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RECENSIONI

DAMIANI

CLAUDIO DAMIANI, POESIE – FAZI, ROMA 2010

Presso l’editore Fazi è uscito un volume antologico del poeta romano Claudio Damiani, che raccoglie testi pubblicati dal 1987 ad oggi. Nella sua ammirata ed affettuosa prefazione, Marco Lodoli afferma che in questi versi, classici e cristiani insieme, l’autore «sogna un’eternità che comprenda il prima e il poi, l’ora in cui ancora non eravamo e quella in cui forse ci ritroveremo senza più dolore…» E in effetti, la poesia di Damiani ben si può definire classica, nutrita di «distesa purezza», come suggerisce il prefatore. Soprattutto nella prima parte del volume, scandita in  elegie ed  odi, e tanto immersa nella stupefatta contemplazione di una natura innocente ed eterna, i nomi di riferimento che più vengono in mente sono quelli di Virgilio (Le Bucoliche e Le Georgiche), con i suoi pastori, le stalle, i vitellini, i fiumi e i giardini. Ma anche Catullo e Ovidio non sono lontani dalla sensibilità del poeta. E poi si riconosce in lui una voce limpida e gentile che si rifà a una collaudata tradizione novecentesca: dai crepuscolari a Saba, a un Penna innamorato dei colori («il cielo è azzurro azzurro»). Molti vocaboli desueti evidenziano una ricercatezza e ed eleganza quasi ottocentesca, che tuttavia non disturba, ma bene si accompagna al tono pacato e intenerito dei versi (opre, guata, mira, fere, verno, lene..), alla loro esibita antimodernità: «non vorrei sentire il suono del calesse / del lattaio che viene dalla lontana strada». Il dialogo con la natura è ininterrotto e riconoscente: essa mai appare minacciosa, ma sempre innocua, pulita, rasserenante. La vegetazione viene narrata con attenta precisione: i nomi che tornano sono quelli degli eucalipti, del noce, della gramigna, della lonicera, e del mirto che nella sua crescita imprevista e sovrabbondante ricopre con generosità una tomba abbandonata. Anche gli affetti umani sono indagati con tenerezza e gratitudine: quelli per la moglie, per i figli piccoli e da proteggere con amore, per gli alunni con «la loro libera gioia / come una cascata luminosa», o per gli amici precocemente scomparsi. E la morte è presente ovunque, ma priva di drammaticità o angoscia: quasi come una continuazione della vita in un’eternità che tutto abbraccia e consola, senza una reale distinzione tra l’esserci e il non esserci più. Una visione cristiana, forse, perché il poeta prega, e crede nella bontà del tutto; ma se nel cristianesimo esiste anche il peccato, la colpa, la condanna, Damiani non se ne fa interprete: la sua è una visione irenica, riappacificata, dell’esistente, più vicina -come giustamente suggerisce Lodoli – alla serenità del taoismo che alla drammaticità della croce cattolica. C’è in ogni poesia un invito all’attesa, alla sospensione, al fiducioso abbandono in una forza cosmica positiva e riparatrice. L’uomo appartiene alla natura, come le foglie, come le formiche, e vive la caducità del suo passaggio mortale con tranquilla accettazione e religiosa obbedienza alle leggi del creato: «restiamo ancora un po’ in quieta attesa / mantenendo l’animo vigile, e quieto, / ringraziando il cielo per ogni più piccolo dono, / per ogni istante di vita ancora uno davanti all’altro»» , «che bello che non siamo eterni, / che non siamo diversi / da nessun altro che è vissuto e che è morto, / che è entrato nella morte calmo / come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto / e poi, invece, era piano», «e quando moriremo questo paradiso / che noi abbiamo trovato, che era per strada / sotto gli occhi di tutti, / lo porteremo con noi sotto terra / e anche sotto terra continuerà a brillare», «Morire è come nascere / qualcosa che non è che dobbiamo fare noi».

Essere felici di tutto, e del poco; sentire la solidarietà e l’uguaglianza con ciò che ci circonda, sia esso vivente o inanimato come le montagne; non fermarsi a osservare le brutture: «vorrei montare sulla mia biciclettina / n.14 e pedalare tra le case, / e se le case crollano / non le vorrei vedere / vorrei voltarmi dall’altra parte / e non vedere». Salvare la dolcezza: «capisce che solo la gentilezza c’è data / e che la vita vale viverla / per essere gentili». E il compito del poeta sembra essere lo stesso di quello di un pittore, magari di una paesaggista cinese del 1700, che nei suoi acquerelli delicati riproduce la bellezza tranquilla che lo circonda: «Vorrei semplicemente descrivere / quello che vedo, non altro / non mi interessa inventare / mi piace camminare / e mi piace guardare». Ecco, Damiani è un poeta di immagini: un antico, mite, indulgente, validissimo poeta contemporaneo.

 

«Farapoesia», 8 febbraio 2011

RECENSIONI

LILLI

GINEVRA LILLI, DIARIO ORDINARIO –  MARCO SAYA, MILANO 2014

«Stringo la penna, graffio la carta»

Lo scritto in prosa che conclude questo volume di versi di Ginevra Lilli è in realtà quello composto per primo, nel 1993, quando l’autrice era poco più che ventenne: testimonianza di un male di vivere che già da quel momento prendeva a radicarsi nel corpo e nell’anima («Un piano inclinato che bascula su di un perno…Da allora faccio parte di tutta la tristezza che solo le onde sono capaci di raccontare e ripetere ogni giorno…Non so quanto tempo sia passato, non so neanche se nessuno si sia mai accorto di niente»). Questo senso di estraneità nei riguardi della propria e altrui vita, delle vicende pubbliche e private, addirittura dei propri confini fisici, si perpetuerà in tutti i versi successivi, scritti tra il 2009 e il 2014, dopo un silenzio buio durato anni: quasi che Ginevra si sia aggrappata alla poesia nel tentativo di riconquistarsi, di recuperare una serenità che l’esistenza le aveva minacciosamente negata.
Eccoli, quindi, questi versi quasi spavaldamente e consapevolmente ignari o diffidenti di tradizioni, eredità e correnti letterarie, e invece decisi ad affermare un loro autobiografismo fatto di sofferenza e di rabbia, di richieste d’affetto e amicizia, di ricerca di un salvifico approdo. Lo stile varia dal discorsivo quotidiano, come nella poesia iniziale («Quella alta,  / la vedi? / E’ saltata / da un treno! //… Poraccia. // Quel sorriso / è il suo. / Sempre quello. / Chissà.»), al cantilenante della filastrocca popolare («Niente premura, / sono in Gallura, / del continente / non mi frega niente»), al pacato-meditativo-orientaleggiante («Un dolce andare verso Oschiri, / in un accenno d’estate, / nel giallo pigro dell’erba, / nella luce chiara di mezzogiorno. / Tutto tace, tutto è buono»), o all’asseverativo, tendenzialmente gnomico, anche quando esprima le più lapalissiane verità («Tutto in questo mondo / è sesso-potere-denaro»). Non è infatti il risultato estetico ciò che interessa a Ginevra, quanto lo scandaglio nel dolore, che deve essere reso nell’immediatezza dei versi: franti, sincopati, incapaci di distendersi nella musicalità, o di controllarsi criticamente nel rigore metrico. La vita è un viaggio (Roma, Toscana, Sardegna…); la natura – soprattutto nel suo elemento acquatico, quindi amniotico – qualcosa in cui annullarsi; la cultura libresca una zavorra da cui liberarsi («Passamelo quel libro chiaro, il divano è zoppo. / Ci mettiamo questo qua, che ne dici? Ungaretti! / E’ del giusto spessore. / Oplà.»).
L’immagine che l’autrice tende a dare di sé è talvolta impietosa, quasi amasse esibire il lato più negativo del suo inconscio («Sono fatta di sangue scuro, penso, donna-bambina / capace di voglie nere, di tanto nero / odio»; «Stringo la penna, / graffio la carta, / il bianco lo mangio. // Poi sputo, taglio. Stritolo / e lacero. Il vuoto / consumo, consumo lo strazio. / Io ti ammazzo»; «Si gonfia la pancia, / fuggon le idee / e mi ritrovo qui sola / ubriaca di fiele»; «Che il mondo / scompaia. / Poi ,/ staremo tutti meglio»): quando invece la richiesta di amore, di pace, di amichevole e solidale comprensione risulta evidente a chi legge con l’imperiosità di un S.O.S. disperato. Esplicite infatti sono le dichiarazioni d’affetto ai familiari, agli amici, al destino stesso e al futuro che l’attende («E’ di calma che mi vorrei nutrire»; «La preghiera / è nata. / Ed è un verso: / ti prego, stammi accanto»). La domanda di protezione, di assoluzione e di leggerezza è disarmante, quasi infantile: «Non guardatemi / con severità, / sono sempre io», «Fammi beare di me stessa, dimmelo, / dimmelo che sono / bella, brava e buona. / Voglio i complimenti, i riconoscimenti, i premi e le premure per le / prime donne. / Non per forza il successo, ma un biscottino per cani…». Poesia come preghiera laica, come sentiero chiaro che conduca a una radura clemente nel bosco fitto, come conquista lieta di serenità. E’ ciò che Ginevra Lilli augura a se stessa, e che la voce tenue ma fidata dei versi le può far raggiungere: «Un giorno, / mi incontrerò / e sarà / l’incedere affaticato di un gigante di donna; i crucci / attorcigliati, riccioli / presi e infilati / uno ad uno / in una lunga collana rossa rossa. / Rosario di grande fortuna».

 

Prefazione a  Diario Ordinario, 2014

POESIE

ELSEWHERE

C’è un fondo al cielo,
in fondo al cielo: e prima luce,
e primo buio. Fine di tutto,
innanzi a tutto.
Velo che tieni il mondo,
ripara il fiore, il frutto.

***

Tu che non puoi non essere,
non puoi finire.
Costretto a vivere
il futuro nell’adesso:
condannato a te stesso.

***

Ma tu sei un dio nascosto.
Oppure solo stanco:
e vorresti confonderti,
bianco nel bianco;
arrenderti, non esserci.
Invece stai al tuo posto.

***

Ma chi può consolarlo
se soffre, a chi può chiedere
aiuto? Cosa pregare,
a chi confessare il tarlo
di un dubbio: lui, muto?

***

Fare la guardia al niente.
Per millenni di vuoto
opporsi al niente, senza essere cosa.
E poi la scelta, il lampo. La voglia
che esistesse una rosa.

***

Prima di Dio non c’era dio,
prima del nulla non esisteva niente.
E niente e dio e fine e avvio
furono tutto, insieme: corpo e mente.

***

Ci chiederà mai scusa
per il male che ha potuto farci
(l’eterno, l’infinito, onnipotente)
a noi, che usa come alibi,
se ci ha destinati
all’inferno del niente?

***

Non crede al suo essere Dio,
non chiede di esistere eterno.
Gli basta che un lieve brusio
lo invochi presente e paterno.

***

Se gli arriva al di là degli spazi
sepolti e persi, oltre i cieli
le galassie gli universi;
se riesce a giungere a lui, leggera,
sottile come un soffio,
la preghiera incredula e viva
di uno che ha paura ma chiede
che lui ascolti; fosse solo per questo,
per questa minima fede,
dovrebbe esistere e rispondere,
esserci,
anche se non si vede.

***

Altro da me e da tutto,
non visto non visibile: muto.
Solo e inconosciuto,
lontano – irraggiungibile.
E in ogni cosa, in ogni rosa;
abisso e vetta, pantano
e volo. Tu, sordo
a qualsiasi grido, tu – grido.
Puro e trasparente, insanguinato
e lordo. Mio Dio, mio io,
mio muro. O niente.

***

Le tue mille e mille cattedrali,
come le amo nei loro silenzi,
nel buio dei confessionali: altari
spogli e cupole pesanti,
le nicchie, i banchi in fila,
la pazza solitudine dei santi.

***

Se il giorno è stato senza luce,
la notte lo riscatterà:
le parole sbagliate taceranno,
le offese saranno perdonate.
Nel sonno innocente di ognuno
il male si riduce a niente.

 

In Un diverso lontano, Manni, Lecce 2003 e in Nazione Indiana, 30 agosto 2020

 

RECENSIONI

TESTA

ITALO TESTA, LA DIVISIONE DELLA GIOIA – TRANSEUROPA, MASSA 2010

Questi versi di Italo Testa interrogano il lettore -emozionandolo, anche- già dal titolo, che (al di là del riferimento al gruppo punk inglese Joy Division) non allude come ci si aspetterebbe a una “condivisione” della gioia (tra l’autore e chi legge, tra protagonista recitante e deuteragonista che ascolta), bensì a una sua “divisione”: quindi a una frammentazione, a una non totalità e non completezza, ribadita in tutti e tre i capitoli che compongono il libro. La cui nota dominante è senz’altro una rassegnata malinconia, attualissima però, disincantata in un soliloquio che tenta vanamente il dialogo, con alle spalle uno scenario grigio, silenzioso, di smobilitazione post-industriale. E opportunamente il poeta cita, in esergo alla seconda, splendida sezione, una frase di Edward Hopper: perché proprio agli interni disadorni e ai desolati esterni del pittore americano sembra rifarsi l’ambientazione dei suoi versi («I was more interested in the sunlight on the buildings and on the figures than any symbolism»»).
Eccoli, dunque, gli interni raccontati da Testa nelle quattro parti in cui si suddivide la sezione che dà il titolo al volume: «un interno spoglio e taciuto… a telefono spento… nello specchio marmoreo di un tavolo… le grate che spartivano il vetro… i gradini lucidi… di sbieco su una sedia… in una stanza anonima, spoglia… in una stanza vuota»: un crescendo di non appartenenza, in cui si muove la coppia di amanti. Il poemetto (che è poi una lunga lettera d’amore, sfiduciata eppure tenera, delusa dalla propria non-passione, rivolta a una lei sempre lontana anche quando viene descritta nella sua fisicità più intima), ha un ritmo lento e avvolgente, assolutamente musicale, nella pacatezza delle sue rime e di una metrica tradizionale però mai scontata, priva di qualsiasi brusco scarto formale. Una bassa marea di sonorità, che accompagna queste immagini dal sapore cinematografico (campi lunghi, sfondi dai colori tenui, una natura indifferente se non ostile alla presenza umana): i luoghi sono quelli, padani, pianeggianti, del delta del Po. E gli echi letterari (una presenza costante del primo Montale: come non ricordare Dora Markus?) rimandano forse alla narrativa di Bassani (le bellissime pagine de  L’Airone trovano un’empatica rispondenza in questi versi); ma anche a Celati, a Tonino Guerra, e ad altri visionari della pianura tra Veneto ed Emilia.
Gli esterni non sono più partecipi dell’avventura umana di quanto lo siano gli interni: «spazio deserto… sotto un lampione astioso… la fissità del cielo… statue mute… i tetti opachi e le lamiere arroventate… la distesa dei campi d’acqua… case abbandonate… fabbriche addormentate… l’armatura dei pilastri… erbe matte sul terreno… mattoni e lamiere ondulate…»). E la nebbia, il silenzio, in cui si muovono i due protagonisti, sospesi, incapaci di vera comunicazione. Italo Testa recita le sue parole in prima persona, si rivolge a un tu che stenta a raggiungere, a toccare concretamente: i due amanti sono descritti spesso in piedi, «appoggiati», «affacciati»», zitti e in attesa, quasi a chiedere conforto e sicurezza alla realtà dei muri, dei balconi, degli oggetti. E non trovano certezza nei loro gesti, nei pensieri, nei reciproci abbandoni: «così aspettiamo giorno per giorno, / un foglio in mano, lo sguardo perso», «la fragilità ci insidia dall’interno», «stiamo lì, col capo arrovesciato / un po’ assonnati sopra il letto, / le gambe appena reclinate / contiamo le pieghe sul lenzuolo», «il braccio nascosto tra le gambe, la luce sulle mie cosce nude, / la mano a coprirti il pube». In un’estraneità sofferta, immodificabile: «saremo corpi in attesa, tronchi / riversi, distesi tra le cose». La stessa incomunicabilità che ricorda i film di Antonioni, e, come già detto, l’angosciante desolazione dei quadri di Hopper, la ritroviamo nelle altre due sezioni del volume:  CantieriDelta. Quest’ultima ancora centrata sui temi sentimentali della precedente, espressi in versi più veloci e orecchiabili, al limite del cantato, con qualche concessione alla retorica di più facile presa. Il paesaggio è sempre segnato da pioppi e argini, nebbia e neve, rami-confluenze-strade come si conviene in un delta, entro i cui confini i due protagonisti si cercano e si sfuggono, trincerandosi in rapporti sessuali veloci e talvolta colpevoli, chiedendosi e negandosi aiuto reciproco. I colori non transigono, severamente sfumando dal bianco al grigio, «nel polverio / di una geografia remota» che non sembra conoscere l’indulgente abbandono al sole, al calore, alla luce. Decisamente più originali sono invece le poesie della prima parte, ambientate nelle periferie industriali di Marghera, tra pale meccaniche, cisterne, torri e silos, container, gru, pilastri di cemento, cavi dell’alta tensione, tralicci, rimorchi; tra fabbriche disumane dai nomi inclementi (Fincantieri, Saipem, Crion), in orari albeggianti di «luce polverosa» e proletaria. Eppure in questi versi privi di rabbia e semplicemente descrittivi, che si limitano a constatare una realtà perdente e umiliata, aleggia uno stupefatto e accorato sentimento di solidale comprensione, e pietà, per le persone, la loro vita e la loro storia, che avvicina il lettore alla verità disadorna della poesia più autentica.

 

«nazioneindiana», 30 marzo 2014

POESIE

SABATO SERA

I piedi neri che sporgono dal letto,
brache arrotolate sui polpacci: Isaac dormicchia
in canottiera, sudato, sporco di terra, e il fiato
gli puzza d’aglio e di vino. Il suo vicino è Moses,
curiosi nomi di ricchi ebrei, i loro, che invece
più musulmani di così si muore.
Moses fa il bucato in una bacinella, lava
calzini e varia biancheria; mai fatto prima
in vita sua il bucato, ma ora che è via di casa
si arrangia in tutto, e canta nenie, Moses, e lava
spazza cucina, proprio come se fosse una donna.
Appeso al muro è uno zaino semivuoto, due giacche
a vento buttate sulla sedia per quando piove,
per terra sandali, scarpe da tennis quasi nuove.
Isaac insiste a non aprire gli occhi e pensa
a sua sorella, a una ragazza bella che ha incontrato
la mattina e lo guardava triste, imbarazzata
al ciao di lui, al suo sorriso: ma sua sorella mai
starebbe ad osservare uno straniero; e Isaac sa
cos’è bene e cosa male, lui che è nero.
Moses lo spruzza di acqua saponata, gli urla «Alzati!»
facendolo grugnire. Isaac si alza, spalanca fauci
e braccia, va a pisciare nel cesso lordo da far paura
e poi si veste senza lavarsi, si cambia i pantaloni,
infila una camicia scura.
Decidono di uscire. La camera odora di corpi
lucidi accaldati, ci sarebbe bisogno d’aria fresca,
di una sera pulita nei polmoni.
Ciondoloni si avviano per la strada sterrata
fino a un viale che sbuca sul raccordo anulare;
parlano ridono, fanno versacci ogni volta che ne incrociano
una, poi le girano attorno caroselli eccitati,
carambole di balli improvvisati, e lei si arrabbia,
li manda a quel paese.
Moses e Isaac riprendono il cammino,
sulla strada una fila di auto interminabile,
voglie pesanti da sabato sera, noia di tutti contro la loro
gioia: grazie dell’aria, della libera uscita, di una vita
lontana dalla storia.
Memoria di non esserci, di non essere contati
altrove, in un dove che non sia la propria stanza,
danza che trova un senso solo nel movimento,
nella fatica di andare sempre. Ecco che vanno
in centro, prendono l’autobus, stipati tra tanti
disperati come loro, lingue diverse, altri colori,
e fuori dai finestrini è buio, e nei pensieri buio
o luce a sprazzi. Ragazzi pronti alla discoteca
si trascinano a cercare nuove facce e nuovi sessi,
storditi amplessi per dimenticarsi. Isaac invece vorrebbe
ritrovarsi, sentirsi pieno e accolto e benedetto;
in un letto di piume magari, in un fiume che scorre,
dentro una donna moglie. Asseconda le sue voglie serali,
si avvicina a due giovani amiche, spingendosi tra loro
con il suo corpo forte; ad una preme il seno col torace,
all’altra tocca il fianco come senza volerlo. Moses
lo guarda e ride, Isaac strabuzza gli occhi, gode
del suo coraggio malandrino, finché un giovanotto
lì vicino avanza minaccioso a dirgli di piantarla:
ma Isaac lo sovrasta di una testa, è una bestia di muscoli
e allegria, l’altro non osa nulla e torna via,
a sedersi al suo posto. In centro tutti scendono,
le due donne ancheggiano gazzelle e ammiccanti
davanti ai due ghepardi noncuranti. Belle le luci
come se fosse giorno; intorno gente, tanta ed elegante,
ressa nei bar, voci e baci, bulli e pupe.
Isaac e Moses camminano veloci, guardano rapaci
e avidi quello che non avranno: una cena con bianche
tovaglie, camerieri ubbidienti alle spalle, madame
ingioiellate, e soldi, soldi. Trovano conoscenti
ad angoli di strade affollate, magrebini, ganesi,
altre facce già viste nei loro quotidiani appostamenti:
è un fioccare di saluti rituali, di frasi gutturali
incomprensibili, grandi manate, abbracci,
esibizioni candide e orgogliose di oggetti in vendita
invenduti, oltraggi e sputi dietro a chi passa ignaro
e non acquista, canti di scherno ad un inverno
dei cuori, a un fuori meno freddo di ogni interno.
Moses e Isaac svoltano in un vicolo diverso
da quello dell’altra settimana: questo si chiama
Via della Borsa. Tentano l’avventura e la ventura,
che il loro Dio gliela mandi buona come la volta scorsa
almeno, una matrona spaventata che non aveva opposto
resistenza. Senza fiatare seguono uno dal fare impiegatizio,
tenera pelatina e occhiali spessi, un giubbino di stoffa
striminzito. Di colpo lo spintonano in un canto, Moses
gli blocca mani e bocca, il tizio quasi casca mentre
Isaac gli strappa il portafoglio dalla tasca, e via
di corsa che non rinvenga, che non gli venga in mente
di urlare. Si fa presto a contare quarantacinquemilalire,
bestemmia Moses in italiano, Isaac ha il fiatone
e guarda lontano, vorrebbe riprovare con un altro
tra la folla, ma -strano- è Moses questa volta a non volere,
dice «Ci bastano per bere, per fare qualche cosa»,
e maledice la sorte, implora la morte più schifosa sui ricchi
nascosti a farsi ricchi senza che nessuno li tocchi.
Loro, pitocchi, devono adesso
tornarsene a casa, rabbiosi impotenti, riprendere l’autobus
con poca gente e stanca, stare zitti a guardarsi le scarpe,
appoggiando la testa al finestrino. Che voglia di altre notti,
altri vestiti addosso, padri severi a cui ubbidire, parole
compagnia consolazione, e invece qui il silenzio perdizione,
condanna a non esistere.
Alla fermata giusta Isaac e Moses scendono, ed è già scuro,
le macchine più rade, il viale non risponde ai loro passi.
Moses fischietta, Isaac dà calci ai sassi.
Ritrovano le donne accanto ai fuochi, e quella, sfatta,
che avevano schernito poco prima. Fanno salamelecchi,
sorrisini: le chiedono se con quanto hanno rubato
li può accontentare tutti e due,
veloce, e buona almeno lei, sul prato.

In Linea d’ombra n.114, aprile 1996; in Litania periferica, Manni, Lecce 2000
e in La poesia e lo spirito, 4 febbraio 2018.

 

 

POESIE

LA CONFESSIONE

(Omaggio a Giorgio Caproni, rileggendo Congedo del viaggiatore cerimonioso)

 

Amici, una cosa vi devo raccontare.
Di una mia confessione – anni fa.
Scolpita nella memoria.
Ma io i ricordi
non li amo.
Questo però è vivo. Più di ogni altra storia.
E allora, ne scrivo.
Entrai in chiesa,
era buio. Entrai, come avessi patito un’offesa.
Sentivo rancore, nel cuore.
Ma (vi giuro: le mani
mi tremano), cominciai a pregare.
Non so ben dire
chi e per cosa; sentivo,
lieve, una costernazione.
E la voglia di mettermi
a piangere. Di disperazione.
La casa di Dio profumava
di fiori, e io respiravo
un’aria dolce di pena.
Che vale temere il nemico
fuori, quand’è già dentro?
Così mi accostai al confessionale:
mi inginocchiai. Feci il segno di croce.
Parlai. Di cosa, non so.
Forse del peccato più grave
– la colpa di omissione.
Il prete taceva.
A me, si incrinava la voce.
«Potrei fare e dare.
Non do e non faccio».
E poi «Non sono sicura
di credere. C’è troppa nebbia».
Infatti, che ne sappiamo
noi tutti, di quel che ci aspetta
di là, passata la cresta?
«Lei prega?» mi chiese severo
il pastore di anime.
«Di rado», risposi.
«E non, come accomoda dire
al mondo, perché Dio esiste:
ma, come uso soffrire
io, perché Dio esista».
«Ha dubbi di fede, dunque»,
ripeteva, quasi parlando a se stesso.
E poi mi chiedeva dei miei rapporti
con gli altri. «Ma io non vivo.
Così, non pecco. Scrivo.
Scrivo». Ammettevo
contrita. «Io, da soldato
semplice, il mio dovere
e stop». Aspettavo una parola
di condanna. Tra noi,
rammento, circolava
un’aria che mi sgomentava
di solitudine. E lui,
impaziente:
«Chi fabbrica una fortezza
intorno a sé, s’illude
quanto, ogni notte, chi chiude
a doppia mandata la porta».
«Ma Dio può entrare?
E’ in grado di forzare
le catene del cuore?»
Sbuffava, pensando («Che mai volete
da me – da questa mia miseria
senza teologia?»).
Teneva il piede
saldamente posato
sulle cose concrete. Chiedeva
che gli enumerassi i peccati.
«Non sono molti.
Altra cosa è la fede».
«Ma allora, cos’è venuta a fare?
In fin dei conti, cos’ha da confessare?»
Sembrava irato, forse turbato.
Capii il mio errore,
mentre pronunciava la formula
dell’assoluzione.
«Cosa vuole da me, signora?
Sono un povero prete. E in Dio
– non so se riesco a crederci più.
Dubito anch’io».
Mi alzai (nemmeno salutai)
uscii all’aperto. Il freddo
pungeva. Premeva ancora tutto l’inverno
(il brivido: il caldo)
del mio infantile inferno.

 

In Nuovi Poeti Italiani 6 – Einaudi, Torino 2012 e in Omaggi, Einaudi, Torino 2017.

RECENSIONI

GUALTIERI

MARIANGELA GUALTIERI, BESTIA DI GIOIA – EINAUDI, TORINO 2010

Dopo tanta poesia edulcorata, cerebrale, o semplicemente noiosa, ecco finalmente un libro che si impone di forza, potente, vitale: orgoglioso di sé già dal titolo, quasi aggressivo, felicemente concreto. Bestia di gioia è il quarto volume di versi di Mariangela Gualtieri, scrittrice arrivata tardi alla poesia, dopo una lunga militanza nel teatro.
Le cinque sezioni che lo compongono sono tutte animate da un’urgenza morale prima che estetica, pur nella sapienza della forma, nel consapevole utilizzo della tradizione letteraria, e nella meditata capacità di piegare tale tradizione ai propri fini, che sono assolutamente (e necessariamente) contenutistici.
Gli incipit delle poesie sembrano spesso stagliarsi sulla pagina con convinzione quasi declamatoria: «Non c’è scatto nel cielo», «Che forza insolente hanno i fiori», «Andiamo mie ossa», «Piove dritto dritto», «Sii dolce con me. Sii gentile». E tuttavia subito dopo sono seguiti da improvvise richieste (al lettore? alla poesia stessa?) di aiuto, di rassicurazione, di confidenza. Come fuochi accesi e luminosissimi che chiedessero a volte di ardere, a volte di essere placati e spenti da un poco d’acqua: «Ma guarda ora – che pace».Tutto il volume è pervaso dallo stupore meravigliato e riconoscente di fronte al miracolo della bellezza naturale («Ecco la gemma. Ecco la foglia. / Ecco un volo perfetto di ala», «La nuvola piuttosto adoreremo / che è maestra di scorrere per il cielo / e di alta impermanenza, e di esistenza / senza peso»), con un’attenzione partecipe, ammirata e grata a ogni processo della vita, dalla nascita dell’universo fino alle sue espressioni più minute: le ragnatele e i fiori, la pioggia o il vapore che esce dalla pentola sul fuoco. Gli alberi, ad esempio, manifestano una confortante sicurezza nel rimanere tranquilli testimoni delle nostre inquietudini e malinconie («Certi alberi vicini alle case / sostano in una pace inclinata / come indicando come chiamando / noi, gli inquieti, i distratti / abitatori del mondo. Certi alberi / stanno parzialmente»). O le stelle, che ci rimandano ad altro, a qualcosa di più alto ed eterno che appartiene anche agli esseri umani e a ciascuna piccolissima cosa («le stelle / sono talmente risolute nel dirci / che c’è altra luce / che c’è lontano un fuoco / per il coraggioso»). O ancora il ciclo inarrestabile di nascita-morte nella natura: che è sempre e comunque esaltazione di vita («C’è solo vita / niente altro. Solo vita») Quello che importa è farsi partecipe del tutto, immergersi nella creazione, aderire all’esistente: «Stare bene profondo. / Essere ogni cosa».
Quasi sempre, quindi, la poesia di Mariangela Gualtieri riesce a diventare un vero inno alla gioia, alla potenza del creato in ogni sua manifestazione, anche quando arrivi ad essere apocalittica o distruttiva: «Ciò che non muta / io canto / la nuvola la cima il gambo / l’offerta il dono la rovina / apparente d’acqua che tracima / di tempesta e di onde». E sa opporre lo splendore della natura alla dittatura della superficialità, della grettezza e della povertà che ci ammannisce quotidianamente la cultura contemporanea («battagliati fra le catene / d’una dittatura che impera. / Noi non adoreremo le sue merci. / Non piegheremo la schiena / alla sua greppia»). In questo sembra consistere il compito del poeta: interprete e divulgatore della bellezza, della forza redentrice di tutto ciò che respira, o semplicemente è («e la mano che scrive è così lieta ora / che pensa ‘offro questa pace / a chi è dentro una pena grande.’ // Una preghiera pare tutto / il cielo. Una preghiera il verde / delle piante»).
Ci troviamo di fronte a uno spirito di profonda religiosità, non legata a istituzioni o riti, verrebbe da dire quasi paganeggiante, che arriva a ringraziare e a esaltare la divinità che ha creato i fiori («Quale cuore mancante / così traboccante di mancanza // quale giocondissima mente / è esplosa al suo centro / in colorati frammenti di sé / di sé stessa pensante»), o a celebrare la preghiera laica ed altissima della nuotatrice nel cloro della piscina comunale, nella poesia più commovente di tutto il volume.
Ma il richiamo civile e severo a tutte le chiese, di fede e politica, non ha nulla di falsamente devoto; è un invito deciso a non affidarsi a finzioni, giubilei, condoni, inchini: «Perdoniamo invece».
C’è inoltre un continuo offrirsi, quasi vittima sacrificale, a riscattare la sofferenza del mondo attraverso il potere salvifico dei versi: il suo «eccomi», di reminiscenza biblica, la sua generosa oblazione di poeta che paga, nell’eccesso di sensibilità, per il male e il bene di tutti: «Anche in questa brutta città appare chiaro / sopra i rumorosissimi bar / lo spettro luminoso della gioia».
Ecco quindi spiegata la gioia «bestiale» del titolo, che riesce a superare e a coprire qualsiasi bruttura.
Ogni aspetto della vita viene esaltato: il viaggio come il riposo (alcune poesie sono un omaggio al sonno, perso-bramato-ritrovato, allo sprofondare in un’incoscienza ristoratrice, per poi riemergere vivi e attenti alla nuova luce del giorno, «quando l’imperatore comanda / che sia luce»), l’amore come fusione totale con l’amato, come nostalgia di quando si era un’unicità indistinta. E persino la morte, intesa sì come caducità e perdita, ma anche come ritorno all’eterno, alla leggerezza della non appartenenza: «Presto la mano diventerà rametto / bianco fra le radici. Presto saremo / fuori di qui», «e il morire dei corpi non è / che l’entrare fuori misura. / Senza chili, senza metri, senza / particelle. Alleluiare».
Quindi la risposta poetica di Mariangela Gualtieri è l’obbedienza alle leggi imperscrutabili della fisica e della materia («C’è obbedienza nel regno»), la sua docile e gioiosa accettazione: in questo aderire al ciclo della vita e della morte, che ingloba cielo e terra, uomini animali e piante. E’ l’unica, terrena, palpabile felicità possibile, che la poesia ha la capacità e il dovere di comunicare agli altri.

 

«L’Immaginazione» n. 259, dicembre 2010

RECENSIONI

BEMPORAD

GIOVANNA BEMPORAD, ESERCIZI VECCHI E NUOVI – SOSSELLA, BOLOGNA 2011

L’editore Luca Sossella rende un doveroso e meritato omaggio alla poetessa Giovanna Bemporad, nota e stimata traduttrice, pubblicando i suoi versi sparsi in diverse e ormai non più recuperabili raccolte, alcune risalenti a più di sessant’anni fa. Poesie di una raffinata e preziosa classicità, eleganti e misurate, di limpidissima e controllata sapienza. Già scorrendo l’elenco delle pluripremiate traduzioni dell’autrice, si prova un reverenziale rispetto: Omero, Virgilio, Goethe, Novalis gli autori più importanti di cui si è nutrito il suo timbro poetico, pervaso nella produzione personale dalla severa consapevolezza di chi è «alla perpetua ricerca del suono della perfezione», come suggerisce la postfazione. Quindi, una poesia intrisa di tradizione, nei suoi incipit quasi sempre votati all’endecasillabo, mai scontato e troppo cantabile, ma sempre denso di significati, che subito introduce il lettore al senso più intimo del verso: «Mia compagna implacabile, la morte», «Nelle mie vene, un tempo ebbre di vita», «Gioventù, mio rammarico inesausto», «L’anima mia che ha tristezze d’aurora». Alcuni versi sono limpidamente e apertamente modulati su quelli famosissimi dei nostri lirici: di Montale, per esempio, «Non domare, implacabile, il mio riso / mentre il fiore del melo incanutisce; / non recidermi il filo dei pensieri…», o di Leopardi: «E come il vento / su per roseti rampicanti in fiore…», e ancora «meglio piegarsi a immagine di un fiore / che docilmente all’urto dell’inverno / si spoglia dei suoi petali», «sarebbe dolce / svanire in questa immensità serena». Leopardiane sono senz’altro le atmosfere di questi idilli contemporanei: con la luna (bianchissima, casta, dolce, insensibile, perfida, sola e dolorosa), il mare ( giovane, clamoroso, pigramente verde), il vento ( blando, di antiche età, rude ), la notte ( eterna e chiara). Ma soprattutto l’ombra, l’ombra che si diffonde in moltissime poesie, accompagnando il calar del sole o dilagando sotto le fronde degli alberi, metafora del tempo che si consuma, e di un implacabile avvicinarsi della morte. La fine della giovinezza viene cantata con rassegnata malinconia, e l’attesa di un dissolvimento nel nulla non ha niente di tragico, e assomiglia invece a un placido abbandonarsi al sonno: «come s’infrange un’onda nella calma», «La luna va calando all’orizzonte / dove si perde la pianura, e dice / che trapassare al nulla non è male», «Dolore, che mi seguiti immortale / e indomabile fino al limitare / della morte, avrò gioia dagli spazi?»
Quest’impressione di «ariosa calma», questo tranquillo e fiducioso affidarsi ai silenzi della natura e del cosmo, nei paesaggi notturni e acquatici che tanto ricordano l’immobile serenità delle stampe cinesi, rifuggono dall’esibizione di qualsiasi sfrontato richiamo autobiografico. Anche le poesie d’amore, pervase da una sensualità delicata e da un’armonia lontana da ogni smodata passione, si offrono al lettore con lo stesso pudore e incantata gratitudine con cui descrivono le fanciulle amate: «o ninfa, o baiadera, / non che adirarmi col vento d’amore / sospendo ai tuoi squillanti braccialetti / e alle tue lunghe mani una bianchezza / di mute solitudini, e il tuo collo / sfioro con disarmati occhi indolenti». L’eco di Saffo è dichiarata, ma si sente tutta l’eredità maturata nei secoli dai lirici latini fino ai provenzali e forse al nostro Penna: «Conduci al convegno quella ch’io amo / e non trapassi inconsumata l’ora / o notte. // In solitudine confusa, / dimentico tra me ch’ella è partita / e al luogo del convegno aspetto sola». Una voce purissima, dunque, che ha taciuto a lungo negli anni urlati degli sperimentalismi recenti, e che pure prova strategie compositive nuove e coraggiose, come nella ricerca degli attributi, spesso stranianti: fronte smemorata, insondabile azzurro, divieto acerbo, trionfanti primavere, bellezza acquatica, bruno languore, sabbia mortuaria, ora aggravata, volante cuore, alba abortita, oggetti quieti e sedentari…
Questa altissima poesia di Giovanna Bemporad rappresenta un severo ammonimento, un insegnamento consapevole della sua grandezza per la poesia italiana di oggi, così presuntuosamente soddisfatta di esibire obiettivi minimi, atmosfere banali, impoverimenti lessicali, ed è di sprone a una più impegnata profondità.

 

«Leggere Donna» n.154,  gennaio 2012

RECENSIONI

RECALCATI

CLAUDIO RECALCATI, MICROFIABE – MONDADORI, MILANO 2010

Questo volume di versi, scandito in sette capitoli, si apre mantenendo fede alle indicazioni critiche introduttive, che parlano di «energia violenta», «inquieta tensione drammatica», «narrazione franta, in bilico fra realtà e incubo». E in effetti, la prima parte del libro offre al lettore un’immagine forte del male, della corruzione fisica e della sofferenza, con la sezione iniziale dedicata a una drammatica visita a un ospedale, dove è ricoverato il padre del poeta: corpi martoriati, carne ridotta alla macerazione, tra cannule tubicini pitali, deambulare di pazienti, respiri catarrosi, «ciurma di arti indipendenti». Anche la quotidianità familiare sembra sopravvivere in una scenografia desolata, in cucine disfatte: «un sudario di sughi è il tavolo», «l’osso scarnificato nel piatto», «bottiglie vuote di gin e aromi d’aglio», che arriva a coinvolgere la vita tutta: «le ossa, questa carne lessata / al pallido sole estivo», in cui i protagonisti si riducono a un «cumulo di cenci / avvolti come sudari irrispettosi». L’amore si fa vivo a sprazzi, e mai consolatorio, quasi consapevole del disfacimento a cui tutta la realtà è destinata: «Qui non è regno è l’idiozia / del poco degli affetti»; e l’autore è consapevole della sua responsabilità nella visione negativa dell’esistere: «i sussurri d’eco / là dove ho smarrito la luce…», «Anni e anni ho vissuto / con questo senso ostile alla vita». Ancora la parte centrale del volume (Il seme ferito, dedicata a Dino Campana) assume questa visionarietà allucinata e aggressiva, con la «figura scarna» di Sibilla Aleramo, «incandescente e impura», che risponde all’amore malato del poeta toscano: «Milioni di volte ho atteso / che tu vuotassi la mia sacca gonfia, / placassi il mio tremore cervicale»; e ancora «Sapessi che voglia di ucciderti avrei». Tuttavia, nelle due sezioni successive (Tre quadri e Tre ladri) la tensione febbrile dei versi sembra diluirsi in una classicità più blanda, meno incisiva, meno rabbiosa; quasi che il male non venisse più riconosciuto come invincibile, assoluto dominatore dei destini umani. E invece risorge imperioso nell’ultimo capitolo del volume, L’ortolano di Balzac, ritratto impietoso e impressionante della malevola figura di un negoziante di frutta e verdura, lercio nel corpo e nell’anima («Zoppo o storpio chiamalo / macilento», «la palpebra di un occhio pendula», «narrano che abbia commesso / un efferato crimine»), padre padrone di una famiglia tarata, infetta dalla volgarità e dalla bruttura, che con la sua bassezza inquina l’atmosfera di un intero rione. Non sempre la poesia consola, l’aveva già insegnato Baudelaire: ma a volte sa sollevarsi anche nella descrizione della negatività.

«L’immaginazione» n. 261, marzo 2011

POESIE

LITANIA PERIFERICA

È ancora buio quando mi alzo
e spalanco le imposte sul sagrato,

butto ai gatti del cibo, poi scalzo
mi inginocchio a pregare, grato,

«mio Signore e mio Dio», come Tommaso
per un giorno da inventare tutto mio

(sacro per fede o dannato per caso;
rischio e peccato): purché sia io

a decidere, prego, se salvarmi
o bruciare nella colpa; io.

Chiedo davanti al letto di farmi
santo, davanti al muro bianco,

poi veloce mi lavo mi vesto, stanco
già di primo mattino, troppo presto.

Scendo le scale, scaldo il latte
e ripeto ogni pensiero ogni gesto

ogni giorno. La cucina è fredda,
è sola come me, e mi spingo «Vattene

in chiesa che è la tua casa vera».
Ma come buia gelida. Dall’altare

che preparo con candele di cera,
–  bianchi teli, acqua, vino, pane –

osservo entrare poche donne, vecchi,
sempre le stesse facce, uno spretato

pentito, con in mano fiori secchi
da infilare in un vaso, impacciato.

Poche frasi dico, all’omelia,
incoraggio a una giornata piena

di buona volontà, che sia
donata all’Altissimo, e serena.

«Mio Signore e mio Dio», chiedo
venia della mia scontentezza,

della paura, del bene che intravedo
e non so perseguire con saldezza.

Poche facce rugose mi osservano:
quanto importi a loro di Cristo,

se quello che predico serva
non riesco a intuire, e non insisto.

A messa finita si intrattengono
nei banchi, raccontandosi fatti

e misfatti del paese, escono
malevoli ma benedetti, compatti

nello scordare il cielo, il sole.
Mi fermo a scambiare due parole

col postino, col vecchio maresciallo,
su chi vive chi muore chi tradisce:

uno cambia mestiere, l’altro giallo
di invidia calunnia e ferisce.

Mi offrono il caffè nel bar centrale.
Sono il notaio, un commercialista,

l’artigiano arricchito, il dentista.
Ridono, parlano, dicono male

delle mogli degli altri, di ragazze
disperate, perdute, forse pazze.

Scommetto che non sanno più baciare,
fare una carezza, dire “amore”.

Scommetto che potrebbero tremare
se solo una gli sfiorasse il cuore

con lo sguardo, ma hanno paura;
cerco con gli occhi un po’ di azzurro fresco

di una sognata, tardiva primavera,
invece è ottobre, nebbia e brina

sui prati, già freddo da galera.
«Mio Signore e mio Dio», dov’è nascosto,

tra le nubi, gli intonaci, nel fango.
Facesse un segno, mi desse una risposta,

a me che corro, spero dispero: piango.
Ma sta zitto anche lui, e tace tutto

e non so cosa fare in queste ore
di mattina, che non c’è un lutto,

confessioni, estreme unzioni, niente.
L’oratorio deserto, anche la sacrestia.

Potrei forse trovare qualcuno all’osteria
del gallo, ma poi dicono che bevo.

Torno a casa, mi sistemo in poltrona
a scegliere brani e letture che devo

proporre alla festa della santa patrona.
Se venisse mia sorella a prepararmi

il pranzo, brontola sempre, sbadiglia
che era meglio per lei assicurarmi

un pasto caldo, un letto in famiglia.
E’ una tortura, ma intanto avrei una donna

intorno, una voce, una presenza:
invece questo vuoto, quest’assenza

a cui penso, che sfioro con mani di sogno
ad occhi aperti, somigliante alla Madonna

della prima cappella a sinistra.
Così l’avrei scelta se avessi potuto,

la mia assente dalla voce di velluto.
Mi scaldo il riso dell’altra sera,

e mangio e bevo con la tivù accesa
dopo un segno di croce fatto in fretta

con lo sguardo incollato allo schermo,
spietato in immagini del mondo

senza dio, o con un dio che è fermo,
lontano dalla vita maledetta.

«Ma muoviti, intervieni, fatti vivo.
Cosa prego altrimenti, come scuso

l’inscusabile male, il male assurdo,
se non c’è una ragione, un motivo…»

Mi addormento sul popolo curdo,
sullo Zaire e le intercettazioni.

Ho le prove delle prime comunioni
alle quattro, alle cinque l’incontro

con il gruppo degli adolescenti
(a guardarli come sono irrequieti, scontenti,

senza idee, senza scogli né slanci,
vien voglia di frustarli, o accarezzarli).

Poi di nuovo una messa, poi la cena
quasi sempre aspettando un invito

che non viene, e sulla schiena
la fatica del giorno finito.

Il rosario per poche vecchine
assonnate, per le altre beghine

così incattivite negli occhi, nei
bisbigli votivi ai defunti e agli dei.

Infine ancora solo, o finalmente;
fuori la notte e dentro, se non fosse

che in fondo al cuore, in fondo alla mente,
in un sospiro, in un colpo di tosse,

c’è quest’ansia del nulla, del tutto,
di farmi testimone di Cristo

per essere quello che voglio, che vuole,
non più quello che fingo. Sono, esisto.

Dieci minuti veri nella cappella
a sinistra, con la madonna, i santi,

il crocefisso, dieci minuti suoi.
Ed è sfiatato, è innamorato

il segno di croce che tento
«mio Signore e mio Dio», per quanto

indegno e umilissimo servo, io.
Io.

 

In Litania periferica, Lietocolle, Faloppio 1996, in Litania Periferica, Manni, Lecce 2000 e in Tre Libri, Il Convivio 2025.

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