi, spaventato:
non capisce cosa diavolo succede.
Sente il viso bagnato di orina,

vede quattro ragazzi intorno a lui
con un ghigno feroce, e una voce
che lo chiama bastardo, fatti sotto

se puoi, ma non sa l’italiano molto bene,
teme un gesto sbagliato, finché un pugno
codardo lo raggiunge sul mento,

poi uno schiaffo in piena faccia.
Altri colpi, da tutti, qua e là, sulle braccia,
sul dorso e le spalle, calci alle gambe,

sangue dal naso che forse si è rotto.
Allora si difende, colpisce a caso,
rabbioso come un cane rabbioso,

e ogni tanto si preme con la mano
sul petto, a tastare il passaporto
che non cada, meglio morto

che senza documenti…Loro attenti
a colpire dove fa più male,
sono in quattro e lo pestano duro,

uno lo prende e lo sbatte contro il muro,
e gli picchia la testa, brutta bestia
gli grida, ti ammazzo! E poi

cazzo! Non vi vogliamo qui,
ladri ruffiani, ti diamo una lezione
così impari, coglione, sparisci,

torna in Romania, e via! Via!

VI

Tarcisius scivola sul marciapiede, è lì,
sdraiato: non ha più fiato, o voce,
insanguinato, non vede niente,

non vede loro che se la danno a gambe,
ridendo, che lezione!, lasciano la stazione
di corsa, raggiungono le moto

parcheggiate lì sotto, salgono in sella,
ma prima di partire uno sventola qualcosa:
gli ho preso questo! Almeno che si sappia

come si chiama, che nome da befana,
che foto da bravo ragazzino; ha sedici anni,
ridono, un bambino lontano dalla mamma…

Motori al massimo, e partono rombando.
Da un gran silenzio le strade sono invase,
le case indifferenti, la gente dorme.

Loro veloci, con l’aria fresca in faccia,
per una strada che avanza
tra i primi prati primaverili,

e sopra un cielo bruciante, senza un brivido:
corrono fieri e vincenti, piccoli dei
degli inferi, i nuovi combattenti

di chissà quale onore. Ma sul sesto binario
è rimasto qualcosa che assomiglia
a un cadavere con la faccia in poltiglia:

ha una mano sul petto, sbucciata,
che tra cuore e camicia nascondeva una cosa
importante, preziosa.

Più in là, in un campo spellato di periferia,
l’hanno gettato via, tra i sacchi di rifiuti,
il passaporto aperto con la foto e il suo nome:

Tarcisius, in questo sole che crudele
inizia a splendere, già addolcito
da un po’ d’aria di mare.

 

In Bloc Notes n.59, giugno 2010 e in Omaggi, Einaudi, Torino 2017.

 

RECENSIONI

DE SIGNORIBUS

EUGENIO DE SIGNORIBUS, CASE PERDUTE – IL LAVORO EDITORIALE, ANCONA 1989

 

La Bovary c’est moi, diceva Flaubert, e si riferiva naturalmente al personaggio, al suo carattere, al suo destino: ma forse anche alla forma che prendeva la sua scrittura nel momento in cui si faceva voce di Emma, diventando stile personalissimo e inconfondibile, “voce”, appunto, flaubertiana. Mi chiedo se ciò non avvenga a tutti gli autori; questo immedesimarsi e confondersi con le loro creature e le loro storie, un po’ come avviene alle madri con i figli più amati.
E’ accaduto senz’altro al poeta Eugenio De Signoribus, e al suo libro  Case perdute: che gli assomiglia, come giustamente hanno affermato alcuni commentatori, già nella nostalgia evocata dal titolo; le case perdute sono quelle in cui abbiamo abitato e che ci sono state tolte, con la violenza gratuita e ingiustificabile che tenta di distruggere i ricordi: sono l’aria che abbiamo respirato, i movimenti che abbiamo fatto, le foto in bianco e nero finite in fondo a chissà quale cassetto. Foto simili a quella riprodotta sulla copertina del libro, con quattro ragazzini anglosassoni del dopoguerra, coi pantaloni di velluto o di stoffa sopra il ginocchio, la sfumatura dei capelli alta sulla nuca, e un accenno di ricciolo sulla fronte: mani in tasca, confabulano davanti alla vetrina di un negozio (una farmacia? una drogheria?) Che profumo di passato da questa immagine, che malinconia sottile, anche se «le foto mai dicono il vero / quando gli anni non si riconoscono». E la poesia, può dire il vero? Senz’altro quella di De Signoribus non si pone nessuna finalità cognitiva, di interpretazione del reale, e forse nemmeno aspira a proporsi quale strumento di descrizione del reale. Sembra, invece, propensa ad affermare (ma senza polemica o tensione, con la signorile nonchalance di chi non ha dubbi) l’inconsistenza dei dati materiali rispetto al mondo soggettivo, del ricordo o del sogno: «ma sì, che resti questo odore / di buio canforato / denso come cent’anni / di respiri non dispersi // (che anno fu quell’anno che fece tanta neve?)»

In un ipotetico inventario di oggetti e arredi appartenuti a una “casa perduta”, si sottolinea l’importanza del superfluo, mentre il necessario viene snobbato: «Il cesso? non importa / ma c’è la carta igienica?»; «- e la porta?- / muratela! / entrerò dal soffitto». Il poeta proclama allora con un qualche orgoglio la sua indifferenza e la sua superiorità rispetto alle scelte oculate e miopi dei più, rispetto alla ragionevolezza ottusa dei montaliani «uomini che non si voltano»: «qui, non visto, può stare / sopra la folla meccanica / nell’ avantindietro senza sosta / augure dal corpo d’uccello»; o ancora: «poi l’uscire senza fronzoli / il chiudere la porta con decisione / non badando all’indugio del micio / sulla soglia… certo, per te, / per la tua civile concretezza anche lui, il soffice felino evirato, / deve imparare a sveltirsi…»
Neppure alla poesia è tuttavia concesso di svelare il mistero, di spiegare l’ignoto: «ma da che parte da quale segreta / s’arriva al cuore di una cosa…», «nulla emerge dal folto se non qualche / uccello improvviso e invisibile»», «a furia di girarsi intorno / come un cane da fiuto / il cervello s’incagna per minimi casi», «un labirinto di strade e scale tentacolari / vicoli ciechi in stabile penombra… ». I confini si dissolvono e s’intrecciano fino a confondersi, le storie individuali sfumano in una nebbia da brughiera. I paesaggi di De Signoribus sono tutti autunnali e albali, da pianura e stagni e cacce stanziali: la natura non vi è né amica né nemica, esiste indipendentemente da chi la osserva, selvaggia, rigogliosa, acquatica; le presenze umane paiono scorporarsi, e soli si stagliano in una loro magica fissità gli oggetti nudi, o animali immobili e impenetrabili (lucertole, lumache, roditori, ma soprattutto uccelli). I pochi personaggi degni di essere raccontati sono bloccati nel reiterarsi di prove sul palcoscenico o sul set cinematografico, oppure nella rappresentazione finale della morte, come nell’incubo dell’agonia del padre: «lo guardavano più bianco del bianco / ripercorrere all’inverso rapidamente / tutte le tappe ossee della crescita / e in un vagito scomparire…».
Fare i conti con un esistente che non si sa (non si può) definire è la sfida ultima del linguaggio di De Signoribus, che evita lo scontro diretto, il lampo oggettivo del flash, preferendo aggirare l’ostacolo, avvicinarlo per appostamenti progressivi. Il suo discorso sembra tendere alla mortificazione del soggetto, ma anche dell’oggetto e -se possibile- del linguaggio stesso, lasciato sospeso, tra rinuncia e umiliazione, gravido di intenzionalità ma volutamente depistato.
Poeta di un getsemani delle parole, De Signoribus irride alla facili pasque del passato, a quelle impossibili del futuro.

 

«Agorà» (Svizzera), 11 ottobre 1989

«L’Arena», 6 dicembre 1990

RECENSIONI

PIRANDELLO

LUIGI PIRANDELLO, LA MIA ARTE SEI TU – L’ORMA, ROMA 2013

In una raffinata e originale veste tipografica, l’editore romano L’Orma propone a un prezzo assai conveniente dei libriccini di autori classici, contenuti in una sovraccoperta trasformabile in busta pronta ad essere affrancata e spedita. Idee regalo, quindi, preziose e molto curate. Come questa scelta di lettere scritte da Luigi Pirandello alla giovane attrice Marta Abba tra il 1925 e il 1936, anno della morte del drammaturgo. Testimoniano l’amore «squilibrato» (come lo definisce il curatore del volume, Massimiliano Borelli), ma anche devoto, incondizionato e totalizzante che lo scrittore sessantenne nutrì per la sua bellissima musa e interprete teatrale, che mai corrispose del tutto al suo sentimento, pur nutrendo per il suo Maestro un’altissima considerazione intellettuale e un profondo affetto filiale. Pirandello si rivolge a Marta sempre usando il pronome maiuscolo (Tu, Te, Tua), incoraggiandola a lusingandola come artista, sottoponendole i suoi lavori, chiedendole addirittura consigli e proponendole collaborazioni professionali molto allettanti: «Il Tuo posto, per ora, nell’arte italiana, può essere vuoto, perché Tu non reciti, ma non può essere preso d’altra attrice, mai, perché nessuna t’arriva al ginocchio; e Tu sei Tu, inconfondibile, insopprimibile, insostituibile»; «Sto scrivendo per Te. Non potrei più andare avanti d’una parola, se la Tua divina Immagine ispiratrice m’abbandonasse per un istante»; «Ho tutta la mia vita in Te, la mia arte sei Tu; senza il Tuo respiro muore»; «Il mio teatro non deve vivere che nella luce del Tuo nome; e poi si spegnerà con Te, per modo che il mio nome resti inseparabile dal Tuo, che gli avrà dato la sua vera vita; e sarà gloria Tua, nel mondo»; «Sei l’unica sola Attrice di domani, e tutti lo sanno e lo proclamano – l’Attrice moderna per eccellenza».

L’Accademico d’Italia, il Premio Nobel supplica la giovane ispiratrice di seguirlo sui palcoscenici di tutto il mondo, a Berlino, a Parigi, in America: le promette di fondare con lei e per lei una compagnia teatrale, assicurandole successo e denaro. Si inginocchia e si umilia, implora, minaccia il suicidio, in una frenesia passionale che non conosce censure o pudori.«Tu sei una scrittrice nata. Ma tu sei anche TUTTO, Marta mia…io sarei un gran medico per Te, Marta mia; ma bisognerebbe che tu fossi solo affidata alle mie cure»; «Tu non devi aver bisogno d’altri, che di me, e di me vuol dire come di Te stessa, perché io non sono altro che Tu, non posso più considerarmi altrimenti, e neanche Tu devi considerarti altrimenti: io, per noi, vuol dire Tu»; «Il Tuo vero padre sono io, sono io, e Tu sei la creatura mia, la creatura mia, la creatura mia di cui tutto il mio spirito vive con la potenza stessa della mia creazione, tanto che è diventata cosa Tua e tutta la mia vita sei Tu. E la verità vera è che io non sono vecchio, ma giovine, il più giovine di tutti, così nella mente, come nel cuore; così nell’arte, come nel sangue, nei muscoli e nei nervi»; «Ajutami, ajutami, per carità, Marta mia, non mi lasciare, non m’abbandonare, sono gli ultimi miei momenti: ho tanto bisogno di Te, di sentirti uguale e vicina».

Pochi mesi prima di morire, sentendo la fine ormai vicina, e consapevole dell’allontanamento ormai definitivo della sua musa, Pirandello le scrisse queste ultime, strazianti parole: «Ho perduto con Te la mia luce. Non vedo più nulla. Non so perché seguito a vivere. Non c’è più nulla che m’interessi o m’attiri….Addio, Marta mia! E sentiti sempre, tutta, nel bene senza fine che Ti vuole il Tuo Maestro». Due anni dopo Marta Abba sposò un americano, e andò con lui a vivere nell’Ohio, ritirandosi dalle scene.

 

«succedeoggi», 12 marzo 2015

POESIE

IL TEMPO

Nel suo non tempo
non faceva niente.
Pensava il tempo,
l’eterno presente.
Nel suo non luogo
non era dove.
L’ovunque esistere,
il sempre altrove.

***

Lui che non è tempo
ci ha abbandonati al tempo.
Nel tempo ci ha lasciati
e costretti. Tra confini.
Dall’essere al non essere,
persi come bambini.

***

Dio vuoto nel presente,
dio assente, dio ignoto.
Dio non del passato, del non passato,
dimenticato. Dio cancellato.
Dio nuovo, dio futuro,
dio puro; dio che non è ancora,
dio che sarà, dio libertà.

***

Tempio del tempo è il cielo,
in questa notte chiara,
illuminata immobile.
Che tace. La calma degli dei
è il suo respiro, e la sua luce.
Il tutto e il niente
di un’assoluta pace.

***

Ti rubano le ore, i giorni:
li riempiono di vuoto,
li svuotano di senso.
Con gesti e voci vane
annebbiano l’immenso,
ingannano l’ignoto,
i ladri del tuo tempo.

***

La mano che teniamo camminando
quando siamo bambini,
un certo giorno, all’improvviso,
lascia la nostra mano.
E la strada nella nebbia
fa paura, e la luce sulle scale
fa paura, e tenere un’altra mano
fa paura.

***

Tutto quello che non serve a niente
ha diritto di esistere per sempre:
in uno spazio-ombra evanescente,
in un tempo-non tempo inesistente.
Lì galleggiano inservibili disutili
i sogni dei bambini appena nati,
le voci dei bambini abortiti,
i regali d’amore rifiutati;
le lettere smarrite, i treni persi,
i versi cestinati: lì vivranno
sommersi e salvati
per il loro non essere stati.

***

In un altrove.
Dove vivere, quando.
Elsewhere. Lontano,
fuori tempo. Di contrabbando.
Via dagli eventi.
Disattenti.
Con minima percezione
di ciò che accade intorno.
Notte nel giorno.
Vivere altrove. Dove.

***

Quanto dura il tempo dei fiori?
Qualche giorno.
E intorno il profumo, i colori:
solo per qualche giorno.
Tempo breve e felice,
perché appartiene ai fiori.
Lieve, senza dolori.

***

Sempre in ritardo sulla speranza,
abbiamo fatto abbastanza?

***

In te, anima mia, misuro il tempo.
Ogni secondo, un battito del cuore.
Ogni secondo. Ogni stupore.
Maturo il tempo in te,
anima mia, affondo.

***

Tutto il mio tempo è attesa.
Ed attesa paziente, sicura.
Certa di una sorpresa che verrà
–  voce amata al telefono,
luce accesa improvvisa nella notte.
E non ho più paura.
Lascio la porta aperta; ascolto
se per caso dei passi si avvicinino.
Sono la serva fedele che aspetta
senza conoscere il giorno e l’ora,
e conserva dentro sé la parola,
il ricordo di un volto.

***

Metto la tua vestaglia,
papà
quando di notte
ho freddo. In cucina
compio antichi gesti,
esitanti:
ripiego la tovaglia,
scaldo l’acqua del tè.
Come ti assomiglia
la ragazzina
che ti sedeva di fronte
mentre controllavi i tuoi conti.
Lei, immersa nei suoi libri
e tu in silenzio, davanti
al suo sapere che cresceva
e non serviva a niente.
La cucina è diversa,
tu sei un’ombra. Ma resti
nello stesso silenzio,
nella stessa vestaglia.

***

Quando ero più giovane,
e lui non c’era già più,
e le bambine erano ancora bambine,
allora le guardavo giocare
e ridere, le ascoltavo parlare
e mi dicevo «Le ho fatte io».
Di notte entravo nella loro stanza,
e seduta per terra,
con poca luce dal corridoio,
spiavo i movimenti del sonno,
i lineamenti antichi e nuovi,
e ripetevo «Le ho fatte io»,
Ma non con vanto, no:
con stupore, perché ero stata
capace di tanto.
Loro crescevano, si allontanavano.
«Le ho fatte io», mio tempo vero,
storia che non sarò.
Ma loro ancora, e i loro figli,
il male e il bene.
Com’è giusto che sia,
vita che si perde e si mantiene.

 

In  Frontiere del tempo, Manni, San Cesario di Lecce 2006

RECENSIONI

LODOLI

MARCO LODOLI, I FANNULLONI – EINAUDI, TORINO 1990

Di quanto la generazione dei nuovi narratori (da De Carlo, ad Albinati, a Fortunato) sia debitrice al cinema si è a lungo e autorevolmente dissertato: comunque, ce ne fosse voluta un’ulteriore conferma, ecco arrivare il nuovo romanzo breve di Marco Lodoli, I fannulloni.
Marco Lodoli si è imposto quattro anni fa all’attenzione del pubblico con il riuscito romanzo  Diario di un millennio che fugge; nell’89 ha poi sottolineato la sua maturità di narratore con i racconti di Grande raccordo; ora queste 80 pagine scarse pubblicate da Einaudi arrivano, forse un po’ premature, un po’ presuntuosamente poco rifinite (era Orazio che raccomandava «nonum prematur in annum»…) a dirci che Lodoli è ancora lì, sempre promessa sicura delle nostre lettere, ma non ancora scommessa scontata.
Lodoli fa muovere queste sue nuove creature di carta sullo sfondo del brulicante microcosmo di una Roma periferica, comparse di un’esistenza quotidiana difficile e poetica, presenze insieme innocenti e malfide, che sembrano dover scontare con una vita grama la sfida di voler esserci a ogni costo.
Il racconto è narrato in prima persona da un anziano piazzista di pietre – nemmeno preziose, ma comuni lapislazzuli e ametiste da offrire a turiste e parrucchiere – nobile solo di aspetto e di nome: Lorenzo Marchese, in realtà uomo di poche pretese come le pietre che smercia.

«Io sono uno qualunque, ecco, i miei pensieri e le mie paure sono semplici, i miei soldi contati, la mia casa piccola, i miei sogni balordi come i sogni di chi da sveglio litiga con la realtà nemica e un po’ perfida… Però la gente attorno mi vede alto, distinto, differente…Forse ho contribuito all’equivoco girando in mille Paesi senza fermarmi mai abbastanza per rassicurare gli altri che in fondo ero come loro, un po’ più di niente».

Lorenzo vive due grandi sogni nella vita: il primo, raccontato con mano davvero felice nel capitolo d’apertura, è l’incontro e l’amore per Caterina, una goffa e tenera gigantessa, a disagio nel mondo e nei sentimenti, che ricorda la figura femminile tracciata da un nostro troppo sottovalutato narratore, Giorgio Scerbanenco, in I milanesi non ammazzano il sabato. Con Caterina Lorenzo divide una vita di poche pretese e un enorme letto per dieci anni, prima che un infarto gliela rubi crudelmente tra l’indifferenza della gente, lasciandogli solo il rammarico di non averle dato abbastanza: «Mi vengono in mente tante parole che avrei potuto dirle e che per pigrizia ho taciuto. Che la amavo. Che era stupenda. Che la vita è comunque un bosco misterioso, e allora è bello traversarla con un gigante». Morta Caterina, tornato a un’esistenza rassegnata e vigliaccamente dignitosa, Lorenzo ottiene dalla vita un secondo grande regalo: l’incontro con un ragazzo nero, un ambulante pieno di gioia di vivere e fantasia, che lo trascina in una serie di avventure incredibili ed esaltanti.

«Gabèn è forte e allegro, ha le spalle larghe per sostenere mille difficoltà, i denti bianchi per piegare il ferro della vita, e soprattutto l’andatura leggera per galleggiare. Indossa certi camicioni ottimisti, comodi e colorati, e sandali da frate, quando non va a piedi nudi, incurante. Ha la mente larga, stellata».

Ecco allora che il compassato rappresentante di pietre, ormai settantenne, viene costretto a improvvisarsi allenatore e impresario di boxe, e a organizzare un match nel sottobosco delle palestre di periferia (la sfida coi guantoni tra Gabèn e il tarchiato avversario ricorda la stupenda scena sul ring di  Luci della città, con Chaplin che scappa e solo alla fine viene tramortito da un gancio impietoso). Esaltato da questa esperienza estranea alla banalità del quotidiano, Gabèn si trasforma in cantante jazz, esibendosi in una cantina di artisti falliti, e infine, divenuto giardiniere e autista tuttofare in una villa di miliardari, approfitta dell’assenza dei padroni per vivere con Lorenzo una settimana di sogno, tra Via Veneto e nights, smoking e Mercedes, belle donne e fannulloni.
In quest’ultima parte del volume le citazioni filmiche si sprecano: c’è un po’ tutto il nostro neorealismo, dalla scena del saccheggio del guardaroba padronale alla stampa di banconote straniere false. In particolare, Fellini docet e imperversa: da  I vitelloni alla Via Veneto de  La dolce vita, fino al recente  Ginger e Fred, con il suo torpedone pieno di larve umane, ectoplasmi di trapassati. Il finale, brumoso e sospeso nell’attesa impossibile di un’alba vendicatrice e riscattante sulla spiaggia di Ostia, ha ancora i campi lunghi e gli sfondi felliniani, con qualche memoria non peregrina di Nanni Moretti. E’ un peccato, però, che tra tanta sensibilità all’immagine (immaginoso e immaginifico), lo spessore narrativo dei personaggi si sfaldi, finisca per sfilacciarsi e diventare meno credibile, più retorico. Gabèn sparisce senza riuscire a diventare protagonista: macchietta priva di spessore reale, promessa di un carattere rimasto irrealizzato. Lorenzo continua la sua storia d’amore con Caterina, in sogno, nel ricordo o nella morte, non si capisce bene, in un finale volutamente vago ed etereo: «Il cielo era molto azzurro, la strada mi passava dentro, come uno sguardo sereno. Nel cuore il petto non mi batteva più, eppure da qualche parte, vicino, lontano, lo sentivo battere ancora».

 

«L’Arena», 8 febbraio 1991

RECENSIONI

FERRERO

ERNESTO FERRERO, STORIA DI QUIRINA – EINAUDI, TORINO 2014

Una vedova ultraottantenne, abitudinaria e un po’ maniaca come tutti gli anziani, laureata in lettere antiche e appassionata di citazioni latine con cui infarcisce le sue scarse conversazioni quotidiane, vive la sua serena e dignitosa esistenza di pensionata in un paesino delle montagne lombarde. Solida e robusta come le vacche della razza bruna alpina che pascolano nella sua zona, esiste senza dare fastidio agli altri. «Era orgogliosa. La solitudine non le pesava, e anzi le sembrava una condizione privilegiata». Ha un nome antico, romano, come tutti i membri della sua rispettabile famiglia borghese: Quirina. Sua unica passione è il giardino, più umilmente definito orto, in cui coltiva rose, ortensie, pomodori e le amate zucchine: cura il suo verde con la stessa compita dedizione rivolta alla sua inappuntabile casetta. «Perché all’ordine Quirina teneva moltissimo, anche in giardino. Lo considerava il perfetto equivalente di una disciplina mentale e morale…doveva essere l’emblema di una sorta di misura, di armonia cosmica…». Ma ecco che un bel giorno l’universo decoroso, disciplinato e monotono dell’anziana viene sconvolto dalle scorribande ipogee di una talpa, che con le sue gallerie sotterranee e collinette di terreno in superficie le deturpa l’orto («L’abominio. L’intollerabile offesa.»). Inizia così una strenua guerra di Quirina contro l’ospite indesiderato: cerca alleati in paese e in famiglia, studia rimedi, ricorre a erbe velenose, acqua, gas, rumori, vibrazioni, colpi di roncola, trappole, gatti nevrotici, spicchi d’aglio e vento per debellare la «trivellatrice invisibile». Che tuttavia resiste, e continua a sconciarle l’orticello. Alla fine, Quirina accetta l’antagonista come una sorta di alter-ego, oppure una metafora del potere subdolo e vessatorio, o ancora come espressione della sana vitalità della natura. Nell’economia universale, e nell’elegante scrittura di Ernesto Ferrero, c’è posto per tutti: vecchie, talpe e buchi nell’orto.

 

«L’Immaginazione»» n.285, gennaio 2015

RECENSIONI

ANGELI

SIRO ANGELI, IL GRILLO DELLA SUBURRA – SCHEIWILLER, MILANO 1990

Siro Angeli, scomparso a Tolmezzo lo scorso agosto, era autore prolifico e multiforme: i suoi interessi spaziavano dalla poesia al teatro al cinema (fu sceneggiatore di una quindicina di film di successo: dell’ultimo, Maria Zef, di Vittorio Cottafavi, aveva interpretato anche uno dei ruoli principali) al romanzo. Come narratore aveva pubblicato presso le Edizioni Paoline Figlio dell’uomo, romanzo-saggio basato su una coraggiosa ipotesi teologica, che gli era valso nel dicembre del ’90 il Premio Camposampiero.
Vorrei qui occuparmi del suo ultimo volume di poesie, dedicandogli una recensione che ho a lungo evitato e rimosso, e che sarà scritta con affettuosa nostalgia verso chi mi è stato vicino per più di vent’anni, con stima per un uomo di cultura raffinata e vasta, di moralità rigida e scabra.
Il grillo della Suburra raccoglie versi scritti da Angeli nell’arco di un ventennio, dal ’55 al ’75, anni da lui vissuti a Roma alle prese con una sofferta situazione familiare e con l’impegnativa responsabilità di alto funzionario radiofonico. Il volume, pubblicato nel ’75 da Barulli, con una partecipe e sapiente prefazione di Alfonso Gatto, non fu mai distribuito nelle librerie per varie vicissitudini editoriali, ma arrivò comunque finalista al Premio Viareggio di quell’anno.
Ristampato nel ’90, grazie anche all’interessamento di Dante Isella, nella preziosa collana All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, era stato da Angeli completamente rivisto e riscritto, con un’ossessiva attenzione alle varianti anche minime, e un incessante lavoro di lima.
Consta di tre parti: Il grillo della Suburra, poemetto in nove sezioni di novenari, San Pietro in Vincoli e altre poesie, sempre in forme chiuse, ma spazianti dagli endecasillabi ai settenari, Approssimazione all’arte poetica, in settenari. Del poemetto che dà il titolo al volume, ostico -quasi- alla prima lettura, «impervio in virtù della sua chiarezza», come suggeriva Gatto, basti qui accennare alla rigidità formale in cui si trova, per così dire, ingabbiato: nove sezioni di cinque o più strofe di sette versi, tutti in novenari, con un gioco elegantissimo di rime interne e esterne, con un’attenzione quasi barocca alla scelta di vocaboli inusuali e inquietanti. Rigidità formale che rimanda e sottende un’altrettanto e forse più severa rigidità morale. Molto prima di qualsivoglia risveglio verde dei nostri ecologisti dell’ultima ora, Angeli chiama un grillo «non sai come giunto / dall’ariosità di una tana / agreste o di un’aia quieta / qui in un’estranea foresta / di pietra che ha nome di città» a testimone inorridito e inadeguato del degrado umano e ambientale cui è arrivata la metropoli odierna, coacervo di abitudini corrosive, di veleni fisici e psicologici, di aggressioni visive e uditive. Testimone di ciò, ma anche emblema di una fisicità buona, di una natura da recuperare, di una poesia non riconosciuta ma sempre presente nelle cose, il grillo è montalianamente messaggero di salvezza, cristianamente simbolo di speranza e redenzione. Nell’ultima sezione, classicamente intitolata Approssimazioni all’arte poetica, sono quindici i componimenti brevi in settenari cui Angeli affida il compito di esprimere il suo complesso rapporto con il “mestiere” di poeta, inteso sempre da lui come lavoro assiduo sulla parola: che va cercata, scelta tra tante, e poi lavorata limata incastonata come una gemma nel giusto contesto.
C’era, in Angeli, figlio di un muratore emigrato in Francia e di una contadina, questo rispetto sacro per la magia della creazione intellettuale, mista a una passione artigianale per la fatica fisica dello scrivere, e a una diffidenza tutta carnica verso la faciloneria delle improvvisazioni mistificanti. Tutto questo lo rendeva durissimo nei riguardi degli altri e di se stesso, e il dialogo che fingeva nei versi con un “tu”, lettore solo supposto, era in realtà un monologo. A se stesso, quindi, rivolgeva l’invito a non scrivere: «Se ti resta un talento / di tanto spreco fatto / sul bianco delle pagine, / spendilo in vita: l’atto / può adeguarsi all’intento, / non il segno all’immagine», «La verità, la vita / non fanno vive e vere / le parole che scrivi», «Dato che prima o poi, / anche senza motivi / come avviene tra amici, / tradisci o ti tradiscono / le parole che scrivi / quanto quelle che dici, / unico scampo al rischio / è il tacere, se puoi».
Ma come non riusciva a non parlare, Angeli non riusciva a non scrivere: e se con pessimismo attuale e metafisico insieme considerava il tradimento della scrittura rispetto al pensiero o all’azione, tuttavia ad essa continuava ad attribuire la speranza di un riscatto: «Molto ti sembrerà / se fra tante parole / tue da spazzare via / almeno una racchiuda // in sé l’ombra che dia / la speranza del sole, / l’errore che ti illuda / di qualche verità», e ancora: «Un indizio dell’eden / prima della caduta / dalle parole ambivi. // Ora ti basta chiedere / loro quanto ti aiuta / a vivere tra i vivi».
Nella sezione centrale del libro, San Pietro in Vincoli, sono raccolte singole poesie, più sciolte e abbandonate rispetto a quelle che abbiamo appena preso in considerazione. Ritratti di persone e ambienti familiari (chiese, fiumi, amici, e poi spazzini, fantesche, pannocchie), ma soprattutto versi indaganti il mistero dell’essere, del vivere qui e ora. Si tratta in qualche modo di poesie filosofiche, ma non intellettuali: in esse la razionalità sembra cedere il posto a un’istintualità fisica positiva, ottimista. Bergsonianamente, Siro Angeli credeva nell’irrompere del nuovo, del caso, dell’imprevisto, a vanificare ogni costruzione simmetrica della necessità: credeva nel miracolo che può accadere a tutti, ogni giorno, modificando il già scritto. Per cui, tra lo sparo e il raggiungimento del bersaglio, voleva potersi affidare alla possibilità di uno scarto della pallottola, o alla stravolgente autonomia di un refuso sulle bozze di stampa, o alla non necessarietà delle scadenze temporali; auspicando «il nascere di una nuova / stagione in un altro universo / dove il conto non torni esatto».
Scriveva Gatto: «Questa poesia di Angeli, lontana da ogni remissività, è una sentenza contro il numero, l’estrema salvezza di un filo superstite». Da tali premesse teoriche derivava un insegnamento di vita: «tu lascia che domani / come improvvisi scrosci / di pioggia sulla via / ti colgano gli eventi», «Meglio se a passi discontinui / procedi, quasi allo sbaraglio , / lasciando che qualcosa s’insinui / tra lo scopo e te», «Non ridurre allo scatto / d’un congegno gli eventi». Polemico contro i ragionieri dell’esistere, che misurano i propri passi sui listini di borsa, asseriva: «lascia il calcolo esatto / di mezzi e fini, a trarne / utile e vanto, ad altri».
Il volersi giocare, con azzardo, la vita, non era solo atteggiamento mentale: all’età in cui ci si pensiona era stato capace di inventarsi una nuova esistenza, abbandonando la Rai e Roma, trasferendosi a Zurigo, offrendo vita nuova ai suoi anni. Un miracolo, un regalo del destino, amava definire la nascita tardiva delle nostre bambine: sicuro che se i suoi occhi si fossero chiusi, altri occhi, in altro modo suoi, sarebbero rimasti aperti sul futuro, meravigliati e grati di esserci.

 

«L’Arena», 24 febbraio 1992

RECENSIONI

JACCOTTET

PHILIPPE JACCOTTET, IL BARBAGIANNI – EINAUDI, TORINO 1992

Encomiabile risulta la recente iniziativa einaudiana di pubblicare nella prestigiosa Collezione di poesia un volume di Philippe Jaccottet, per la prima volta presentato al pubblico italiano con una raccolta organica dei suoi versi, con la prefazione e la traduzione del più promettente dei poeti ticinesi, Fabio Pusterla, e con un saggio illuminante di Jean Starobinski.
Jaccottet è autore svizzero di nascita e formazione, francese di adozione e, potremmo dire, di vocazione. Conduce oggi a Grignan, un paesino della Provenza, una vita schiva e dedita alla riflessione, alla produzione e alla diffusione della poesia. Traduttore dal tedesco (Musil, Rilke e Mann) e dall’italiano (Ungaretti, soprattutto, ma anche Montale e Caproni), è stato stranamente ignorato dalla nostra cultura così debitrice nei suoi confronti, forse solo (come suggerisce Pusterla) per caso, per dimenticanza. O più probabilmente perché Jaccottet ha scelto una via “moderata” e “dignitosa” di approccio alla poesia, snobbando da un lato sia l’impegno ideologico e lo sperimentalismo formale più azzardato, dall’altro contestando nei fatti il rimbaudiano “sregolamento dei sensi”, che tende a riflettersi esteticamente nella rottura totale con la tradizione.
Con Montale, Jaccottet ha scelto la via della «decenza quotidiana» nell’esistere: «Temevo soprattutto le formule categoriche, i rifiuti assoluti o le affermazioni perentorie, perché mi pareva che l’uomo che alza la voce o che picchia il pugno sul tavolo lo fa spesso meno per reale convinzione che per coprire il rumore dei suoi dubb»i.

E a questa sobrietà, essenzialità esistenziale, Jaccottet rimane coerentemente fedele anche nella scrittura; la poesia è lettura esatta, decifrazione puntuale delle cose, non paludata da espedienti formali che depistino il lettore distraendolo dal suo fine ultimo: che è quello di cogliere barlumi di verità, di approssimazione alla luce. «Non è appunto questo il lavoro che il poeta effettua sulle parole? Da opache, come gli furono date, si ostina a rendere loro la trasparenza, a renderci la felicità… Forse bisognerà ridursi a una posizione più modesta, a una via di mezzo: la poesia che illumina la vita come una nevicata, ed è già molto aver conservato gli occhi per vederla…».

Qual è, dunque, il compito del poeta? Jaccottet risponde in versi: «Compito dello sguardo che s’offusca / non è sognare o piangere, è vegliare / come un pastore il gregge, e richiamare / ciò che rischia di perdersi nel sonno»». E’ un richiamo che può essere attuato con parole comuni, addirittura logore, attraverso la descrizione di paesaggi quasi virgiliani (i boschi, le acque, insetti e uccelli…) e di situazioni di vita quotidiana che in qualche modo ricordano la nostra linea lombarda («Domenica popola i boschi di bambini che frignano, / di donne che invecchiano; / un ragazzo su due sanguina / si lasciano cartacce vicino allo stagno…») secondo moduli consolidati da una tradizione letteraria millenaria (rime, sonetti…). Dov’è dunque la peculiarità, ma anche la modernità di questa voce poetica? E’ nella sua limpidezza assoluta, nella sua cristallina musicalità, che ci fa respirare l’aria rarefatta e purissima dell’alta montagna, la trasparenza luminosa di altre atmosfere. Ma anche nella sua sapienza tranquilla, sicura e rassicurante, di una risposta che si intuisce al di là del mistero, della parola-viatico che ci accompagni, aiutandoci a passare «senza paura e senza rimpianti la soglia di quell’oscuro spazio che ci attende per inghiottirci o per cambiarci».

 

«L’Arena», 6 agosto 1992

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