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RECENSIONI

FRENE

GIOVANNA FRENE, IL NOTO, IL NUOVO – TRANSEUROPA, MASSA 2011

«Mi piace pensare a questo testo come a un’opera di poesia della storia», scrive Giovanna Frene a commento di questo suo denso, severo, impegnato contributo poetico. Poesia della storia e non sulla storia, quasi a mettere tra parentesi il suo ruolo di voce sola e celebrante, in favore di una testimonianza più collettiva di sdegno e denuncia. Un libro particolare, il suo, di un’originalità esibita e orgogliosa, non solo formale e contenutistica. Nella proposta editoriale, in primo luogo, della coraggiosa casa editrice Transeuropa, che affianca ai testi proposti nella collana  Inaudita  anche un allegato multimediale (in questo caso, un cd del gruppo POEMS). Nella veste grafica, che intervalla i versi con fotografie newyorkesi di Laura Callegaro, e accompagna ogni poesia con la traduzione in inglese. Nella prefazione di Paolo Zublena e nella postfazione di Silvia De March, entrambe dottissime ed esploranti tutti i collegamenti filosofici, psicologici e letterari interni al testo. Soprattutto poi nei rimandi culturali sottesi, stratificati in ogni pagina della plaquette, che richiamano i nomi basilari del pensiero novecentesco (Braudel, Deleuze, Arendt, Benjamin, fino al nostro Severino) e che rendono ogni parola poetica radicata nel terreno scabro, risentito e recettivo della coscienza civile e ideologica del secolo appena trascorso. Una poesia, questa di Giovanna Frene, assertiva, dura, compatta: concentrata sul tema del male, come si prospetta non solo metafisicamente, ma nel suo concreto operare storico. Il male come “skàndalon” intollerabile, e pure troppo spesso accettato pavidamente, non contrastato nell’operare quotidiano dei popoli e dei singoli. Un male che nei millenni si è fatto guerra, strage, terrorismo, pulizia etnica: quasi sempre senza capacità di redenzione e riscatto, senza prospettive di speranza e riparazione: «ma è mai esistito un tempo buono, inenarrabilmente / buono, aperto a conchiglia verso ogni futuribile possibilità che esista anche / solo un frammento diverso / attorno a cui germinare?».

Male che si è concretizzato nella storia «dal Giordano alla Vistola», dai lager nazisti a Ground Zero, lontano da ogni giustizia e giustificazione, che pesa con la sua crudele gratuità anche solo nella possibilità di nominarlo; il male provocato, ad esempio, dalle armate di Giovanni dalle Bande Nere, che poi si ritorce contro lui stesso, uccidendolo di cancrena a ventotto anni. Gli eccidi degli eserciti di ogni tempo sono «una piccola macelleria simulata / sopra un prato ridente e fuggitivo»: e l’ironia spiazzante dell’utilizzo di echi leopardiani diventa scherno, orrore esacerbato. Allora l’innocenza della natura, «il fruscio d’ali, va all’incontro con il marchio di esistere, / si interseca al vertiginoso concrescere botanico e sociale / per le chiare ragioni che non guarda negli occhi lo sguardo». Non sembra esserci salvezza, sollievo dal dolore, in questi versi che si rincorrono ansimanti, spezzati, lunghissimi e perentori. A volte chiusi in parentesi, in virgolette, in rettangoli che ne sottolineino la violenta icasticità. L’evento narrato non è mai grazia, illuminazione, riabilitazione: «l’occidente comune della morte non muta, tagliato / il fiume, il gesto bruciato, da flutti apparenti presto spento il fuori-posterità». Non c’è un dopo, in queste poesie di Giovanna Frene: tutto viene azzerato in una combustione immediata di senso e di immagini: «non è l’eccezione che si pensa, la schiuma che ingoia il mare. / non si scava la fossa, questo tornare irrevocabile, / inimmaginabile, calpestato, trito dai sassi…». E ancora, in un impotente grido di ribellione contro il moloch che ci assedia e deturpa tutti, e macina ogni storia: «forza, o carne di potere, o tutto-potere, o vita che deriva dalla vita; / da ciò deriva la simulazione, la nostra vera imposta fine».

 

«Leggendaria» n. 102, novembre 2013

RECENSIONI

FROLLA’

ROSSELLA FROLLA’, IL SEGNO DELLA PAROLA – INTERLINEA, NOVARA 2012

L’ideologia sottesa a questa antologia di poesia contemporanea curata dalla giovane studiosa Rossella Frollà non tenta in nessun modo di mascherarsi o di annacquarsi in diplomatiche posizioni di comodo, ma si rende orgogliosamente esplicita sia nell’introduzione, sia nelle approfondite ed esaustive presentazioni di ogni autore. Privilegiando una «poesia come spazio individuale e soggettivo nelle sue diverse linee e curvature che simboleggiano l’Essere», Frollà dichiara apertamente il suo credo, più etico che estetico, in affermazioni sparse e diffuse in tutto il volume, talvolta fraintendendo o decisamente violentando l’intenzionalità stessa dei poeti presi in esame: «La tenacia dell’uomo, la sua vitalità è nello Spirito che non tiene in alcun conto il suo involucro, il corpo, e contrappone a questo guscio custode della precarietà della vita l’immanenza di quell’amoroso senso che è la parola ultima dei sentimenti, delle emozioni e delle pulsioni che mai abbandonano l’uomo. Eterni galleggiano a fior d’acqua sopra il tempo eros e amore, gioia e dolore, fatica e passione (pag.121)».

La parola poetica viene quindi esaltata nel suo significato assoluto ed epifanico, di mistica rivelazione della misteriosa e tragica bellezza dell’esistente: «Il miracolo che si compie col suono e con la parola è quello di rendere l’ordinario o un qualsiasi evento un qualcosa di prodigioso e di straordinario che ci riconsegna il valore ultimo delle cose» (pag.15). Quindi la terminologia utilizzata dall’autrice rivela senza equivoci la sua evidente propensione ad una interpretazione spirituale della realtà e della letteratura: levità, autenticità, ricerca, anima, luminosità, prodigio, incanto, quiete, saggezza, miracolo, vulnerabilità, stupore, sorpresa, bellezza, natura, pensiero, sono i vocaboli che più si rincorrono in queste pagine. Con una presenza quasi ossessiva del sostantivo francese «rêverie». Sottolineando un polemico distanziamento dal «nulla di un gusto medio livellato da una cultura commerciale mediatica di massa», Rossella Frollà ignora volutamente tutta la ricerca sperimentale della poesia contemporanea che privilegia il significante sul significato, ma anche la poesia e la critica che più si compromettono sul fronte dell’impegno sociale e politico, del giudizio morale sulla storia e sulla cronaca, o che al contrario utilizzano giocosamente il divertissement e l’ironia. Una scelta di campo e di fede precisa, la sua, che si concretizza nella presentazione selezionata di dieci nomi, offerti ai lettori con un’ampia antologia di versi editi e inediti, prefati da dense, ammirate e affettuose pagine di critica. Si va quindi da Franco Loi, il più anziano («tonalità prorompente con sonorità popolari mescidate a un Io lirico quieto e delicato, di vena espressionista e dantesca»), attraverso il compianto Fabio Doplicher e alla «geografia del mito» di Umberto Piersanti, percorrendo «l’amore faticoso della vita… in un dettato lirico asciutto e chiaro» di Maurizio Cucchi, e «la ricerca spasmodica e rovente della perfezione» di Milo De Angelis, per approdare alla poesia «giocosa e scalza, fiorita, … lineare come il chicco di grano» di Claudio Damiani e «alla lirica presente al suo tempo… che gode di una spontaneità mai troppo fantastica, ma si posa come rosa fresca sulla strada» di Davide Rondoni. Il volume si chiude con i versi del più giovane Alessandro Moscé (Ancona 1969), «un sognatore che afferma la propria esistenza attraverso immagini oneste», ma si sofferma anche sull’unica presenza femminile antologizzata, Giovanna Rosadini. Di lei si riporta una bella poesia dedicata ai figli («Eccoli, nei loro giorni che si mangiano/ i nostri, luminosi e levigati come anche noi/ siamo stati…»), con altri versi segnati dalla sofferenza fisica dovuta a un tragico incidente («Ma perché io, mio dio, perché a me, proprio io?»), fino a prove inedite, foriere di un auspicabile sviluppo futuro, dedicate al mondo e al linguaggio ebraico. E forse la scelta più originale, nelle proposte di Rossella Frollà, è quella di un poeta riservato e sottovalutato, quale Giancarlo Pontiggia, di cui si sottolinea «il verso lontano da ogni contaminazione contemporanea…colto e raffinato, di matrice aristocratica», ben evidenziato in proposte di alta resa stilistica come questa: «Niente è più arduo di ciò che appare / semplice, affondando in un ginocchio / che sanguina, o nella polvere di un viottolo / che si curva per sempre, verso // un altro confine, quando / un fumo indiano sale, nell’aria / spessa e odorosa, e già diviene potenza / di una nuvola sposa».

Se quindi Rossella Frollà ha l’onestà di rivendicare fieramente la propria visione ideologica, indicando esplicitamente quali sono i fini e i confini in cui secondo lei deve muoversi la poesia («I poeti presenti in questo libro sono animati da un dettato profondo e quasi totalizzante della vita, lo stesso che ha reso autentico il mio interesse verso la massima centralità del testo»), forse pecca per alcune ingenuità espressive e involuzioni sintattiche che spesso inficiano la credibilità della sua lettura critica, come ad esempio nelle pagine 268-271, in cui l’entusiasmo recensorio trascina l’autrice verso considerazioni scarsamente condivisibili, anche formalmente.

 

«criticaletteraria», 2 dicembre 2013

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INSANA

JOLANDA INSANA, TURBATIVA D’INCANTO – GARZANTI, MILANO 2012

Le sei sezioni di cui è costituito l’ultimo libro di versi di Jolanda Insana risultano assolutamente omogenee nell’esibire una provocatoria, esacerbata violenza di immagini e tonalità; un linguaggio che si squaderna incalzante e scorticato, contorto, dissacratorio, privo di qualsiasi punteggiatura che non sia il punto di domanda; strofe disuguali e graficamente distribuite tra caratteri corsivi e tondi; un rincorrersi esaltato tra sensibilità civile e politica da una parte e egocentrica, insuperbita assunzione del privato dall’altra. Una poesia che si infossa, intorcigliata, sbaragliata, gracchiante – per usare alcuni degli attributi presenti nel primo poemetto-, a indagare «la vita offesa che cerca la verità»: offesa, ma anche malata, rabbiosa, atterrita, inabissata. Che affronta le tragedie di una storia universale di distruzione e imperdonabile ingiustizia (dalle alture del Golan all’Afghanistan, da Gerusalemme risalendo fino al bombardamento di Dresda, a un mortificato ecologismo sconfitto): ovunque dove «scortati e scortatori / finiscono nelle reti dei pescatori». Ma soprattutto grida il suo spasimo furioso, bilioso, quando «battibecca / con il suo doppio condiscendente», un alter ego odiato e svillaneggiato, un’ombra femminile onnipresente e castrante: forse la vicina di casa del piano di sotto, più giovane e più stupida, del tutto impermeabile alla poesia, alla cultura, alla storia («perché ce l’ha con me / e attenta alla mia vita?»). Con lei ingaggia un corpo a corpo arrabbiato, fatto di reciproche definizioni offensive («blenorragica e garosa», «sdrumata e sdrucita», «squinzia vampiretta sbollentata», «diabetica ipertrofica parabolante», «cachettica pelosa»). Si tratta di due solitudini rancorose che si confrontano in duelli verbali sarcastici e volgari, maledicendosi e oltraggiandosi, in una totale e ostentata incapacità di comunicazione, in un turpiloquio che oscilla tra la banalità del pettegolezzo condominiale e la sfrontatezza di farisaici processi ideologici. Droga, sporcizia, squallore quotidiano, sesso brutale: ciascuna figura diventa il fantasma ossessivo dell’altra («sei tu che ingrassi i miei dèmoni / stitica ulcerosa»), e all’ottusità intellettuale dell’una si oppone l’ambizione poetica insoddisfatta dell’altra («mi cammini sopra la testa / con gli scarponi chiodati / e urli notte e giorno / tu con le tue poesie / con la tua falegnameria»). Il ritratto della nemica è impietoso, si risolve in coppie di aggettivi contrapposti e crudeli (banale e boriosa, pelosa e segreta, razzista e oltranzista, frodolenta e imbonitora, sciancata e lazzariata, infibulata et sitibonda…), fino alla rivelazione finale, che è anche una confessione pentita, un’ammissione di colpa e sconfitta. L’altra sono io, la poesia crea i suoi spettri, incubi deliranti: «non c’era nessuno dietro la porta / l’alloggio era disabitato e l’ho abitato / ma non c’era e non c’ero / era il mio doppio disagiato / ora lo so e sloggio», «esce di scena l’azzoppata iena / muta e scriteriata / e più non urla ti faccio guerra ti spacco». Un turbamento, una turbativa che sa di sfida illegale, di compiaciuta provocazione, di letteraria sobillazione.

 

«Leggendaria» n. 95, settembre 2012

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IZQUIERDO

PAULA IZQUIERDO, LE AMANTI DI PICASSO – CAVALLO DI FERRO, ROMA 2014

Questo libro, uscito in Spagna nel 2003, e ripubblicato in seconda edizione quest’anno dalle edizioni Cavallo di ferro, ha un sottotitolo esplicativo e polemico: Quando il genio diventa crudeltà. E in effetti, leggendo la biografia di Picasso “sub specie amorum”, si rimane impressionati dalle capacità onnivore e feroci, fin quasi a sfiorare il sadismo, delle sue prestazioni sessuali e sentimentali, ripercorse qui dall’autrice con l’intento di offrire spessore al profilo delle donne che lo amarono. «Quale misterioso magnetismo fece sì che tante donne impazzissero per lui, accettassero la sua tirannia, i suoi sbalzi d’umore, il suo disprezzo, compresa la persecuzione, fisica e mentale?», si chiede (e noi con lei) Paula Izquierdo. E quindi le racconta, nei capitoli dedicati alle tredici più rilevanti, sorvolando sulle centinaia di incontri occasionali, nei bordelli o in avventure trasgressive, negli ossessivi tradimenti, nelle ostentate e trionfanti seduzioni, e soffermandosi invece sulle raffigurazioni pittoriche, scomposte, violente, morbose, allusive, spesso vendicative. Uno sguardo magnetico, una personalità travolgente, quella di Pablo Picasso: ma anche frequentemente travolta e sconvolta dalle presenze femminili della sua vita, se è vero che «ogni donna che conobbe lo colpì talmente da fargli cambiare lo stile della sua pittura». Ciascuna amante suscitò nel maestro un entusiasmo creativo febbrile, e subito dopo il desiderio compulsivo di distruggere brutalmente il suo sentimento e la persona che l’aveva provocato. «Le donne devono essere passive e sottomesse… le donne sono macchine per soffrire», affermava provocatoriamente. Tre delle sue compagne lo resero padre quattro volte, due lo sposarono, due si uccisero dopo la sua morte: avvenuta a 92 anni, in piena e vivace attività creativa, in un corpo a corpo con la pittura, che per lui fu sempre e fino alla fine metafora del corpo a corpo divorante con il desiderio sessuale.
Le donne di Picasso narrate dalla Izquierdo assumono spesso le sembianze di menadi ossessionate, pronte sia ad immolarsi che ad immolare: ma almeno due di loro non si riducono al ruolo di amanti. La madre Maria, che lo ebbe nel 1881 a Malaga da un pittore di scarso talento, José Ruiz, di cui Pablo disconobbe persino il nome, preferendogli quello materno; e la sua mentore-protettrice Gertrude Stein, che lo aiutò economicamente e lo introdusse negli ambienti culturali e artistici parigini. Il primo amore fu Fernande Olivier, con cui divise la dimora del Bateau-Lavoir, una vita bohèmienne, l’abitudine all’oppio e una reciproca estrema gelosia. A lei seguì la giovane Eva Gouel (“ma jolie”, come la chiamava il pittore), morta precocemente di cancro. Quindi una girandola di artiste, cabarettiste, prostitute, fino alla sofisticata ballerina russa Olga Koklova, che sposò nel 1918 e che gli diede il primo figlio Paul. Si separarono nel 1935, dopo una convivenza tormentata da litigi ed eccessi, quando Picasso conobbe l’ingenua Marie Thérèse Walter, ancora minorenne, di cui fece una sorta di schiava sessuale, iniziandola a pratiche sadomasochistiche. Marie Thérèse partorì la secondogenita di Picasso, Maya; a loro il pittore rimase comunque teneramente affezionato anche dopo averle abbandonate, al punto che ricorreva alla compagna persino per farsi tagliare capelli e unghie, obbligandola a conservare questi suoi preziosi reperti fisici poiché temeva superstiziosamente che qualcuno potesse con essi fargli una fattura. Quindi fu il turno di Dora Maar, forse l’unica presenza femminile intellettualmente all’altezza del maestro, fotografa che testimoniò le varie fasi della creazione di Guernica. Successivamente arrivò Françoise Gilot, madre di Claude e Paloma, di quarant’anni più giovane: fu l’unica donna che lo lasciò, nel 1954, stanca dei suoi continui tradimenti. Dopo una lunga parentesi di vita in comune con la studentessa Geneviève Laporte («Con lei, tutto è dolcezza e miele. E’ come un alveare senza api»), Picasso conobbe la sua seconda moglie, a 72 anni (lei ne aveva 27): Jacqueline Roque, con cui visse l’ultima parte della sua vita, forse la più serena, e per cui dipinse quasi duecento ritratti. Anche Jacqueline, come già aveva fatto Marie Thérèse, si uccise dopo la morte del «suo monsignore».

 

«Leggendaria» n.106, luglio 2014

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LIBERALE

LAURA LIBERALE, MADREFERRO – PERDISA, BOLOGNA 2012

La seconda prova narrativa della poetessa e indologa Laura Liberale, dopo l’originale romanzo Tanatoparty del 2009, viene definita dalla quarta di copertina «un racconto magnetico, colto e suggestivo, sul passato che riaffiora tra memoria e mitologia», e sembra avere ancora una volta come origine e confine ultimo una sofferta, angosciata, rancorosa meditazione sulla morte. Morte intesa non solo come limite dell’esistenza personale, sempre ingiusto e doloroso, ma anche come “finis mundi”, tragedia storica e culturale, violenza e sopraffazione del più forte sul più debole.
La protagonista di queste pagine è una giovane studiosa che torna al suo paese d’origine in Piemonte dopo sette anni d’assenza e la tragica scomparsa dei suoi genitori, nel tentativo di ricomporre non solo le lacerazioni della sua anima, ma anche la trama di un tessuto familiare slabbrato, inciso da angherie mai del tutto comprese e sempre ritenute ingiustificabili, imperdonabili. Il paese si chiama Fabrica; è «un paese vampiro che passa indenne attraverso la storia», sopravvissuto nei secoli con gelida indifferenza a carestie, epidemie, invasioni, due guerre mondiali e alle recente, invasiva ed economicamente onnivora immigrazione cinese. Alla ricerca di se stessa, nella rivisitazione dei traumi infantili che l’hanno resa sostanzialmente «estranea, esclusa» alla mentalità farisaica dell’ambiente che l’ha vista crescere, Laura appunta su un diario lungo un mese sia la materialità delle sue giornate, con gli incontri-scontri quotidiani (un vecchio, rassicurante e banale fidanzato; l’unica zia novantenne, animata da «una costante d’infido, di paludoso… di furbizia e insaziabilità»; i notabili del luogo, compresi in una loro assurda e ottusa rispettabilità) e con le rivisitazioni di luoghi sempre lugubri e minacciosi (cimiteri, ospizi, edifici abbandonati e diroccati), sia le divagazioni fantastiche, gli incubi, le improvvise e abbaglianti rivelazioni di un inconscio soffocato per anni.
Realtà e immaginazione si susseguono e compenetrano nel testo, ma ben individuabili anche da una diversa impostazione grafica del narrato. Guidata nei suoi labirinti mentali e fisici dai disegni di un album ottocentesco, quasi unico lascito di un’eredità trafugata da parenti infidi, Laura ripercorre boschi e radure, sulle tracce di divinità celtiche e streghe bruciate, diavoli e ossessioni collettive, riti blasfemi e feste patronali, adolescenti scomparse e stupri inenarrabili, cancrene marcescenti nel fisico e soperchierie negate collettivamente. «Venire qui è arrendersi ai simboli», afferma la protagonista, intenta a rincorrere fantasmi, a riscoprire il proprio «destino necroscopico». Soprattutto poi a fare i conti con «il seme gramo dell’ascendenza femminile, il mito appreso e indiscusso: insania, collera, odio, frustrazione, ottusità, potere». Per indagare in se stessa, senza alcuna pietosa indulgenza, le tracce genetiche di un «matriarcato potente e invasivo… fatto di estremi: orchesse e sante», in una linea che partendo dalla nonna e dalla madre, sottomesse, docili, sacrificate, che mai si potranno emulare, arriva a zie e prozie megere, prevaricanti, che mai si potranno perdonare.
L’infanzia è allora un sogno infausto da cui fuggire, con l’immagine drammatica del primo mestruo inarrestabile e vergognoso, con il rimorso per un incidente provocato a un piccolo amico che rimarrà deturpato per sempre, con le voci gracchianti delle vecchie che recitano il rosario. Il ritorno alle origini quindi non offre nessuno scampo, e in una scrittura lucida, secca, inclemente come le storie che racconta, Laura Liberale sottolinea la sua inesorabile condanna: «Non mi sono mai spostata da qui. Mai».

 

«Leggere Donna» n.159, aprile 2013

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MANCINELLI

FRANCA MANCINELLI, MALA KRUNA – MANNI, LECCE 2007

Mala kruna significa “piccola corona di spine”, ed è un titolo che ben esprime il dolore sottile e penetrante che pervade ogni pagina del primo volume di poesie della poetessa marchigiana Franca Mancinelli (1981), edito da Manni nel 2007. Sia i due versi danteschi che fungono da esergo, sia la composizione iniziale, con il suo mare tormentoso, il vento, l’isola, la madre nera vaticinante e «un cattivo tempo che non faceva / partire le barche», introducono al sentimento di rassegnata e consapevole tristezza che costituisce la nota dominante, il basso continuo del libro. I versi «essenziali, incisivi, affilati» ribadiscono con ostinata asciuttezza il senso di perdita e di abbandono che l’autrice patisce sulla propria pelle dall’infanzia: «anni che perdono parole / dalle mie dita aperte», «come dondola il mondo e le cose / di nuovo tremano, anch’io / sarò nel buio», bambina segnata forse da una separazione o da una lontananza, o semplicemente da quel di più di sensibilità che le permetterà, diventata adulta, di trovare una sua ricomposta consolazione proprio nella poesia. La ferita patita nei primi, decisivi, anni di formazione rimarrà comunque a lungo nel rapporto con la natura, con gli amori, con se stessa. Il paesaggio marino viene fissato negativamente («sale solidificato», «gusci morti», «schianto sullo scoglio»). Il sentimento amoroso vive in una sostanziale estraneità e incomunicabilità dei corpi («vieni negli anni muti, mani premute / sulle labbra, il corpo perso», «quale piaga insieme siamo / distanti // solo arsa saliva pesto petto», «insieme / staremmo come due cucchiai riposti / asciutti nel cassetto», «in una piazza ci sfioriamo / le lingue come gambi senza fiore»). Ma è soprattutto la visione di un sé mai riappacificato che rivela la cicatrice lasciata dalla «mala kruna», resa con indubbia icasticità e pregnanza da questi versi, impietosi, ripiegati sul proprio patire: «sono seduta in briciole», «chiudo le arterie e torno / monca alla vita», «mentre mi scucio e frano»», «sono / creta sul letto di un fiume di passi». Recentemente, versi inediti di Franca Mancinelli, tratti dalla raccolta «Pasta madre», sono stati pubblicati nell’antologia Einaudi Nuovi Poeti Italiani, 6. La più giovane delle poetesse qui proposte, riconferma la sua voce consapevolmente sicura e decisa, un’originalità di timbro poetico che ne fa certamente un nome di rilevanza nazionale nel panorama della nuova poesia. In questa sua ultima prova editoriale, i versi si impongono al lettore asciutti e concreti, e sempre animati da uno sguardo inclemente sul mondo e chi lo abita: esseri umani, animali, vegetazione (e pensieri, e sentimenti). Rami e foglie, frutti e semi, alghe e fieno, uccelli e bisce, insetti e gatti diventano sangue e pelle umani, si trasformano in una metamorfosi continua che cerca redenzione e salvezza in qualcosa d’altro, in uno scambio perpetuo e ciclico di vita: «lasci la pelle sul lenzuolo / come una biscia al cambio di stagione», «Dovrai seppellirti / tornare calda radice», «bocca che passa calore / all’aria come potesse svegliarsi / essere ancora salvata», «ti corrompi come cibo», «sugli occhi rinserrati le formiche / al posto delle ciglia». Una poesia impastata di fisicità, calda di una matrice assolutamente femminile e materna, ma anche in grado di tagliare con secca precisione qualsiasi cordone ombelicale. Difficile, infatti, trovarle degli antecedenti, dei richiami a collaudate tradizioni novecentesche. Non ci sono concessioni facili a rime o assonanze, nessun gioco di prestigio linguistico, calembours, pastiches, sperimentalismi vacui. Ogni verso sembra calato nell’obbediente fedeltà a un pensiero, quasi con etica severità. Così anche quando viene rispettata rigorosamente la metrica (due settenari e un endecasillabo), il lettore non si trova remunerato da alcuna musicale consolazione formale, perché il significato, il messaggio suggerito sovrasta con la sua asseverativa durezza la delicatezza del segno: «qualcosa in noi respira / soltanto nel trasloco: / gioia per ogni terra cancellata». Un’autrice, Franca Mancinelli, che è ormai più che una promessa, e di cui è bello riportare qui, a conclusione di questo limitato ritratto critico, la splendida poesia iniziale della raccolta, perfettamente calibrata nello stile e nel contenuto: «Cucchiaio nel sonno, il corpo raccoglie la notte. Si alzano sciami sepolti nel petto, stendono ali. Quanti animali migrano in noi passandoci il cuore, sostando nella piega dell’anca, tra i rami delle costole; quanti vorrebbero non essere noi, non restare impigliati tra i nostri contorni di umani».

 

«Fermenti» n. 239, gennaio 2013

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MONTANARI

GABRIELLA MONTANARI, ARSENICO E NUOVI VERSETTI– LA VITA FELICE, MILANO 2013

Il poeta e critico letterario Lino Angiuli, nell’introdurre questo «urticante» volume di versi di Gabriella Montanari (Lugo di Romagna, 1971), parla di «intenzione non sublimatoria ma ‘bassa’, ovvero provocatoria e sovversiva, dell’intera raccolta». E ancora di «reattività fino alla rabbia, corporalità fino all’esibizionismo, diversità fino all’antipoesia, lotta senza quartiere verso le mosse perbenistiche e autopromozionali dell’io lirico». Una poesia, quindi, che percorre un itinerario decisamente trascurato dalla vena petrarchesca, intimistica, oracolare, ermetizzante della nostra produzione letteraria più in voga, e invece assume spavaldamente, sprezzantemente, i toni insofferenti alle regole, sarcastici e “maledetti” sulle orme di un Bukowski («di certo c’è / che a Bukowski / una botta gliel’ avrei data, di sicuro»), per risalire – attraverso Villon – fino al nostro sghignazzante Cecco Angiolieri. Gabriella Montanari si fa ironicamente beffe di qualsiasi tronfia ispirazione poetica “alta”, di ogni atteggiato versificatore à la page: «i versi seguono le mode e la domanda di mercato, / si attengono al formato e ai criteri editoriali, / non sgarrano, non dicono una parola di troppo, / profondi perché incomprensibili, sublimi se lo decreta l’Arnoldo // l’orifizio anale non è degno di menzione, / la vita va bene finché non sporca / e a forza di ermetismo e introspezione / vien voglia di scalfire, sverginare / non per posa, ma per amore».

Ma non c’è solo la tradizione letteraria nostrana nel suo target: il feroce e liquidatore arsenico a cui allude il titolo del libro è riservato a qualsiasi aspetto della vita in cui l’autrice si trova impazientemente e rancorosamente costretta: dal «fottutissimo padre padrone» che l’ha messa al mondo, ai parenti morti («la tipica puzza di salma / il tanfo cimiteriale»), alla stupida dirimpettaia diventata madre controvoglia dopo goderecci bagordi, al pontefice («per terra c’è un profilattico esausto / e io mi interrogo sull’utilità del papa») e alla religione tout court («il paradiso è un morso in un tartufo d’alba / il purgatorio, il risveglio dopo una sbornia / l’inferno, il frigo vuoto»), in una sua personale teologia più blasfema che eretica. Nemmeno la natura, nella sua innocente bellezza, si salva dal furioso cupio dissolvi della poetessa («spasmi di pesce rosso a corto d’acqua, / l’ananas immaturo / col suo pennacchio sprezzante, / le banane turgide / come peni con l’ittero», «fuori i gabbiani abbaiano da almeno un’ora / o forse gracchiano», «la battigia è uno sfacelo di meduse, / un mattatoio di granchi e murici dissanguati»), e persino gli innocui e silenziosi libri si meritano velenosi insulti: «inerpicati sugli scaffali / mi ossessionano con le loro facce da campioni d’incassi… // cos’ avranno mai avuto da dire di tanto speciale… / tanto, prima o poi, li vendo al chilo». L’amore stesso è finzione, presa in giro, perdita di tempo e tutt’al più scambio di liquidi o tempesta ormonale: «L’ho accettato come un inevitabile contrattempo. Così come si accetta il ciclo mensile, il tacco della scarpa che nella corsa si spezza o la carta igienica che manca sul più bello», e il sesso «ha il soffio corto dei coiti clandestini / e delle sveltine da divano immondo». Il lettore può ritrovarsi sconcertato o addirittura divertito da questo allegro e rabbioso vorticare di vesciche, genitali, sigarette, birre, obitori, scopate,
maledizioni, sperma: mai scandalizzato, tanto provocatoriamente eccessiva è l’immagine che la poetessa tende a dare di sé («sputai contro le macchine / e pisciai in faccia ai passanti, / presi a sberle il cadavere di mia madre, / rinserii i figli nella placenta, / ritornai feto, spermatozoo ovulo e orgasmo»), ossessivamente insultante anche contro la sua stessa scrittura: «Pisciare, scrivere. Lo stesso sfogo appagante, la soddisfazione di un bisogno impellente». Al punto che chi legge questi versi finisce addirittura per dimenticarsi di valutarli esteticamente, travolto com’è dalla sardana di tanta esplicita fisicità.

 

«L’Immaginazione» n. 276, luglio 2013

RECENSIONI

VELADIANO

MARIAPIA VELADIANO, IL TEMPO E’ UN DIO BREVE – EINAUDI, TORINO 2012

In questa sua seconda prova narrativa, sempre edita da Einaudi dopo il successo ottenuto con La vita accanto, la scrittrice trentina Mariapia Veladiano torna ad esplorare con attenta sensibilità e generosa empatia l’animo femminile: i suoi trasalimenti e la scalfibile partecipazione alla vita, gli abbandoni e le caute adesioni alla fisicità, l’immersione nella natura e l’aspirazione a una ansiosa spiritualità. Protagonista del romanzo è una giornalista laureata in teologia, che lavora nella redazione di una rivista cattolica: stimata dal direttore, ma osservata con qualche diffidenza dai colleghi a causa della sua mai placata inquietudine religiosa. Il dubbio che angustia Ildegarda (nome che esplicitamente fa riferimento alla nota mistica tedesca medievale) riguarda l’esistenza del male nella vita degli esseri umani, e la sua giustificazione divina: rifacendosi all’ “unde malum?” agostiniano, alla teodicea di Leibniz, alla riflessione filosofica contemporanea (così pienamente indagata dal nostro Luigi Pareyson), l’interrogazione che lacera la coscienza della donna riguarda l’impotenza o la non volontà di Dio di opporsi alla sofferenza innocente, al dolore incolpevole dei giusti e dei bambini («Il silenzio di Dio davanti al male mi devastava»). E questo assillo della protagonista viene in continuazione messo alla prova dalle circostanze, decisamente tormentate e infelici, della sua esistenza. In primo luogo dal matrimonio con l’aristocratico e anaffettivo Pierre («la sua tristezza inviolabile», «il suo pessimismo doloroso e intoccabile»), incapace di provare qualsiasi sentimento nei confronti della moglie e del figlio, costretto a scegliere una fuga indecorosa e silenziosa a Londra, pur di non affrontare le sue responsabilità. Ildegarda scoprirà molto tardi e fortuitamente che l’assenza del marito andava attribuita, più che a rovelli intellettuali ed esistenziali, a una mai confessata relazione con una collega di lavoro e amica di famiglia. La stessa convivenza con i parenti di lui, in una gelida e nebbiosa tenuta della pianura lombarda, è fonte per la protagonista di continui soprassalti di muto e inesprimibile dolore, di fredda incomunicabilità, di rabbioso rancore. A questa sofferenza di Ildegarda, che permea ogni pagina della sua vita e della narrazione stessa, non sa proporre alcuna tregua nemmeno l’esistenza del bambino Tommaso, tormentato alla nascita da una crudele dermatite («guardavo Tommaso e mi sembrava che la sua pelle rovinata fosse la prova straziante dell’inconsistenza di Dio»), quindi da una sorta di epilessia genetica che incombe sui suoi pochi anni indifesi come una minaccia invincibile. Ogni prova viene vissuta da Ildegarda con riferimenti costanti alla vita religiosa, ai testi sacri, ai riti, che sempre offrono consolazione, portando però anche nuovi interrogativi. Di fronte al suo bambino malato riappare la sofferenza della Vergine sotto la croce; nelle sue preghiere a Dio la contrattazione che Abramo propone all’altissimo per la salvezza di Sodoma; nei sogni ricorrenti l’eco dei sogni biblici; nell’aspirazione alla conoscenza la maledizione del Qoèlet… E quando finalmente la vita sembra poter tornare a fiorire, nell’incontro in montagna con un pastore protestante di Heidelberg (pure segnato da una storia di morte e abbandoni), ecco che di nuovo torna l’incubo del male ingiusto e inspiegabile, con la diagnosi di un inoperabile tumore annidatosi da tempo nel cervello della donna. La cifra narrativa del romanzo sembra tutta da leggersi in questa incombente atmosfera di angoscia, di lutto, di morte, a cui nessuno spiraglio di leggerezza e di serena partecipazione alla naturalità e alla bellezza dell’esistente sembra poter offrire tregua. Un dolore antico, pervasivo, connaturato quasi alla scrittura stessa dell’autrice: sorvegliata ed elegante, che tuttavia sfiora talvolta il manierismo, e sembra sempre vietarsi qualsiasi apertura alla gioia, al desiderio, all’invenzione o alla scoperta di quanto c’è di buono, dentro e fuori di noi.

«Il bilancio del bene e del male della mia vita è negativo…Al male non bisogna mai dare principio. Quando lo si è svegliato vive di vita propria, si moltiplica in proporzione dei buoni sforzi che si fanno per fermarlo, è una tenia che rinasce da ogni suo frammento».

E’ inquietante e malinconico osservare come anche il cristianesimo appassionato di Mariapia Veladiano tenda a circoscrivere fede, speranza e carità nei confini di un’illusione che non lascia scampo di fronte alle tenaglie del dubbio, alle seduzioni della negatività.

 

«Incroci» n.28, dicembre 2013

RECENSIONI

DAPUNT

ROBERTA DAPUNT, LE BEATITUDINI DELLA MALATTIA – EINAUDI, TORINO 2013

La seconda raccolta di versi che Roberta Dapunt (Badia, BZ, 1970) pubblica da Einaudi ha un destinatario-protagonista privilegiato, incarnato nella persona malata di Alzheimer di nome Uma: la mamma, forse, o la suocera della poetessa. Un’anziana, molto amata e rispettata, che ha perso i contatti con la realtà esterna, e con il suo stesso corpo («da un giorno all’altro / non hai più detto, non hai proferito, non risposto, non / hai capito»; «Mi sorridi e d’intorno sei sospensione del tempo, / un filo d’erba che ignora il suo prato»»; «Mi hai portato nella tua mancanza di suono»; «sempre è il lungo corso che passo vicino alla tua assenza, / ospite ininterrotta della tua demenza»). Ma questa madre antica che osserva il mondo senza vedere («dal tuo dove lontano»), in piedi immobile accanto alla finestra, o seduta in attesa del niente («io vedo il tuo viso, ascetico osservare, / è nudo accadere, poiché nient’altro ti circonda»), era stata un’ infaticabile lavoratrice dei campi, una forte donna di montagna, mater familias che radunava intorno a sé la sua gente per il rito quotidiano del pranzo («tra un segnarsi di croce e un altro»), o per il rosario serale, e per la Messa alla domenica.
Persona dalla fede rocciosa e semplice («tu che insegui l’Eterno in ogni preghiera //… Mai ti ho vista nel dubbio»; «fossi io la fede sceglierei te come fortezza»), viveva in assoluta e devota armonia con il suo ambiente («Ma qui, amabile luogo, qui niente accade, / tranne che ininterrotta un’umile esistenza»): monti innevati, prati, stalle, larici, abeti, e tranquillo silenzio. Un mondo scandito dai riti religiosi – Vespri, Quaresime, Pasque – che ora si ripropone in un’inedita beatitudine, ad aggiungersi a quelle evangeliche: la beatitudine della malattia. Roberta Dapunt, che vive e lavora nel maso di Ciaminades, racconta con la stessa fede dei suoi avi, ma con qualche interrogativo in più (soprattutto riguardo all’inadeguatezza della scrittura quando deve affrontare il dolore), la sua accettazione del servizio, inteso cristianamente come accompagnamento, vicinanza, fedeltà a chi soffre: e i suoi versi, indifferenti a stilemi letterari di metrica e ricerca linguistica, testimoniano la dedizione umile di chi ancora sa affaccendarsi come Marta, profumare il corpo come Maddalena, dissetare come la Samaritana («Chiamami quando avrai finito di lavarti. / Ti vestirò le calze, ho posto le pantofole ad aspettare / i tuoi piedi dalle dita intrecciate»; «Sono nella tua demenza il potere e la direzione, / l’autorità e la volontà egemonica»). Nella consapevolezza che «non ci è dato risolvere la fede», e che, come recitano gli Atti degli Apostoli, «c’è più gioia nel dare che nel ricevere».

 

© Riproduzione riservata             «Poesia» n.285, luglio 2014

RECENSIONI

CAVALLI

PATRIZIA CAVALLI, DATURA – EINAUDI, TORINO 2013

La recente raccolta einaudiana di Patrizia Cavalli, che offre al lettore componimenti piuttosto eterogenei (dai poemetti di più ampio respiro, a un pezzo teatrale, a brevi poesie amorose, fino agli epigrammi), si intitola ambiguamente Datura, oscillando nel significato dal participio futuro femminile del verbo dare (“che si darà”, nel senso forse di una generosa e imprevedibile eredità ventura), al nome di una pianta spinosa e medicinale, dagli effetti talvolta allucinogeni. Metafora della poesia? Proprio a questo vegetale, e ai suoi fiori notturni e profumati, rende omaggio l’ultimo poemetto del volume. Proibendosi qualsiasi retorica commozione, l’autrice individua la causa delle sue «lacrime spaesate» in oscuri fenomeni atmosferici, meteorologici, che agendo sulle «parti più segrete del cervello» provocherebbero «soltanto nostalgia che gira e si rigira / dentro il suo molto affaccendato niente». Fosche trepidazioni di morte ? «Ma io non voglio andarmene così, / lasciando tutto come ho trovato / in questa scialba geografia che assegna / l’effetto alla sua causa». L’ambizione del poeta è ben altra: «giocare alle parole / immaginando, senza un’identità, / una visione». E quindi, davanti ai fiori caduchi e pallidi della datura, convincersi «che dipenda da me la sua apparenza, / che ne sia io la sola responsabile, / questa è la gioia fiera del mio compito, / qui è il mio valore. Io valgo più del fiore».
La rivendicazione orgogliosa della sua centralità, fisica e mentale, della sua quasi immortale resistenza al tempo, ritorna ancora in molte delle poesie più brevi, insieme a un auscultare preoccupato e ironico di minimi segni di malessere: «io bevo molta acqua minerale / per poi molto pisciare, mi curo in questo / perfettissimo ospedale che vuole / fare secco il mio gran dio ormonale», «Come se il cuore inciampasse, / può cadere», «Che qualcosa di me / possa valere, dopo di me, / anche solo cinque lire più di me, / mi è insopportabile», «Rivoglio la mia salute, / fantasiosa salute / così potente e certa», «Salivo così bene le scale, / possibile che io debba morire? //…Ma adesso / che cazzo vuole da me questo dolore / al petto quasi al centro! Che faccio, muoio? / O resto e mi lamento?»

Una poesia provocatoriamente fisica, quella di Patrizia Cavalli, che si impone con prepotenza quasi canora, nei declamati endecasillabi, nelle rime ribadite, nelle immagini sempre concrete, visivamente scolpite, mai sfumate, mai eteree. Anche i versi amorosi hanno una loro sfrontata presunzione: «E se mi guardi davvero e poi mi vedi? / Io voglio che stravedi non che vedi!», «Annoiarsi da soli forse è un lusso, / ma annoiarsi in due è disperazione». Molti i punti interrogativi, molti gli esclamativi, per una poesia che si vuole soprattutto orale, declamata a voce alta. Una poesia che assume con fierezza un energico carattere teatrale, come è dimostrato anche dall’intermezzo drammatico dei  Tre risvegli, e dalle esperienze di traduzione da Molière e Shakespeare.
Altri due ironici, risentiti e appassionati poemetti sono qui riproposti dopo essere apparsi nel 2011 per le edizioni Nottetempo: L’angelo labiale è una sorta di divertissement giocato sul contrasto non solo fisico, ma anche etico, che contrappone il rumore insultante alla discrezione del silenzio, per concludersi con una spiritosa e svagata elegia pseudo-amorosa. Più spavaldamente dissacrante e pungente è  La Patria, amara galanteria in versi rivolta all’idea obsoleta, retorica, vituperata e decaduta di nazione: «Ostile e spersa / stranita…braccata…tentata…sbattuta / eccomi qui a pensare alla patria». Per raccontare la nostra terra comune, Patrizia Cavalli elenca una serie di figure tradizionali, sbeffeggiandole: la madre «calma e abbondante», «la stanca vedova in affanno» che vizia una prole stupida ed egoista, «la donna giovane, ma austera» casta e asessuata, la cortigiana «scostumata», la pazza ubriacona in estasi intellettuale da megalomane. Diffidando di queste immagini tradizionali e abusate, la poetessa preferisce affidarsi ai sensi, alle nostalgie, agli odori delle botteghe e dei mercati: meglio cercare la propria patria nei «giorni santi, stupefatti», nella luce di un «trasparente cielo fino di battista».
Non si può poi tralasciare di commentare un altro poemetto, La maestà barbarica, sarcastico e bruciante, in cui si tratteggia una figura femminile poetante, che invade con la sua spudorata presenza i quartieri romani: «Grande impresaria della sua pazzia… Ha una recitazione / arcaico-tragica», «Ha un’autorevolezza ormai consolidata. / Lei non chiede, possiede», «La sua eleganza / è quasi una minaccia»: anche in questo mordace ritratto, Patrizia Cavalli si dimostra impareggiabile bozzettista, di implacabile e sferzante abilità satirica.
Ma non sarà forse eccessivo quanto scrivono Berardinelli e Agamben nella quarta di copertina, parlando di «poesie fatte per illuminare e conoscere», e addirittura definendole come «la poesia più intensamente etica della letteratura italiana del novecento»?

«criticaletteraria», 11 ottobre 2013

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