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RECENSIONI

CASSIAN

NINA CASSIAN, C’E’ MODO E MODO DI SPARIRE – ADELPHI, MILANO 2013

Della poetessa romena Nina Cassian (Galați 1924), Ottavio Fatica scrive, nell’ affettuosamente complice postfazione alla ricca antologia da poco pubblicata da Adelphi, che fu «poetessa lirica, ultralirica… l’ultima modernista… piena di rumori e discordie», animata da «furor uterinus» e «impudica grazia». E in effetti, l’impressione più vivida che si ricava dalla lettura di queste centosette poesie, è quella di una vitalità disarmante, giocosa e fiera, arguta e appassionata. Che sia questa poetessa novantenne (residente a New York dal 1985, quando ottenne l’asilo politico per evitare l’arresto a Bucarest) a dare una sferzata di corposo ottimismo alla nostra assonnata e sospirosa produzione letteraria in versi, non deve apparirci paradossale: vista l’intensità con cui Nina ha attraversato passioni sentimentali, culturali e politiche, nutrendosi di tradizioni ebraiche e comunismo critico, di diverse esperienze editoriali e artistiche, di polemiche, di amicizie viscerali e ostilità altrettanto esibite, di conoscenze linguistiche effettive e supposte. Troviamo così nella sua vastissima produzione nell’amata lingua materna («Pur se verrò sepolta / in una terra aliena: / risorgerò un giorno / nella lingua romena») le stigmate di un orgoglio indomito, di una provocazione sarcastica: «Avida sono. L’asceta mi rimprovera / di scorrere a perdifiato / l’indice delle materie della vita / e di bramare e aver voglia di tutto. // Eh, sì, che volete! Ho fame. Ho sete, / come il suono mi aggiro nel mondo dei vivi».

Anche la natura, che dipinge con la sua abilità di celebrata illustratrice, appare in lei selvaggia e lussureggiante, sempre animata: «La finestra restò tutta la notte aperta. / La foresta entrò e si posò sul muro». Gli animali descritti paiono tutt’altro che docili e addomesticati: sono tigri, pantere, piccoli squali, elefanti. E persino la poesia viene vissuta come preda da conquistare: «Oh, giocare alla Genesi, che spasso!», «E adesso / quale parola domare?», o come allegra visionarietà, fiaba stralunata, sulle tracce della commedia dell’assurdo di un altro grande romeno, suo contemporaneo: Ionesco. «I miei visitatori sono: / un signore interrotto nel mezzo, / una donna continua / e la loro figlia di latta, / un professore che insegna formaggio, / un assassino raffreddato, una colonna / di formiche nubili, / un albero coi baffi … // Alla fine compare / il cane della sera / abbaia forte / e li caccia tutti via».

Nina Cassian non nasconde di avere un’alta considerazione di sé, del suo valore e della sua forte personalità, a partire già dal fisico descritto in un beffardo autoritratto («Mi è toccato questo volto strano, triangolare»), con l’imponente profilo del naso che la accomuna ad altri due eccelsi esuli – Ovidio e Dante- ; ma soprattutto dalla orgogliosa consapevolezza del suo anticonformismo, del suo coraggioso opporsi a ogni minaccia o seduzione del potere (nei versi di Esorcismo elenca tutte le cose di cui non ha paura….). E poi afferma con vigore: «Posso stare da sola. / So stare da sola»,  «Io sono io. / Sono personale, / soggettiva, intima, singolare, / confessionale». Della sua infanzia ricorda non affettuosi quadretti d’interno, ma scapestrate corse in campagna. Rinfaccia agli amori la banalità e l’egoismo («Perdonami se ti ho fatto piangere. / Avrei dovuto farti fuori», «Da quando mi hai lasciato divento sempre più attraente»), sbeffeggiando la farisaica simbiosi della coppia, e arrivando a concludere sette Lettere all’amato con l’esplicita e crudele affermazione «non ti amo». Nemmeno di Dio ha bisogno, e infatti non lo nomina mai, se non in una lirica programmaticamente intitolata Farsa, in cui le sue «ossa atee» si piegano nella finzione della preghiera. Rifiuta il ricatto affettivo della sofferenza, in una terribile composizione dedicata agli storpi. Celebra invece gioiosamente, sfrontatamente, il peccato («I nostri peccati erano appesi / alla coda dell’occhio, come alghe»), e l’unico colore che le sembra meritare continue citazioni è il rosso («Rosso da rosso, rosso al rosso»), simbolo di bandiere al vento e di sangue versato. E riserva tutta la sua acida ironia alla noia del pomeriggio, che anestetizza l’universo, come una grassa donna di mezza età che uccide le sue vittime imponendo loro la sua indolente presenza.
L’attaccamento alla vita fisica di Nina Cassian si esprime nel corrispondente e fiducioso attaccamento alla parola, al linguaggio, che è romeno, e poi inglese, e poi romeno tradotto in inglese, o addirittura lingua d’invenzione – lo spargano – imitativo di altri idiomi; ma è soprattutto estrema volontà di espressione e comunicazione, anche nell’età più avanzata e vicina alla morte: «la mia mano artritica / eietta a volte una penna / per iniettare una poesia / come una puntura, un’endovena, / nelle braccia manchevoli di Venere». Meritano di essere ricordati i traduttori, Anita Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica, che sono riusciti a rendere icasticamente viva nei lettori l’energia sprigionata da questi versi.

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

CARPI

ANNA MARIA CARPI, L’ASSO NELLA NEVE – TRANSEUROPA, MASSA 2011

La postfazione di Fausto Malcovati al libro di versi di Anna Maria Carpi enuclea già tutti i temi della raccolta, lasciando poco spazio di commento ad eventuali critici (e i temi sono quelli che si trovano in ogni poeta che si interroghi, quindi in ogni poeta tout court: l’immagine di sé, l’infanzia, i luoghi, gli oggetti, l’amore e la morte…). Ma quello che a Malcovati preme è il sottolineare la peculiarità di questo dettato poetico: la limpidezza, il non nascondimento. La sincerità, la chiarezza. E infatti l’autrice non lascia nessuno spazio a fraintendimenti o interpretazioni fallaci, a ricostruzioni personali e inventive del lettore. Dice tutto, spiega tutto, quasi con un’ansia di definizione che prova nei riguardi di sé stessa prima che di chi legge. E l’ impressione che subito se ne trae è quella di un’infelicità senza desideri, rassegnata, pervasiva, che incombe su ogni aspetto del semplice esistere e perdurare nel tempo. E’ un’ accoratezza delusa che investe anche la stessa scrittura: «È il mestiere più sconcio che c’è. / Che cosa resterà di tutto questo, / di esorditi e abortiti, / di tutti noi che facciamo un po’ per amore, / un po’ per bisogno, ma soprattutto / per l’ansia di apparire / un istante / sullo sfacciato video del tempo. / Nulla, ma nessuno vuole che resti qualcosa».

Non c’è gioia, dunque, nello scrivere: forse di più nel leggere (si fanno i nomi di alcuni maestri: Bobbio, Celan, Yourcenar; ma «AD UNO AD UNO se ne sono andati / i padri / di questa mia dissennata giovinezza. // Fame di padri, fame senza fine») o nel lasciarsi trascorrere in una vita da cui non ci si aspetta più nulla: «Non voglio storia, non voglio tempo. / Solo il qui e ora, solo lui, / questo livido enigma», «La vita è questo. // Io perché non ne ho voglia?», «Si aspetta il verde, si traversa la strada, / si scende nel metrò, si fa la spesa, / si prenotano viaggi, si entra in banca. // E dopo e dopo e dopo?», «Dove sei, gioia? Dove sei, speranza?», «Che c’è vita lo sento da qualche suono anomalo, / il mio respiro, / il mio sfogliare un libro / che non voglio leggere, / no, né questo né un altro».

In questa totale apatia, senso di inappartenenza, delusione verso tutto e tutti, la più grave e incisiva scontentezza riguarda la propria persona, non all’altezza, non più all’altezza dello sforzo quotidiano di esistere, e con fantasie continue di morte: «Ma anche la metropolitana mi conforta, / perché prolunga il viaggio: se mai dovessi pensare al suicidio / lo farei quaggiù in mezzo agli altri», «Io un nulla incoronato / e votato a sconfitta. // Ho un posto, uno stipendio come tanti. / Visto da fuori, tutto ben riuscito», «Così io non ho misericordia di me stessa, / e non ho niente che mi abbracci dentro», «Io-sciagura, io mio unico male».

Gli amici non bastano a salvare, sono appendici inutili che volteggiano nei riti serali di inviti, chiacchiere salottiere, bevute, incontri che non rivelano più nulla: «Ora è l’altro che ascolta – ascolta? / No, pensa solo: non la fare lunga», «Ci vediamo di furia / solo per dire: non ci siamo persi, / poi è il sollievo di un ‘anche questa è fatta’», «Gli amici ancora vivi – chi saranno? // Voci. Ci telefoneremo sulle dieci. / Come stai? Non c’è male. / Hai visto come piove? / E oggi cosa fai?».

Anche l’amore è deludente, non risponde mai al desiderio di assoluto: «Ma il mio compagno è assorto / o tace o parla d’altro», «non mi devi parlare come a un comune umano, / amore è dire all’altro non hai fine. / O io sono immortale oppure niente», «ho una casa decente e faccio inviti, / ho un matrimonio in cui si va d’accordo / sulla guerra in Irak, non su me stessa». E’ strano osservare come nella prosaicità priva di lirismo di questa poesia ogni tanto sbuchino improvvisi degli endecasillabi molto cantati, quasi consolatori: come se ci si aspettasse uno spiraglio nella negatività, un raggio di sole nella nebbia: «E’ nella mia casa di sempre il male, / è dalla mia esistenza / che non dovrei passare anche se amo quegli alberi all’inizio del parco / e il loro inverno e la neve». Il percorso biografico di Anna Maria Carpi giustifica tanto dolore, tanta disperata assenza di bene? Figlia unica e tardiva di due genitori che non si amavano, da allora si è aperta una voragine che il tempo non ha saputo richiudere: «E rannicchiata dorme / nel letto con sua madre la piccola obbediente. / Mai sarà altro, mai di più che questo, / soltanto brava, brava e diligente». Viaggiare serve a poco, immaginare scenari diversi (la Russia innevata, con un Pietro il Grande bambino; la Germania troppo ordinata e asfissiante; i bistrot francesi che portano echi di una lingua dolce e malinconica) non libera mente e cuore. L’unica possibilità di resistenza al male di vivere sussiste nella ripetizione ordinata e priva di slanci dei gesti più banali: «Solo un metro più sotto / c’è la disperazione. // Ancora un’ora, poi berrai qualcosa, / poi guarderai le mail, il telegiornale, / poi qualcuno telefona». E la carta dell’asso fatta a pezzi e buttata nella neve da un soldato tedesco a Stalingrado per spregio contro i russi diventa metafora del gesto gratuito e inutile che forse solo può salvare dall’incombere ossessivo della presenza nemica.

 

«criticaletteraria», 25 novembre 2013

RECENSIONI

CANDIANI

RITRATTO DI POETESSA: CHANDRA LIVIA CANDIANI

Ho conosciuto Chandra Livia Candiani in una giornata primaverile del 1986, quando si è presentata nel nostro appartamento zurighese in compagnia di Vivian Lamarque, dei suoi giovani editori reggiani Giorgio Messori e Beppe Sebaste, e di un suo amico. Erano venuti per festeggiare in terra elvetica il quarantesimo compleanno di Vivian, e noi li avevamo accolti con una merenda accompagnata da una tentatrice torta di panna e fragole. Chandra mi era parsa da subito un po’ intimidita: minuta, silenziosa, se non a disagio appena spaesata, quasi interrogativa nel guardarsi attorno e nel soppesare meditabonda e lontana da qualsiasi intenzione giudicatrice le nostre chiacchiere, le nostre prevaricanti esibizioni di loquacità. Le mie bambine, Daria e Silvia, avevano allora sette e un anno, e Vivian, presentando Chandra alla più grande, l’aveva così avvertita: «Vedi questa ragazza? È un folletto!» E in effetti, con la sua espressione di infantile stupore, i capelli corti, biondi e dritti sulla testa, il corpo agile e inquieto, Chandra ben si prestava a incarnare una vaporosa figurina boschiva. Quando poi la Polaroid rese a noi, increduli e divertiti, una foto di gruppo in cui il viso del poetico folletto risultava coperto da una luminosa bolla a raggiera, una sorta di sole o simbolo azteco, mia figlia fu convinta definitivamente della straordinarietà extraterrestre della nostra ospite. Per più di venticinque anni non ci siamo riviste o risentite, ma mesi fa le poesie di Chandra Livia Candiani sono apparse, insieme alle mie e a quelle di altre dieci poetesse, nel volume einaudiano Nuovi Poeti Italiani n.6, curato da Giovanna Rosadini. Ed è stato commovente e rivelatore leggere i suoi versi, introdotti da una presentazione particolarmente affettuosa e partecipe. La curatrice infatti così la tratteggia: «Personalità schiva e appartata… un talento genuino e prolifico… leggerezza è il termine che la contraddistingue. Ci sono, nella serenità e nello spirito compassionevole e lieve della poetessa, una profonda sapienza e saggezza, nutrite di consapevolezza psicanalitica e ricerca religioso-filosofica».

Effettivamente da moltissimi anni Livia Candiani, nata a Milano nel 1952 da famiglia di origini russe, si è convertita al buddhismo, ha passato lunghi periodi di tempo in India e vive nel capoluogo lombardo traducendo dall’inglese testi buddhisti: ma non appena può si ritira in un monastero sulle colline del Northumberland, ai confini con la Scozia. Il suo nome elettivo, “Chandra”, significa “Luna”, e del suo interesse per la meditazione e la spiritualità sono pervasi tutti i suoi testi. Che ora possiamo avvicinare, proprio partendo dall’antologia einaudiana uscita nel giugno del 2012. Dopo aver esordito con la pubblicazione di libri di fiabe (Fiabe vegetali, 1984, e  Sogni del fiume, 2001), Chandra Livia si è concentrata soprattutto sulla poesia, e dalla sua feconda produzione -in gran parte tuttora inedita- sono stati editi nell’ultimo decennio quattro piccoli volumi. I testi presenti in  Nuovi Poeti Italiani n.6 sono tratti dalle raccolte Versi d’asino, Il sonno della casa, Bevendo il tè con i morti e Pianissimo per non svegliarti.
Dalle venti composizioni antologizzate nel volume Einaudi si trae, è vero, una prima impressione di sottile e discreta lievità, che tuttavia viene subito contrastata, ad una lettura più attenta, dalla consapevole rivelazione di una vena meditativa più profonda e malinconica, di una assidua e sincera ricerca di significati ultimi, di verità illuminanti: «Noi siamo i vetri / non c’è un dietro per noi / da cui poter guardare / parvenze di altri, / siamo rivolti a tutte / le intemperie / dell’anima e dell’aria», «Noi siamo l’incisione / tra spazio e tempo / taglio netto e profondo / dormiamo così / calpestati da chi sale / e chi scende bare / e culle mattine e notti / feroci e opache, / i testimoni delle scale: / gocciola in silenzio / su di noi la paura dei passaggi».

Se il “noi” di una fratellanza universale, di un comune destino cosmico che unisce tutte le creature viventi, e le lega a tutte le generazioni passate e future («resta / questo filo teso di contati / respiri sopra l’abisso. / Che ci ama. / Tutti.») è il sentimento prevalente della riflessione filosofica di Chandra Livia, la sua storia personale, di gioia-amore-sofferenza-lutti non viene occultata da una retorica sentimentale livellatrice, ma viene assunta e esplicitata nelle sue luci e nelle sue ombre: «dunque la gioia / è questo sangue che bussa / ai polsi, questo amico / dei rintocchi», «Sono matassa di smarrimenti / senza disegno, sono calce / viva sotto pelle / di tamburo che vibra / a ogni sfioramento sono / bambino sbucciato / corso via perdutamente e poi caduto / a terra, come sparato, / al cuore».

L’amore ha il suo spazio, importante, fondamentale, nel riconoscimento del proprio sé nell’altro, nella condivisione del tempo e dei sogni, nel dono di una reciproca generosità: «Io farina / tu pane / io goccia d’acqua / tu sete / io orlo / tu veste celeste. / Scambiami per un tuo pensiero, un difetto / nella tua smemoratezza, / un inciampo. / Inciampa in me / come in un parente avvinghiato». E alla base di questa capacità e volontà di affidarsi a tutto ciò che avvolge e accoglie il nostro piccolo io, c’è senz’altro questa tranquilla fede nella bontà di un ascolto trascendente: «La saggezza del giorno / si scioglie in pioggia, / sono ascoltata: / goccia per goccia / si stende il velo / pietoso / di un udito / che non ha premura / accoglie / il gradino / su cui si stende preciso il gatto / l’oro nero dell’olmo / l’asfalto lucido e stellato».
Le tre sezioni che compongono il volume che Livia Candiani ha pubblicato da Campanotto nel 2005, Io con vestito leggero, hanno in comune la levità delle atmosfere e delle parole, quasi avessero timore di ferire, o di incidere una realtà che la poetessa desidera solamente sfiorare: con la delicatezza di un soffio leggero, di uno sguardo appena posato, e subito rivolto altrove per discrezione. Si avverte addirittura qualcosa di volutamente svagato, distratto, programmaticamente inteso ad evitare il troppo di ogni passione, di ogni dolore. Ambienti e personaggi vivono la stessa, magica estraneità al mondo concreto delle figure di Lewis Carroll, lontane dalla pesantezza calcolata dell’età adulta. Così La Signora protagonista del primo capitolo «si è seduta sui rami», «è nata ieri / e già la polvere la insegue», «cade tra le pupille imprestate», «chiude i giorni / come fossero veli», «prepara il letto di foglie»: è una fata, forse, o una fantasia, o una promessa di bene. Vive circondata da alberi, foglie, cieli, nuvole e uccelli. Tutte «cose leggere e vaganti», direbbe Saba. Nella seconda sezione, Lettere mai scritte, la malinconia per ciò che non è avvenuto, ed è rimasto sospeso, irrealizzato, si fa più evidente, pur rimanendo circoscritta ad un’impressione sfumata di tristezza: «con quali passi / si finisce se stessi / in una lettera», «Anche una lettera d’affari / è nostalgia / di un impossibile parlarsi», «Come vorrei saper scrivere / una lettera ai boschi / a un fiume o a una / qualità del cielo», «Strano mettere la data alle lettere come fossero / valide solo per oggi».

Il capitolo conclusivo che dà il titolo all’intero volume, ha il merito di aprirsi a versi che offrono il ritratto più esaustivo della loro autrice: «m’inchino ai semafori / e accarezzo con le suole l’asfalto», «Sospendo il petto / ai fili del bucato /…è mia questa capacità / d’amare senza possibilità / d’oggetto», «non siamo rose / né uccelli / né il vento / ma l’attesa di soffiare / di volare / di sbocciare».
Ma c’è un’ ultima, fondamentale, raccolta di versi che Chandra Livia ha pubblicato nel 2007: Bevendo il tè con i morti ( Viennepierre, Milano), in cui i trapassati, sia quelli che abbiamo amato o appena conosciuto, sia quelli che appartengono alla memoria comune, alla fantasia, all’aria, recuperano una loro voce dimenticata o trascurata in vita, memento alla nostra distrazione quotidiana, affettuoso rimprovero per le nostre disattenzioni o temporanee insensibilità. Qui «celeste e terrestre si compenetrano», come suggerisce Giovanna Rosadini, e come appare evidente da questi esempi: «Verso sera / i morti siedono sui fili della luce / come gocce di pioggia / che è già caduta», «il morto che ha paura di vivere / si alza di notte / rassetta la terra / cambia l’acqua ai fiori / della tomba / si siede a guardare le stelle / da lontano. Sfugge / le rassicuranti chiacchiere / dei vissuti», «Non ai morti / si addice la tristezza / ma al bugiardo / perdurare dei vivi », «La morta / con il canarino sulla spalla / dice che come l’uccello / dalla gabbia / lei dal corpo / è sfuggita», «Il passo sboccia / da un’andatura del pensiero / forti come nuvole / passano i morti».

In questa Spoon River milanese, dagli esotici accenti orientaleggianti, Chandra Livia Candiani riflette la sua sensibilità ricettiva e premurosa, con una voce che si riconosce assolutamente femminile e lontana da paludate tradizioni letterarie del nostro novecento: più vicina semmai alla delicatezza delle liriche cinesi, a una storia millenaria di ascolto e aconfessionale preghiera.  La stessa discrezione partecipe che la tiene lontana dai circuiti editoriali e mediatici di produzione poetica tanto in voga oggi, e invece attiva conduttrice di seminari di poesia nelle scuole elementari. Forse proprio in uno di questi appuntamenti con i più piccoli, Chandra ha incontrato la ragazzina cui dedica i versi finali dell’antologia einaudiana: «Fatema, la bambina rom, ha scritto: / è bello / vedere l’aria felice». Ecco, questa sembra essere l’ambizione più assoluta della sua poesia: una condivisione gioiosa di purezza, di verità.

© Riproduzione riservata             «La poesia e lo spirito», 7 novembre 2012

RECENSIONI

CALANDRONE

MARIA GRAZIA CALANDRONE, SULLA BOCCA DI TUTTI – CROCETTI, MILANO 2011

Un libro importante, denso e profondo, di una poesia che scava se stessa alla ricerca della verità, ultima o approssimativa, di una parola -comunque- che sia rivelatrice d’altro, e accompagni lettore e poeta, insieme, verso un approdo di conoscenza e di riconoscenza, di indagine e di perdono. Poesia radicata nel dolore, che è di tutti, della natura, del mondo e della storia. Una storia che ci precede («gli scomparsi», tanto citati in questi versi: dai primi abitanti della terra ai soldati con le corazze dello stesso argento del cielo, dai genitori suicidi alle vittime di ogni violenza); una storia illuminata da flash improvvisi, incubi e allucinazioni : paesi sterminati dai nazisti, stragi e attentati, macerie, mutilazioni. Partendo dai sacrifici animali dei riti antichi per arrivare all’undici settembre, descritto con analiticità quasi scientifica, a evitare qualsiasi retorica o abuso di commozione, nel cemento e nel piombo che si sgretolano insieme al sangue, all’amianto e alle travi («proiettili di corpi fusi»), secondo leggi fisiche immutabili: «come chiariva Galileo», «poveri corpi fatti di paura / primordiale, un gesto come avere gettato il pane». Non c’è traccia di innocenza, in questi versi: sentimenti e corpi vengono disarticolati con asciutta compunzione, con anatomica precisione. Non troviamo sguardi, carezze, capelli: la fisicità è fatta di crani, tendini, vertebre, viscere, atlanti cerebrali, e la nudità della sostanza di cui siamo composti ci condanna senza scampo a un destino di annullamento, di silenzio eterno: «Siamo l’effetto di un contratto / provvisorio tra la materia e il nulla». Non si può certo parlare di freddezza, per queste poesie così severamente e tranquillamente disperate; esse esprimono una loro sacralità però quasi paganeggiante, lontanissime dal tono umile e solidale della letteratura religiosa. Vibrano orgogliosamente di una voce perentoria, declamata, alta e severa, del tutto laica, nonostante i numerosi riferimenti evangelici, e le sentenze latine che richiamano a una lontana patristica riecheggiata esclusivamente per la sua nobile e altera ascendenza culturale. Poesia visionaria e misteriosa, ma estranea al sentimento del fantastico e dell’immaginoso: invece concreta e dura nel dichiarare ed esibire l’ingiustizia di una condanna alla mortalità, alla sofferenza: «in mute cuciture prenatali / tra bordi di lesioni provocate / da uno sgomento / sproporzionato alla fragilità del corpo», «il castigo ci colpisce senza / intelligenza e / all’improvviso spacca l’armatura». C’è insomma questa amara consapevolezza del nostro comune destino, di noi piccoli episodi transeunti nella indifferente e grandiosa vicenda universale: «Siamo depositi di li- / mature / a passeggio tra gli alberi di questo bosco. Nessun / dolore, siamo bellissime / composizioni / di rovine del mondo / quando era perfetto». La presenza del “noi” è una costante, mai progettuale, mai gioiosa o affratellante : «Siamo una compagine di vento / un canneto di carne lapidata / un fluttuare canoro di risorti», e a questo senso sconfortato di disfacimento della materia, la poetessa può e sa opporre solo la potenza inclemente dei suoi versi: «tutto questo apparente incorruttibile / verde sarà fieno, alimento, latte / di nuovo carne che si disfa / e carcassa / lisca / saturnale. / Io più di questo non potevo fare per mettere argine a questa / fine».

 

«Leggere Donna» n.155, giugno 2012

RECENSIONI

CALANDRONE

MARIA GRAZIA CALANDRONE, LA VITA CHIARA – TRANSEUROPA, MASSA 2011

La foto di copertina dell’ultimo libro di Maria Grazia Calandrone, tutta giocata tra il nero e il marrone, in uno sfondo plumbeo che sembra evocare una tromba d’aria o marina, stride volutamente con il titolo della raccolta: La vita chiara, inciso in caratteri bianchi, per una poesia che da subito si offre invece magmatica, densa, scavata, lontana da qualsiasi leggerezza o ironia. Di non facile e immediata decifrazione, anche se non ermetica, vibrante di un’ansia controllata, tesa in un dolore reso esplicito da immagini violente, da ricorrenti motivi di accesa aggressività, di sconvolgente sopraffazione. Il volume è diviso in quattro sezioni dedicate ai quattro elementi empedoclei, e tutti individuati nella loro sovrumana forza distruttiva, impetuosa. Così per l’acqua il simbolo prescelto è ovviamente il mare, vissuto soprattutto come minaccia nei suoi insondabili abissi o sulla superficie popolata da presenze animali e vegetali specificate con una precisa terminologia biologica, chimica, climatologica: «l’albatro cammina / sull’olio plumbeo dell’acqua, le orche deglutiscono boccate / d’acqua e sciami di alici nelle forme / di calamita e anelli scardinati, pulviscolo / di lische». Acqua inquinata e corruttrice, melmosa e corrosiva, spesso rievocata anche nell’impetuosità assassina dei fiumi, cui il subconscio sofferto dell’autrice torna nella rievocazione ossessiva dell’incubo che ha segnato la sua venuta al mondo. Il fuoco, poi, è cenere e vento, distruzione e annientamento in una sezione in cui la natura non è mai sollievo o consolazione («il gelsomino / colma di fango tenebroso / le corolle», «i sassi / trasportati dai vermi / nella bocca»). Anche le variazioni d’amore ricostruite nei dialoghi con il mistico persiano Hafez rappresentano una sorta di schiavitù di rapporti in cui non si sa chi sia padrone o servo, vittima o carnefice: («sono una piccola catasta di membra / che la sua nudità dovrà pur / calpestare»). E’ lo stesso «amore ammalato» che ritroviamo nella splendida e terribile poesia dedicata a Natasha Kampush e al suo rapitore, in cui la pietà per un sentimento divorante e distruttivo rivendica quasi una sua giustificazione agli occhi del mondo civile e perbene che non potrà mai comprendere. Proprio qui riappare un sintagma che, con una variazione significativa («sotto gli occhi di tutti», «sulla bocca di tutti») è spesso presente nella poesia di Maria Grazia Calandrone: a esibire la teatralità compiaciuta e orgogliosa della sua poesia, ma nello stesso tempo a indicare che il mistero di ogni anima e di ogni gesto rimane sempre, esclusivamente, privato e irraggiungibile  («Non sia esposto il segreto che brucia nell’urna del cuore», recita il titolo di un paragrafo del libro).
Il capitolo più corposo del volume è dedicato alla terra, alla concretezza della storia che invade e violenta la vita dei singoli, distorcendone i percorsi esistenziali, distribuendo macerie e lutti: immagini forti che dipingono scenari ancora una volta drammatici, da declamare sulle scene, con un alto senso della denuncia civile. Quindi Guernica, le stragi di Sant’Anna, rastrellamenti, donne sventrate, eccidi, madri che piangono i figli torturati ( e Maria è ovviamente il nome-icona di una maternità violata e offesa, nel sacrificio eterno di ogni crocifissione innocente). Ma ancora l’ossessione della materia e del corpo si concretizza nella narrazione di episodi di cronaca ambientati in un meridione contadino e superstizioso, abitato da pleniluni e sortilegi, uomini imbestialiti ululanti e donne marchiate da una fisicità lontana da qualsiasi possibilità di riscatto.
Non c’è salvezza, non c’è leggenda o mito, non c’è innocenza: è tutto realtà di tenebra e notte, senza alcuna clemenza, incardinata in una natura impietosa e mai confortante, in una storia che divora inesorabile. Lo stile si adegua, ovviamente, ai contenuti, ignorando quasi provocatoriamente qualsiasi collaudata tradizione letteraria: quindi versi lunghi o lunghissimi, alternati a quinari incisivi e asseverativi – con frequentissimi enjambements, spezzature, interruzioni, ripetizioni-, privi di rime o assonanze, indifferenti a ogni rigidità metrica. Una scrittura personalissima che non conosce tregue o cedimenti, imperativa, forte; nemmeno la sezione finale, dedicata all’aria, si addolcisce in una volatile o delicata armonia, ma rimane concretamente realistica anche nel tratteggiare due personaggi simbolo di spiritualità e sensibilità : Teresa d’Avila e Chopin.
L’estasi della prima sembra tutta concentrata nel voler negare il corpo e la tentazione della materia, ma ad essa e alla «bassezza del marmo» ritorna e si riduce implacabilmente («il mio corpo è bersaglio / e colonna di fuoco / è setaccio / e tamburo»); la dolcezza estenuata dei Preludi e dei Notturni del secondo viene oscurata dalla fatica delle esecuzioni, dalla sanie della tubercolosi, da incubi e visioni animalesche e malate.
Forse un ultimo rilievo o curiosità da evidenziare in questa raccolta dai toni baudelaireiani è la presenza, in quasi ogni poesia, della parola “cuore”, mai in senso immateriale, di anima, bensì in quello corposo e realistico di muscolo anatomico, di interiorità pulsante nell’unica realtà concreta del nostro esistere: il corpo. «Mon coeur mis à nu», appunto.

 

«Poesia» n.266, dicembre 2011

RECENSIONI

RONDI-GAY DES COMBES

ELENA RONDI-GAY DES COMBES, DISSOLVENZE – LUCIANA TUFANI, FERRARA 2014

Questo libro, secondo la prefatrice Maria Rosa Valentini, «non vanta una trama ossuta, ma piuttosto si avvale di un gioco di specchi, di giustapposizioni che pongono in evidenza ritratti e profili di molte donne risucchiate dalle ragnatele della quotidianità». Ambientato in una provinciale cittadina della Svizzera Italiana (l’autrice è ticinese), il romanzo intreccia le storie di cinque protagoniste femminili, diverse per età, carattere e condizione sociale, ma accomunate tutte dalla stessa attenzione verso lo sguardo: soggettivo od oggettivo, interiore o esterno. Quindi l’interesse è focalizzato su quegli oggetti che maggiormente si fanno interpreti dell’atto visivo: la macchina fotografica e lo specchio. La vicenda si apre nella boutique in cui Anna, commessa, offre i suoi competenti consigli alla signora Kramer, cliente assidua ed esitante. La prima, attenta ad interpretare la psicologia delle acquirenti, è una giovane donna appassionata di fiction televisive, pratica e senza particolari esigenze esistenziali: la seconda è una signora della buona borghesia, mediamente infelice e ingessata nel suo ruolo di moglie-madre incapace di ribellioni. Entrambe usano lo specchio, una in modo professionale e distaccato, l’altra come scrutatore dell’anima.
Anna ha una sorella più giovane, Chiara, in grado di muoversi con naturalezza solo nel suo giardino e nei rapporti umani che sa indagare con profonda sensibilità, ma privata della vista per una malattia infantile: cieca quindi verso l’esterno ma attenta osservatrice dell’interiorità.
Le altre due protagoniste sono Lucia e Eileen, legate da un misterioso rapporto di complicità iniziato casualmente da uno scatto fotografico rubato. Ognuna di loro vede nel ritratto fotografico ciò che desidera vedere: la felicità o l’angoscia dell’altra, le proprie proiezioni e aspettative di riconoscimento. Dunque le dissolvenze cui si allude nel titolo del romanzo sembrano soprattutto indicare una difesa dall’aggressione troppo esplicita dell’esistenza.
La fotografia non riproduce la realtà, ma tende a ricostruirla: «Di autentico c’è solo il nostro sguardo iniziale… se l’immagine non corrisponde alla realtà, tanto peggio per la realtà».
Lo stile con cui Elena Rondi-Gay del Combes racconta le vicende intrecciate delle sue protagoniste è curato ed elegante, i dialoghi credibili e funzionali.

 

«Leggendaria» n.105, maggio 2014

RECENSIONI

ATTANASIO

DANIELA ATTANASIO, IL RITORNO ALL’ISOLA – NINO ARAGNO, TORINO 2010

Si apre con una poesia intitolata  Risveglio, questo bel libro della poetessa romana Daniela Attanasio: quasi un augurio di nuova vita, che penetra nei versi con la luce dell’alba. E «luce», infatti, è forse il vocabolo che più si rincorre attraverso i quattro capitoli che compongono il volume, come una costante di apertura, di desiderio chiaro, di energica vitalità modulata in versi che hanno la solida positività di una narrazione che si vuole condividere. Così nella prima sezione, intitolata luminosamente  aQualche scintilla, è la metropoli di oggi, brulicante di esistenze e razze differenti, di colori profumi rumori e lingue diverse, che si impone nelle descrizioni stupite e grate dell’autrice. La sua «Roma di rosa pallido di azzurro sporco», si spalanca con disordinata allegria su «un secchio di fiori una panca la metropolitana / la croce della farmacia, odori molli dolci / di pelle indiana»: per cui, quasi pasolinianamente «a snodare la passione del giorno / è un disperante bisogno di vita». Ma è soprattutto la seconda sezione, che dà il titolo al volume, ad aprirsi al miracolo dello sguardo ricreante, in una vertiginosa identificazione con la natura e l’esplosione dei suoi colori. L’isola di cui si parla nel poemetto («quest’isola / piccola e selvaggia») è Ginostra («felicità infantile / come un giro di / giostra»): esplode nella sua concreta e paganeggiante rigogliosità fatta di “roccia nera / vulcanica sulfurea / raspi di capperi… terrazze accovacciate… teli di bucato… gigli di mare… corpi scivolati nel / sudore… gabbiani reali appollaiati… spiaggia trascolorata… intonaci /increspati come petali di / un fiore… livide raffiche di vento… rosso dei pomodori / rimasti a seccare sotto il sole». Una fisicità di cielo e mare, odori e suoni che si fa pura, esaltata visione, e insieme volontà di comunione, non solo con l’amato con cui si condividono i gesti più quotidiani e attenti, bensì con il tutto che respira intorno, fino alla riconoscente resa in poesia: «Vera ragione di esistere / è questo guardare la vita / patendola fino al raschio / delicato della poesia», «cerco un verso che / sanguini fedeltà alla vita», «il mio modo / di guardare l’isola / è una forma del / pensare, qualcosa di / molto umano, una cosa / pura, un inizio // come cercare Dio nella bocca del vulcano». Proprio la forza incombente del vulcano, guardiano del suolo, testimone sedimentato da millenarie età geologiche, rappresenta più una sicurezza che una minaccia: «il vulcano è ancora lì / con la sua mappa di rughe ctonie- / solo lui resiste»: ed è una promessa di solida e fedele permanenza nel fluttuare incostante delle vicende umane. Il ritorno alla banalità urbana, la fine della vacanza e dell’immersione in un’innocenza primordiale, si concretizza in un  Dopo che corrisponde al terzo capitolo del libro, e a una separazione, alla fine di un rapporto d’amore: «circondata dal buio e dal / silenzio, posso iniziare a ricordare», «poi è accaduto qualcosa che non so capire», «siamo corpi separati dentro una cassa di gesti morti». Eppure, anche nella malinconia del distacco, non sono davvero buio e silenzio a prevalere. La poetessa sembra voler chiedere ancora una volta soccorso alla natura, alla bellezza del creato per una consolazione che non sia fittizia: «vieni luna gentile, lava le pietre della mia memoria / attraversa con i tuoi raggi bianchi cuore e cervello / chiudimi dentro una suadente amnesia», «amo anche te vela nera d’agosto / e amando te amerò il dopo del buio e della pioggia». Sono versi che indicano sempre e comunque una salvezza, una gioiosa accettazione e adesione all’esistente. Persino la visione della morte futura non ha nulla di spaventoso e di tragicamente definitivo: «soccombere alla luce- un modo di morire contenta / scivolando nella materia che amo». La scrittura poetica di Daniela Attanasio («un nome ebraico e un cognome greco») sembra rifiutare i moduli tradizionali di rima o metrica, ma si avvale spessissimo di metafore e di enjambements che aspirano a creare nel lettore effetti di straniamento e sospensione, di sorpresa e meravigliata interrogazione, in linea con la convinzione etica espressa dai suoi contenuti: un inno alla vita, una partecipazione convinta alla bellezza . Così anche l’ultima parte del libro, con le tragiche epigrafi tratte da Amelia Rosselli, e allusive alle «sue disarmate visioni», alla malattia, alla fine, termina con un «cordoglio d’allegria», con la constatazione che «da tutti i tuoi mali d’amore nasce sempre qualcosa, / tocca la primavera di aprile scolpita sulle foglie / i voli frastagliati degli uccelli, le rondinelle…».

 

«Atelier» n. 67, settembre 2012

RECENSIONI

BASAGLIA

ALBERTA BASAGLIA, LE NUVOLE DI PICASSO – FELTRINELLI, MILANO 2014

«…quel personaggio che mi era capitato come padre, all’epoca, fine anni settanta, era nell’occhio di tutti i cicloni possibili: quello scientifico, quello mediatico, quello politico-legislativo, quello culturale…». Alberta Basaglia, psicologa a Venezia, tratteggia un affettuoso, ammirato, ma anche intelligentemente ironico ritratto di suo padre Franco, psichiatra di fama internazionale, autore nel 1968 del fondamentale saggio  L’istituzione negata, e soprattutto coraggioso iniziatore della rivoluzione scientifica e ideologica che condusse alla chiusura dei manicomi con la legge 180 del 1978, legge che porta il suo nome. Ma Alberta in questo volume scrive principalmente della sua particolarissima infanzia, di se stessa bambina-adolescente-studentessa universitaria, segnata da un doloroso deficit visivo congenito, che dalla nascita l’ha resa “diversa”, accomunata solidalmente nella sofferenza ai pazienti in cura nell’ospedale psichiatrico di Gorizia. «Strana», con la testa piegata sulla spalla per cercare di vederci meglio, con tante baby sitter inglesi che si occupavano di lei e del fratello per ovviare alle assenze e ai fagocitanti impegni di lavoro e di studio dei loro importanti genitori, Franca e Franco Basaglia. Di famiglia veneziana altoborghese, antifascista, anticonformista, il giovane Franco, partigiano («non ha mai smesso di esserlo») imprigionato negli ultimi anni di guerra, conobbe forse proprio in carcere la degradazione umiliante dell’isolamento, facendosi da subito paladino degli ultimi, degli esclusi per eccellenza dalla comunità: i malati di mente. Erano anni di grandi utopie, che sognavano riscatto sociale e liberazione, e «il suo era un lavoro di studioso che intrecciava in modo sacrilego la filosofia alla psichiatria». Con la moglie e molti amici intellettuali, le serate passavano discutendo i lavori di Marcuse, Heidegger, Sartre: progettando silenziose rivoluzioni in medicina e in politica. I due bambini, Enrico e Alberta, venivano educati spartanamente, con vacanze alternative, senza televisione, senza concessioni alle mode, tra molte letture e musica classica. Vivevano a Gorizia nel Palazzo della Provincia, poco accogliente come casa, ma aperto alla frequentazione di ospiti da tutto il mondo, e di matti. Desolina, Carletto, Velio, la puzzolente signora Pierina, malati «ripuliti a festa» nelle domeniche danzanti nel parco dell’ospedale: «Queste diverse presenze erano il mio quotidiano. Questa è stata per me la rivoluzione più normale del mondo… Basta solo riconoscere il diverso da te e non farti fagocitare dall’ansia che costringe a incasellare tutti e tutto in regole e categorie precise che pretendono di dare un ordine tranquillizzante al mondo».

Accettare tutti, era la parola d’ordine della famiglia Basaglia, dando dignità a ciascuno.
E Alberta, con le sue minime disubbidienze infantili (le canzoni di Caterina Caselli, il desiderio di vestiti alla moda, le fughe alla Standa per ascoltare i Beatles o in portineria per sbirciare Carosello, il dipingere nuvole così belle da far invidia a Picasso) assorbe l’atmosfera intellettuale di famiglia, fa sua l’istanza di ribellione contro la violenza e il conformismo, e decide di dedicarsi professionalmente alla cura di chi soffre. Si laurea in psicologia dell’età evolutiva, saccheggiando l’archivio del manicomio di Gorizia, e studiando gli impietosi faldoni che testimoniano le torture inflitte a bambini malati, le diagnosi superficiali e crudeli dei medici, gli inevitabili decessi precoci colpevolmente censurati dalla burocrazia psichiatrica.
Scritto con la collaborazione della giornalista Giulietta Raccanelli, questo libro di agevole e stimolante lettura ci accompagna alla scoperta di una famiglia eccezionale, di idee in costante fermento in anni vivaci, molto lontani dall’apatia e dall’acquiescenza attuali. E soprattutto ci fa conoscere il coraggio e la dolce, simpatica fermezza della sua autrice, la sua fedeltà a un sogno di libertà e uguaglianza.

 

«Leggere Donna» n. 163, 2014

RECENSIONI

ANGELI

L’ULTIMO VOLO – RICORDO DI SIRO ANGELI

La Biblioteca e l’Amministrazione Comunale di Cavazzo Carnico, insieme ad alcuni illustri studiosi e a preziosi e competenti volontari, da qualche anno stanno promuovendo il recupero dell’opera letteraria di Siro Angeli, nato a Cesclans nel 1913 e morto a Tolmezzo nel 1991. Molto volentieri, in qualità di seconda moglie di Siro, e in accordo con le nostre figlie Daria e Silvia, abbiamo donato al Comune la sua casa natale, i libri conservati nel suo appartamento di Roma, e parte dell’epistolario in nostro possesso. Un ricco fondo di documenti era già stato affidato alle cure attente dell’Università di Trieste alcuni anni fa. Ma qui mi preme offrire una testimonianza personale, un ricordo affettivo dell’uomo e del poeta, quale io l’ho conosciuto a partire dagli anni 70, e a cui sono stata vicina per un ventennio. Già dalle primissime letture della scuola elementare avevo subito il fascino della parola poetica, in cui avvertivo istintivamente una concentrazione di senso e una seduzione musicale che la prosa non mi regalava. Se quindi da bambina erano i versi di Novaro e di Gozzano («Tita singhiozza forte in mezzo all’orto», «Consòlati Maria del tuo pellegrinare»), e più tardi quelli di Ungaretti e di Saba a commuovermi in maniera particolare, al ginnasio e al liceo le mie letture si rivolsero appassionatamente e autonomamente (senza, cioè, venire orientate e dirette da qualche insegnante o guida adulta) verso qualsiasi produzione poetica riuscissi ad avvicinare. Ricordo ancora i primi due libri di poesie acquistati con le mance domenicali: le  Liriche cinesi  e  L’Antologia di Spoon River  della Nuova Universale Einaudi. In seguito, in maniera confusa e entusiastica, lessi Montale e Cardarelli, Pavese e Palazzeschi, Prévert e Tagore, fino ai disorientanti sperimentalismi della neovanguardia. Accompagnavo questi studi con l’ascolto dei cantautori italiani (Endrigo, Tenco, De André, soprattutto) e degli chansonnier francesi, affinando così una sensibilità forse eccessiva per quel miracolo del pensiero e del sentimento che chiamiamo “poesia”. Cominciai anche a buttare giù dei versi – molto banali e zoppicanti, a rileggerli adesso- che custodivo gelosamente in segreto. Fu in prima liceo classico che la professoressa di italiano ci fece acquistare un’antologia: Poesia contemporanea, edizione Le Monnier, curata da Rispoli e Quondam. Lì trovai Siro, a pagina 521. I versi riportati erano tratti da quello che rimane forse il suo libro più intenso e ispirato,  L’ultima libertà, dedicato alla sua amatissima prima moglie Liliana, morta molto giovane, nel 53. Ricordo ancora a memoria alcune di quelle poesie: Come si fa di brace,  Nel deserto del letto, Volevi essere mia, e il turbamento che mi provocava ripeterle tra me e me. Non so quale istinto o segno del destino mi convinse a prendere la penna, il 24 gennaio 1970 – avevo sedici anni – e a scrivergli una lettera, che indirizzai alla Rai, dove allora lui ricopriva la carica di vicedirettore del terzo programma radiofonico. Voglio riportarla per intero, così timida e impudente come mi appare adesso, insieme alla sua risposta pacata e commossa.

Caro Signor Angeli, sono una studentessa liceale di Verona; le scrivo dopo aver letto alcune sue poesie su un’antologia di poeti contemporanei. Devo confessarle che non sapevo neppure che lei esistesse: a scuola non si curano certo di farci apprezzare la poesia moderna; tuttavia le sue poesie mi sono piaciute. Molto. Non mi interessa sapere se la sua poesia è contrapposta a ogni inutile sperimentalismo, oppure se risalta a prima vista l’elaborazione e la rinnovazione degli endecasillabi e dei settenari (come ha scritto Ravegnani): io bado ai fatti e le sue liriche sono delicate e sincere. Per questo mi sono piaciute. Le ho scritto per chiederle se può mandarmi un suo volume: non credo infatti che i suoi libri siano stampati in edizione economica, e io non ho mai abbastanza soldi per permettermi un’edizione di “lusso”. Se un giorno riuscirò a scrivere poesie belle come le sue, anch’io le manderò un volume gratis. Volevo dirle inoltre che mi dispiace molto che la sua “Lilith, Eva, Maria” sia morta. Affettuosi saluti. Alida Airaghi

Cara Alida, scusa se ti do del tu: penso che la mia età, e soprattutto lo slancio spontaneo che ti ha sollecitata a scrivermi, mi consentano di farlo. Dirti che la tua lettera mi ha recato piacere è poco. Accorgersi che le nostre parole hanno lasciato una traccia nell’animo di qualcuno è assai consolante: non (almeno nel mio caso) perché ciò soddisfa la nostra vanità, ma perché l’impulso a scrivere nasce proprio dal bisogno di comunicare, di confidarsi, di stabilire un rapporto di comprensione e di intesa con gli altri, insito in ogni essere umano. Adesso io per te esisto, e tu esisti per me. Se da me ti è venuto qualcosa, senza che io l’abbia espressamente voluto (e questo mi sembra anche più bello) tu mi hai dato altrettanto scrivendomi, e forse di più. Ti mando volentieri il mio ultimo libro di versi. Confido che non ti deluda; e attendo che un giorno tu possa ricambiarmi con un libro che rechi la tua firma, e sia migliore del mio. Io l’ho scritto perché non potevo farne a meno, per disperazione e per vincere la disperazione. La vita mi aveva concesso, con mia moglie, moltissimo; e, forse perché è stabilito che il bene si debba pagare più del male, poi me l’ha tolto. Io ho cercato di recuperare questo grande dono nelle parole, non potendolo recuperare nella realtà. Ricambio i tuoi affettuosi saluti e ti auguro che si avveri quello che desideri, per i tuoi studi e per la tua vita. Siro Angeli

La nostra corrispondenza si protrasse fino al 1973, quando scesi a Roma con alcune compagne di studi per incontrarlo. E continuò, pressoché quotidiana da parte sua, anche nei primi anni della nostra relazione, fino al trasferimento a Zurigo, alla nostra convivenza e poi al matrimonio. Un esilio dorato, il nostro, grazie soprattutto alla nascita delle nostre bambine, all’amicizia fedele di pochi amici, alla sicurezza economica che ci garantiva il mio insegnamento per il Ministero degli Esteri. Ma sempre esilio, a cui ci aveva convinto l’ostilità – dapprima feroce, poi attutita, poi di nuovo manifestamente esibita, dopo la scomparsa di lui – delle nostre famiglie, a Roma e a Verona, scandalizzate dall’abisso di anni che ci divideva. La morte di Siro, inattesa e imprevedibile, non è comunque riuscita ad offuscare in me il ricordo riconoscente del suo severo insegnamento, morale e letterario, e la volontà di rimanervi fedele. In quel lontano agosto del 91, Siro ci aveva preceduto a Cesclans, dove eravamo soliti passare due settimane ogni anno, mentre io e le bambine eravamo rimaste a Verona, trattenute lì dalla leucemia che aveva colpito mia madre, e che l’avrebbe uccisa quasi contemporaneamente a Siro. Ma io l’avevo poi raggiunto per accompagnarlo all’ospedale a un controllo, suggeritogli dal medico a causa di quella che gli era stata diagnosticata come una tracheite. Avevamo partecipato insieme alla Messa di Ferragosto, e ancora adesso mi rimprovero di non aver intuito la gravità del suo male, anche al di là delle reticenze dei dottori e dei parenti. Rammento la sua ultima frase, prima del commiato la sera del sabato in cui fu colpito da un ictus: «Non mi sento ancora del tutto a posto. Tu però vai, vai a dormire, ci vediamo domani». Il rientro a Zurigo con le sole bambine, il dover dire loro che non avrebbero più rivisto il papà adorato, il silenzio terribile e prolungato di tutti, la cattiveria covata e mai da me prima sospettata, ed esplosa in seguito con virulenza, con perfidia: tutto questo non si può dimenticare. Ma dopo tanto tempo risulta attutito, quasi mitigato con clemenza dal bene che è rimasto, dai ricordi belli. Anche dalle raccomandazioni “letterarie” con cui seguiva quello che io scrivevo, esortandomi e correggendomi. Per cui se io leggo una mia breve, lieve composizione tratta dal libro  Il silenzio e le voci («L’elegante betulla è spoglia. / Solo una foglia, esitante, resiste. / Un poco trema, appesa ad un nulla; / e aspetta triste il suo ultimo volo»), risento la sua voce grave e severa: «Attenzione alla metrica! E le rime, le rime sono importanti: non rimare aggettivo con aggettivo, verbo con verbo, nome con nome…  Mai cercare la via più facile, affidarsi troppo all’orecchio!». E mi accorgo di quanto ho ereditato dal suo insegnamento, anche a livello inconscio, se paragono i miei versi a quelli suoi di cinquant’anni fa, così profondi filosoficamente, echeggianti il suo ammirato Bergson: «Impara dalla foglia di novembre / che vedi sciogliersi dalla spoglia pianta / nella precaria luce in punta di piedi; / dalla foglia che sa prima d’esser morta, / persuadendosi a un lieve gioco / col filo d’aria che alla terra la porta, /  fare di ciò che deve l’ultima libertà».

Così, rileggendo questi suoi splendidi versi, mi viene da pensare che Siro, nel suo ultimo volo, ha fatto come la foglia novembrina che scendendo verso terra gioca con l’aria, libera nonostante la necessità: anche Siro ha scelto di finire i suoi giorni nella sua Carnia amata, di riposare per sempre al suo paese, come tante volte mi aveva ripetuto di voler fare. E come giustamente ricorda la poesia incisa nella lapide sulla sua casa: «’I si dopo tanc’ ans / tornât al gnò paîs…».

 

© Riproduzione riservata   «L’Immaginazione» n. 269, maggio 2012

RECENSIONI

BORGNA

EUGENIO BORGNA, DI ARMONIA RISUONA E DI FOLLIA – FELTRINELLI, MILANO  2012

Le affermazioni che definiscono il senso e i fini della psichiatria, in questo volume del Professor Eugenio Borgna, sembrano essere molto più recise ed esplicite che nei suoi lavori precedenti (che nell’ultimo ventennio hanno indagato sempre, con estrema e profonda sensibilità, tutte le pieghe delle malattie dell’anima: dalla depressione alla schizofrenia, dalla solitudine alla malinconia): e forse è il caso di citarne alcune, nella loro convinta ed esigente severità.

«La psichiatria o è psichiatria sociale o non è psichiatria… scienza umana e non solo scienza naturale», «La psichiatria, quando si fa cura, non è se non incontro, dialogo, colloquio, comunità di destino, e non solo comunità di cura; … incontro fra un io e un tu che si realizzano fino in fondo solo nel noi, al di là di ogni categoriale distinzione fra malattia e non malattia, fra normalità e patologia…», «dilatare l’area della normalità nella follia, e della follia nella normalità».

Fautore appassionato di una psichiatria che sappia «scendere nelle strade», farsi ascolto empatico del dolore del paziente, Eugenio Borgna, da sempre considerato tra i più importanti clinici e studiosi della malattia mentale, a lungo solidale con la lotta di Franco Basaglia contro i manicomi («luoghi di sorveglianza e di esclusione»), esprime con categorica indignazione il suo rifiuto nei riguardi di cure farmacologiche e ospedalizzazioni che, evitando approcci più umani, attenti e partecipi alla sofferenza psichica, finiscono per produrre un «vortice di ostinati e persistenti fenomeni di emarginazione che trascinano con sé isolamento sociale e solitudine radicale». In questo libro l’autore si propone di indagare non solamente la malattia mentale in sé, ma anche quelle particolari fragilità, inquietudini, timidezze, ipersensibilità, emozioni ferite «oggi considerate come esperienze inutili e svuotate di senso: inconciliabili con le esigenze di efficienza e di produttività che sono gli idoli della modernità».
Da questi stati d’animo di accentuata emotività possono nascere anche folgoranti manifestazioni creative, non solo negli artisti più geniali, segnati talvolta da dolorose crisi psichiche, ma anche in comuni pazienti affetti da patologie: Eugenio Borgna include allora nelle sue pagine brani di diario, poesie, riflessioni strazianti e di fulgida bellezza di adolescenti autistici, di giovani anoressiche, di donne schizofreniche pietrificate nella non comunicabilità di un male oscuro e terribile, da lui avute in cura all’Ospedale Maggiore di Novara. E accanto a queste angoscianti espressioni e richieste di aiuto dei suoi pazienti, esplora con una partecipazione che è pure ammirata condivisione di eccellenze artistiche, le creazioni sublimi di poeti e narratori, pittori e registi, filosofi e mistici toccati da esperienze neurotiche o psicotiche di particolare gravità. Ecco quindi l’insondabile tormento espresso dai versi di Nelly Sachs e di Paul Celan, entrambi lacerati dalla tragedia della Shoah, o di altri poeti smarriti in una loro dolorosa e annientante solitudine come Hölderlin, Leopardi, Sylvia Plath, Antonia Pozzi, Georg Trakl (da una sua poesia è tratto il suggestivo titolo del volume). Poeti che sono arrivati talvolta ad immolarsi nell’estremo rifiuto del suicidio. Filosofi come Kierkegaard o Nietzsche o Simone Weil, scrittori come Virginia Woolf e Etty Hillesum, pittori come Van Gogh e Modigliani, straziati dalla follia, o altri in grado di rappresentare la malinconia con «affascinate risonanze emozionali»: Friedrich, Böcklin, Corot, e il nostro Daniele Ranzoni. Registi quali Lars von Trier o Bergman; grandi mistiche che hanno sperimentato l’estasi e il dubbio, la presenza luminosa e il silenzio di Dio: Teresa d’Avila, Teresa di Lisieux fino a Madre Teresa di Calcutta. Di ciascuno di loro Eugenio Borgna ci sa restituire le parole più disperate e toccanti, le più indifese e fragili, nella loro adesione alla ricerca dell’infinito e allo scandaglio del mistero che ci circonda. Esprimendo così la speranza che «anche un libro possa avere un suo significato nel sottolineare drasticamente la dignità della sofferenza psichica».

 

«Qui Libri», luglio 2013

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