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Alida Airaghi

Recensioni letterarie, testi editi

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INTERVISTE

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INTERVISTE

TESTA

Annamaria Testa e la poesia

 

 

15 Febbraio 2025

Annamaria Testa (Milano 1953), pubblicitaria, giornalista e saggista, inizia la sua carriera come redattrice pubblicitarianel 1974. Tra il 1983 e il 1996 è presidente e direttore creativo dell’agenzia pubblicitaria TPR, poi Bozell TPR, da lei fondata. Giornalista pubblicista dal 1988, collabora con diverse testate giornalistiche e con la RAI (Rai 3 sotto la gestione di Angelo Guglielmi), e si occupa di comunicazione politica. Dal 2012 ha una rubrica fissa sull’edizione online di Internazionale. Dal 1996, come consulente, realizza interventi di carattere strategico e progetti di comunicazione per imprese e istituzioni. Nel marzo del 2005 fonda a Milano la società Progetti Nuovi, che si occupa di progetti integrati di comunicazione. Nel 2008 ha messo online Nuovo e Utile, un sito non a scopo di lucro dedicato alla diffusione di teorie e pratiche della creatività. Tra il 2010 e il 2011 ha fatto parte della Giuria dei Letterati del premio Campiello. Nel 2012 è entrata nella Hall of Fame dell’Art Directors Club Italiano, prima donna pubblicitaria negli oltre 25 anni di vita del club. Dal 1989 al 1997 è stata docente al master dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha insegnato “Teorie e tecniche della comunicazione creativa” in varie università: tra il 1994 e il 1995 all’Università La Sapienza di Roma (facoltà di sociologia); dal 1998 al 2006 all’università IULM di Milano (facoltà di scienze della comunicazione); tra il 2001 e il 2002 all’Università degli Studi di Milano e all’Università degli Studi di Torino; tra il 2007 e il 2016 ha insegnato presso l’Università Bocconi di Milano, continuando ad essere consulente di diverse grandi aziende. Nel febbraio 2015 si è fatta promotrice dell’iniziativa #dilloinitaliano che mira a ridurre l’uso frequente e arbitrario di termini inglesi, il cosiddetto itanglese, in particolare nel linguaggio dell’amministrazione, aziendale e pubblicitario.

Tra le sue opere: Leggere e amare. 21 racconti, 1993 – Feltrinelli; Farsi capire. Comunicare con efficacia e creatività nel lavoro e nella vita, 2000 – Rizzoli; La pubblicità, 2003, Il Mulino; Le vie del senso. Come dire cose opposte con le stesse parole, 2004/ 2021 – Garzanti; La creatività a più voci, 2005 – Laterza; La trama lucente – Che cos’è la creatività, perché ci appartiene, come funziona, 2010/2023 – Garzanti; Minuti scritti – 12 esercizi di pensiero e scrittura, 2013 – Rizzoli; Il coltellino svizzero – Capirsi, immaginare, decidere e comunicare meglio in un mondo che cambia, 2020 – Garzanti – La parola immaginata (Nuova edizione, il Saggiatore 2024).

La figura del pubblicitario, tra quelle che operano all’interno del mondo produttivo, mantiene un’aura di creatività, fantasia e libertà da schemi preconcetti che lo avvicina al ruolo dell’artista. Ma mentre a quest’ultimo si demandano la critica e l’opposizione, chi opera nel marketing viene ritenuto di supporto acritico alla produzione consumistica. Ritiene sia realmente così?

Credo che non sia esattamente così. Da una parte chi fa oggi pubblicità ha perso quasi interamente l’aura che in Italia ha caratterizzato la professione nel suo periodo più brillante (e, diciamolo, più libero e creativo) tra l’inizio e la metà degli anni Ottanta. Sempre in quel periodo, l’uso diffusissimo dello humor, dell’ironia e del paradosso ha permesso a chi faceva pubblicità di produrre messaggi anche non esattamente acquiescenti nei confronti dell’esagerata pressione ed esortazione al consumo che è propria del marketing (il quale è tutt’altra disciplina, svolta da figure professionali del tutto diverse). Oggi la situazione è più sfumata. Il grosso della pubblicità non passa più dai mass media classici ma dai new media: sono i grandi social network che hanno modificato sia la dieta mediatica degli utenti, sia le scelte pubblicitarie e promozionali delle aziende. E, tra creator, influencer, esperti di SEO (Search Engine Optimization), content editor e altri ancora, le figure professionali si sono moltiplicate. Anche sul ruolo critico, sulla libertà e sull’indipendenza dell’artista avrei qualche dubbio e proverei a fare qualche distinzione in più. Oggi un regista cinematografico deve vedersela con le scelte (di marketing) operate dalle piattaforme di streaming. Un autore teatrale deve fare i conti coi finanziamenti governativi.  Un musicista deve sopravvivere con le elemosine di Spotify (e non è facile). Uno scrittore deve vedersela con le opacità e i numeri decrescenti del mercato editoriale. E tutti quanti (pubblicitari compresi) avranno i loro guai per via della crescente pervasività dell’intelligenza artificiale.

Poesia e pubblicità hanno tratti in comune nell’uso del linguaggio? L’utilizzo degli stessi artifici retorici (metrica, rime, assonanze, ripetizioni, filastrocche) accomuna entrambe? Ci può fare un esempio di qualche sua “invenzione” linguistica che si sia servita dei dispositivi specifici della scrittura in versi?

In realtà le filastrocche, le assonanze, le rime si sono usate in pubblicità soprattutto nel periodo tra le due guerre e nel secondo dopoguerra, direi fin quasi al termine degli anni Sessanta. Da allora in poi, la caratteristica emergente e la tipicità del linguaggio pubblicitario è consistita nella capacità della parola di integrarsi perfettamente con l’immagine che la accompagna (non a caso il primo libro che ho scritto, nel 1988, si intitola La parola immaginata. Parla di pubblicità, spiega proprio questa integrazione, è diventato un piccolo classico adottato nelle scuole e nelle università ed è stato ripubblicato infinite volte – l’ultima edizione, riveduta e aggiornata, è del 2024). Credo di aver usato i versi per qualche jingle pubblicitario (scelta per molti aspetti obbligata quando si scrive un testo che deve essere musicato). Credo di aver usato solo una volta rime e versi in un testo scritto: ma si trattava di un limerick (anzi, di una serie di limerick) intesi a promuovere in modo scherzoso un altrimenti noiosissimo software per la gestione di paghe e contributi. Oggi non riesco a recuperare i testi originali, ma si trattava di cose come C’era un ragioniere di Forlì/che a far conti penava ogni dì… Sto invece sempre, e molto, attenta al ritmo e al suono di quanto scrivo in prosa. Lo faccio anche quando non si tratta di un testo pubblicitario ma, invece, di un articolo o di un saggio.

Che rilievo hanno il registro comico, parodistico, o addirittura sarcastico, da sempre utilizzato anche in poesia, nel suo lavoro? Capita che la pubblicità prenda in giro se stessa?

Come dicevo prima, humor e ironia (e anche autoironia) sono stati ampiamente usati in passato. Oggi si vede in giro solo qualche raro esempio e, mi creda, è una vera boccata d’aria fresca. Il sarcasmo, no. Perfino in una campagna sociale, che ha ambiti di libertà espressiva molti più ampi di quelli propri di una campagna commerciale, il sarcasmo rischia di essere controproducente: la pubblicità è una forma di comunicazione persuasiva, e la persuasione è di per sé stessa delicata, articolata e seduttiva (altrimenti parliamo di propaganda, che è tutt’altra cosa: brutale, semplificata, imperativa).

Anche la poesia moderna, a partire dai Calligrammi di Apollinaire fino alle sperimentazioni di Lamberto Pignotti, accosta l’elemento visivo a quello verbale, utilizzando il segno grafico e l’immagine per accompagnare il testo. In quale sua campagna pubblicitaria tale abbinamento ha ottenuto più successo?

Mah, direi in tutte. Senza l’accompagnamento delle immagini insieme alle quali i testi sono stati progettati, gran parte dei testi stessi perde di senso. Cioè: proprio non si capisce. Le incollo qualche esempio nelle pagine che seguono.

L’uso della pausa, del silenzio, di termini settoriali (tratti dalla scienza, dalla musica, dalla medicina) e il plurilinguismo hanno avuto una funzione importante nelle sue creazioni?

Mah, la peculiarità del lavoro pubblicitario consiste soprattutto nell’invenzione di titoli brevi o brevissimi, scanditi dalla punteggiatura, adeguatamente impaginati e accostati a un’immagine. Quindi, la scrittura finisce subito… certo, nei rari casi di titoli più lunghi, gli a capo diventano importantissimi.  Pause: ci sto attenta quando scrivo testi lunghi (per esempio un saggio, o un articolo). Termini settoriali: il meno possibile, e solo quelli davvero indispensabili. Precisione del linguaggio: sì, ci sto attenta. Plurilinguismo: mi è anche capitato di scrivere qualche buon titolo in inglese, ma di norma cerco di scrivere in decoroso e piacevole italiano.

Tra i poeti contemporanei, ci sono voci che ritiene più vicine alla sensibilità giocosa e ironica del suo lavoro, o preferisce invece stili più impegnati, tradizionali o addirittura classici?

Non sono una gran lettrice di poesia, ma adoro Wislawa Szymborska. Ricordo come se fosse oggi la prima volta che mi sono imbattuta in una sua composizione: era un lungo testo riprodotto sul muro bianco di una mostra fotografica, alla Triennale di Milano. Credo che fosse Amore a prima vista. È stato tanti anni fa, e Google non c’era ancora. Mi sono scritta su un kleenex il nome dell’autrice stando bene attenta a non sbagliare con quell’accrocco di consonanti esotiche. E sono andata a cercarmi i libri: una scoperta folgorante.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 15 febbraio 2025

 

 

 

 

 

 

aggiornato il 15 Febbraio 202515 Febbraio 2025
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INTERVISTE

VALIGIE ROSSE


 
INTERVISTA ALLA REDAZIONE DELLA CASA EDITRICE “VALIGIE ROSSE”

Nata dal premio musicale intitolato al cantautore Piero Ciampi, la casa editrice Valigie Rosse è ispirata da un progetto audace e coraggioso: ricercare originali voci poetiche, italiane e straniere, di cui valga la pena amplificare la voce attraverso volumi che associano alla grande cura editoriale una stampa di particolare pregio.
Le pubblicazioni della casa editrice Valigie Rosse, oltre a plaquette di poesia, accolgono anche opere di narrativa, graphic novel e volumi che raccolgono testimonianze di storie vere e di progetti culturali.

  • Quando e dove è stata fondata la vostra casa editrice, per iniziativa di chi, e con quali motivazioni e finalità?

Valigie Rosse, prima che come editore, nasce come collezione di libri. Valigie Rosse è infatti il nome della sezione di poesia del famoso premio musicale intitolato al cantautore livornese Piero Ciampi. Nel 2010, in occasione del trentennale della morte dell’artista, Riccardo Bargellini (grafico), Valerio Nardoni (traduttore) e Paolo Maccari (studioso e critico letterario) presentano al premio un progetto molto proteso nel futuro: una collezione di libri, che potesse un giorno diventare una casa editrice.
Il nome di Piero Ciampi è legato soprattutto alla qualità dei suoi testi e della sua personalità fortemente poetica, indipendente, legata alla concretezza, mai aulica eppure delicata. La collezione di Valigie Rosse nasce dunque come ricerca di poeti di cui – a nostro avviso – valesse la pena amplificare la voce. Non viene premiato né un esordiente né un poeta già affermato, il premio Valigie Rosse – se così si può dire – è una sorta di primo premio alla carriera. Ogni anno vengono premiati due poeti, uno italiano (di cui si pubblica una plaquette inedita) e uno straniero, che viene per la prima volta tradotto in italiano.
Il progetto, di carattere no-profit, vanta un’indipendenza assoluta, ed è stato finanziato inizialmente grazie al contributo di 30 amici, a cui fu fatta questa promessa: dato che abbiamo coperto le spese, impiegheremo i proventi delle eventuali vendite nella pubblicazione del secondo libro… che vi regaleremo entro Natale. Così fu: oggi la collezione è composta di quattordici libri ed è un grande onore che sia stata segnalata sul numero 50 della rivista Testo a Fronte.

  • Quante persone collaborano al vostro progetto?

La redazione è attualmente composta da sette persone, che vi si dedicano spassionatamente: Riccardo Bargellini, Lisa Cigolini, Valerio Nardoni, Tiziano Camacci, Alessio Casalini, Silvia Bellucci, Tommaso Barsali.

  • Quali collane sono presenti nel vostro catalogo? Pubblicate anche ebook?

I nostri libri sono tutti stampati in offset. Alla prima collana se ne sono aggiunte altre tre: Gli asteroidi (una collana di libri di testimonianza, inaugurata con il libro di un utente del centro residenziale Franco Basaglia di Livorno, che ha richiesto due anni di lavoro); Beauty Case (di favole poetiche per bambini); e Fuoricampo (che accoglie progetti di promozione culturale, come “Ho visto il film”, dello scrittore Dario Pontuale, che contiene venti ritratti di libri). Tutte le collane sono attive ed hanno al momento un libro in lavorazione.

  • Qual è stato il vostro libro che ha riscosso più successo, di pubblico e di critica? In che modo riuscite a pubblicizzare i vostri prodotti? Le fiere e le kermesse editoriali servono, o è più efficace la comunicazione sui social?

I nostri due libri di maggior successo sono “Quando piove ho visto le rane” (2015) di Azzurra D’Agostino, e “Commiato da Andromeda” (2011) di Andrea Inglese – sono esaurite le 400 copie numerate in cui pubblichiamo i nostri libri – che proprio quest’anno è in parte confluito nel primo romanzo dell’autore “Parigi è un desiderio” (Ponte alle Grazie). Il successo di critica e pubblico è stato forte e immediato; anche la promozione è stata molto divertente: Andrea Inglese aveva infatti realizzato anche uno spettacolo ispirato al libro, in collaborazione con il gruppo Sara dei Vetri, che nel 2011 aveva vinto il Premio Ciampi.
Le kermesse sono senza dubbio utili, abbiamo partecipato al Pisa Book Festival per tre anni, ma i costi sono troppo elevati rispetto alle vendite, e abbiamo desistito.
La comunicazione sui social è importante ma anche inevitabilmente velata di apparenza; nel nostro caso, dato che promuoviamo progetti di libro, sono più importanti i contatti con le librerie, con i gruppi di lettura, con i promotori di iniziative culturali. Da pochissimo abbiamo inaugurato una collaborazione con la Scuola Carver, dedicata alla scrittura creativa.

  • Che tipo di difficoltà incontrate nel diffondere la vostra attività, e cosa vi augurate per il vostro futuro di editori?

Speriamo che la risposta non sembri troppo banale: i nostri problemi maggiori sono di ordine economico. La nostra motivazione (ognuno di noi fa altro nella vita) è quella di realizzare cose belle. Dal momento che ci siamo recentemente costituiti come Srls, per poter dare maggiore possibilità di visibilità e diffusione ai nostri libri, la gestione diventa molto più complessa e presuppone dei costi vivi ben superiori a quelli tipografici.
Il futuro verso cui stiamo spingendo questa attività è quello della sostenibilità di progetti culturali realmente indipendenti. Abbiamo maturato delle competenze che potrebbero permetterci questo lusso: in lavorazione abbiamo un libro bellissimo di filastrocche per bambini, di cui vorremo donare metà tiratura all’Ospedale Meyer, che l’ha già valutato ed ha concesso il patrocinio. Credo che ci riusciremo.

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/Intervista-editori-Valigie–Rosse.html    11 gennaio 2016

aggiornato il 9 Dicembre 201911 Gennaio 2017
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INTERVISTE

VALLORTIGARA

GIORGIO VALLORTIGARA E LA POESIA

Giorgio Vallortigara (Rovereto 1959) è professore ordinario di neuroscienze all’Università di Trento ed è stato Adjunct Professor presso la School of Biological, Biomedical and Molecular Sciences dell’Università del New England, in Australia. Si è particolarmente interessato alla cognizione numerica e alla predisposizione biologica al riconoscimento di agenti animati in vari modelli animali. È autore di più di 300 articoli scientifici su riviste internazionali e di libri a carattere divulgativo: Cervello di gallina (Bollati-Boringhieri, 2005), Cervelli che contano (Adelphi 2014), Pensieri della mosca con la testa storta (Adelphi 2021), Il pulcino di Kant (Adelphi 2023). Oltre alla ricerca scientifica svolge un’intensa attività di divulgazione, collaborando con le pagine culturali di varie testate giornalistiche e riviste.

 

 

  • Nel volume Lettere dalla fine del mondo. Dialogo tra uno scrittore che voleva essere uno scienziato e uno scienziato che voleva essere uno scrittore, pubblicato da La nave di Teseo nel 2021, lei affermava che tre attività umane le stanno profondamente a cuore oltre alla scienza: l’arte, la musica, la scrittura. Tra di esse, quale predilige con particolare partecipazione emotiva?

Senza dubbio la scrittura, anzi più precisamente la lettura. Sono un lettore vorace di romanzi ma anche di poesia. Non trovo che ci sia una differenza fondamentale con l’attività scientifica perché anche nella scienza si tratta di narrare delle storie. Certo la plausibilità della narrazione scientifica deve essere fondata sui fatti e la sua oggettività risiede nella intersoggettività delle osservazioni e degli esperimenti. La narrativa letteraria rappresenta invece un punto di vista unico e originale, quello del narratore. Forse per questo io la considero privilegiata rispetto al lavoro dello scienziato. Il tema della narrazione mi interessa anche dal punto di vista scientifico. Perché gli esseri umani sono così affascinati dalle storie? Si tratta evidentemente di un fenomeno biologico, perché è un universale della natura umana: dovunque ci sono stati esseri umani ci sono stati aedi, cantori, raccontatori di storie e poeti. La passione per le storie è ovviamente al servizio (o il sottoprodotto) della cosiddetta teoria della mente, la nostra peculiare abilità di interpretare i comportamenti degli altri individui attribuendo loro degli stati mentali (lui crede che, lei desidera che…), ma forse è anche un modo per fronteggiare la finitudine delle nostre vite. Come diceva Pessoa, «Leggo perché la vita non mi basta».

 

  • Sempre nella stessa stimolante conversazione con Massimiliano Parente, sosteneva che lo sguardo scientifico non distrugge la bellezza delle cose, ma semmai rende più consapevoli della loro ragion d’essere. Le capita di osservare un fenomeno naturale, un insetto, un albero, e soprattutto di leggere una poesia senza indagarla con la curiosità dello scienziato, ma semplicemente lasciandosi trasportare da una sensibilità di carattere sentimentale?

L’aspetto che lei chiama sentimentale in effetti è il più razionale, perché ha a che fare con l’esperienza cosciente, quindi inevitabilmente è anche quello dello scienziato. Il tipo di sguardo cui lei allude è forse quello dei sogni o della rêverie, dove è l’inconscio a farla da padrone. Lì pare essere collocata la fonte della rivelazione creatrice – che si esprima poi in un brano musicale, in un romanzo, in un esperimento scientifico o in una formula matematica poco importa. Il vero mistero, come ha notato recentemente lo scrittore Cormac McCarthy, è perché l’inconscio debba usare questi mezzi indiretti per comunicare: la metafora, l’allusione, l’immagine fugace… Non potrebbe fornirci in chiaro i suoi messaggi?

  • Scrittori e poeti: quali sono quelli a cui ritorna più frequentemente, con attenzione grata?

Sono sempre a disagio con questo tipo di domande, perché non voglio essere indelicato con qualcuno degli autori che amo scordandomi di menzionarlo. Quindi, solo perché forzato a farlo, dico due nomi: Borges per la prosa e Montale per la poesia. Perché? Forse perché tutti e due hanno «parlato» la scienza senza saperne alcunché, il che è quasi magico! Invece parlo più volentieri dei libri che ho appena letto o che ho sul comodino in questo momento. L’ultimo (e finale) McCarthy, Stella Maris (Einaudi) che è strepitoso, e la raccolta di Tutte le Poesie (Einaudi) di Giovanni Raboni, che confesso non conoscevo (“Le volte che è con furia che nel tuo ventre cerco la mia gioia è perché, amore, so che più di tanto non avrà tempo il tempo…”), ma anche ho trovato incantevole Ultima estate a Roccamare di Alberto Riva (Neri Pozza). Poi quei poeti che (inconsapevoli?) parlano a noi scienziati, per esempio Andrea Bajani in Dimora naturale che si fa neurobiologo (“In queste settimane tutti parlano / dei polpi, avrebbero il vantaggio / di un cervello non localizzato, / distribuito dappertutto. Pensavo / fossimo gli unici imperfetti / condannati dalla massa cerebrale. / Sono umani in stato terminale: / il farabutto si è metastatizzato”) o Gilda Policastro che si fa statistica matematica (“Non esce quel numero, / nessuno lo estrae: sceglie te / la statistica, il numero che sei / quando a decidere è l’ultimo crunch”). Potrei proseguire, meglio se mi fermo…

 

  • Commentando un po’ ironicamente, e da profana, il suo ultimo libro (Il pulcino di Kant, Adelphi 2023), in cui esamina approfonditamente la nascita e l’evoluzione della conoscenza nel cervello umano e animale, le chiedo se ritiene la predisposizione verso la scrittura poetica una dote innata o acquisita. Perché in alcuni adolescenti si manifesta spontaneamente, senza predisposizioni di tipo culturale assimilate in ambito familiare o scolastico, e altri invece sono totalmente sordi al richiamo della poesia?

Credo sia innata, ma ammetto di non averne le prove. Un po’ tutti questi talenti – per la musica, la matematica, la poesia – si manifestano precocemente e sovente in assenza di istruzioni specifiche. I poeti sono “nati imparati”, come si dice a Roma. Questo naturalmente non ci esime dal dovere di cercare di far accostare alla poesia i giovani a scuola e gli adulti anche altrove. Un mio collega, Emanuele Castano, uno scienziato cognitivo che si occupa degli esiti della familiarità con la lettura della narrativa letteraria di contro a quella di intrattenimento, ha mostrato come nel primo caso si affini sensibilmente la nostra capacità di cogliere e leggere gli stati mentali degli altri. Però c’è qualche controindicazione, perché non necessariamente questa acutezza psicologica rende più felici le nostre vite personali. I poeti lo sanno.

 

  • Ci può citare qualche verso che ricorda a memoria?

Nulla di terribilmente originale, ma tutte le mattine quando, passeggiando, specie in autunno, mi capita di avere il barbaglio dei raggi del sole negli occhi, mi viene automatico di recitare Montale: E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. Oppure, per immaginare di essere fieramente un uomo del Mezzogiorno anziché sommessamente tridentino, con accento imbarazzante recito senza cantarlo il testo di Luna Rossa di Vincenzo De Crescenzo: Vaco distrattamente abbandunato / ll’uocchie sott’ ‘o cappiello annascunnute / mane ‘int’ ‘a sacca e bávero aizato / Vaco siscanno ê stelle ca só’ asciute.

 

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 17 novembre 2023

 

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aggiornato il 17 Novembre 202317 Novembre 2023
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INTERVISTE

VENTRE

Cinque domande a Daniele Ventre

 

DANIELE VENTRE, POETA E TRADUTTORE

 

Daniele Ventre è nato a Napoli nel 1974. Nel 2010 ha pubblicato una versione dell’Iliade, che ha vinto il premio Marazza per la traduzione poetica. Nel 2012 è uscita il suo libro di versi  “E fragile è lo stallo in riva al tempo”. Fa parte della redazione del blog letterario Nazione Indiana.

  • Da quale realtà familiare e ambientale proviene e in che modo tale realtà ha influenzato le sue scelte culturali?

Provengo da una famiglia di insegnanti. Ovviamente, la presenza di una biblioteca piuttosto cospicua e fornita ha orientato i miei interessi piuttosto presto.

  • Che studi ha fatto e dove? Ha avuto esperienze formative anche all’estero?

Ho studiato e conseguito il dottorato all’Università degli Studi di Napoli; non ho avuto esperienze formative all’estero. Un’ anomalia nel “pedigree” del versificatore tipo, ma è così.

  • Attualmente di cosa si occupa, sia a livello professionale, sia per ciò che riguarda la sua produzione letteraria?

A livello professionale, insegno lingue e letterature classiche nei licei. Per quanto riguarda la mia produzione, lavoro ora per lo più sulla traduzione di Virgilio: sto inoltre riordinando alcune raccolte di poesie, fra cui testi in dialetto e in lingue morte, e sto cominciando a raccogliere materiali per un romanzo in prosa.

  • Quali sono le sue pubblicazioni più recenti e da quali poeti (classici e moderni) ritiene di essere stato più influenzato?

Recentemente è uscito un mio romanzo in versi, “Verso Itaca”, riscrittura del mito di Telègono, figlio di Odisseo e di Circe. Il libro mi è stato commissionato dalle Edizioni d’if, per cui uscì nel 2012 la mia prima raccolta di poesie. Un poeta che per me agli esordi ha contato molto è stato Gabriele Frasca. Quanto ai classici, dobbiamo mettere in conto tutta la poesia antica greca e latina; nel mare magnum delle letterature, un ruolo peculiare rivestono per me le epiche medievali dall’area ibero-romanza all’area slava, il teatro tragico francese classico, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e più ancora Mallarmé e ovviamente Eliot e Pound; pochi autori del secondo Novecento americano (Beat generation) e francese/francofono (Luca); la tradizione italiana fino al primo Novecento, e nel Novecento in specie Montale, le neoavanguardie & dintorni (Fortini, Sanguineti e Pagliarani, più che Pasolini), Luzi, il tanto (inopportunamente) disprezzato Quasimodo, Gatto o Sinisgalli, Zanzotto e Giudici; importantissimi sono stati per me anche Michele Sovente e Emilio Villa. La domanda è spinosa; gli incontri nella lettura di poesia sono molteplici e tutti influenti: un elenco che li comprenda rischia di suonare pletorico, monco, ridicolo. Per di più io diffido, quando si dice: “Trovo che Omero o l’Erodiade di Mallarmé o le poesie di Kavafis o gli esametri di Scialoja o Omeros di Walcott (cinque testi per me imprescindibili) siano il mio incunabolo”. L’esperienza di chi lavora sui versi è un’esperienza di lettore di versi. Di molti versi. Di un multiverso di versi.

  • Qual è il suo giudizio sulla poesia contemporanea italiana? Quali sono i nomi che considera più rilevanti e in che modo pensa si possa aiutare maggiormente a diffondere l’interesse per la poesia?

La poesia contemporanea italiana è piuttosto vitale, perfino nelle sue pulsioni suicide. Per diffondere l’interesse verso la poesia, sarebbe opportuna la creazione di una rete stabile, di una rete vera, meno vittimismo, meno autoritarismo residuale. Quanto ai grandi nomi, sono restio a farne, visto che le classifiche suscitano risentimento. Dirò che per me sono importanti personalità che appartengono a ambiti assai differenti: penso a Mariagrazia Calandrone, Antonella Anedda, Andrea Inglese, Marco Giovenale, Gilda Policastro, Michele Zaffarano, Andrea Raos, Lidia Riviello, che pure sento meno vicini alla mia maniera (alla quale alludo per mera necessità di orientamento), a Gabriele Frasca e Franco Buffoni; a poeti più in vista, come Franco Marcoaldi e Franco Loi; a poeti più defilati come Roberto Carifi, Mariano Bàino, Mimmo Grasso, Ariele D’Ambrosio, Bruno di Pietro, Viola Amarelli, Bruno Galluccio, Franz Krauspenhaar, Mariapia Quintavalla, Roberta Durante, Ferdinando Tricarico, Eugenio Lucrezi, Claudio Finelli, Carmine de Falco, Giovanna Marmo… Un altro canone umorale in ordine sparso.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Cinque-domande-a-Daniele–Ventre.html   10 febbraio 2016

 

aggiornato il 6 Settembre 201710 Febbraio 2016
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INTERVISTE

VILLATICO

INTERVISTA A DINO VILLATICO

Dino Villatico (Roma, 1941), dopo aver trascorso l’adolescenza in Argentina, si è laureato in lettere a Roma, perfezionando gli studi musicali da autodidatta. Si è dedicato all’insegnamento di italiano e latino nei licei, e di storia della musica nei conservatori. Per 45 anni è stato critico musicale del quotidiano “La Repubblica”. Oggi collabora a “Il Manifesto” e a diversi blog online. Ha da poco pubblicato presso l’editore Giuliano Ladolfi il volume di versi Ecografia di un congedo. Dal 2013 vive a Fiano Romano.

 

In quale ambiente familiare e culturale è nato e cresciuto, e in che misura tale ambiente è stato    determinante per le sue scelte di studio e di lavoro?

 Sono nato a Roma, giusto 80 anni fa, e mi sembra ieri che bambino assistevo al bombardamento dell’aeroporto di Centocelle.  Mi sembravano fuochi di artificio. Un contadino mi trasse dentro casa. Eravamo andati a procurarci cibo alla borsa nera. Poi da quella visione si sviluppò invece la paura del rumore degli aerei, che durò a lungo, quasi fino al mio primo viaggio in aereo, nel 1970, verso gli USA. La mia famiglia era una bella mescolanza regionale e internazionale: mio padre napoletano, matematico, mia madre ciociara, ma di padre veneziano e madre calabrese, bisavolo scozzese. Rami della famiglia a Verona, a Parma. Fin da bambino dunque l’orecchio abituato a diverse parlate. Quando andavamo a Verona a trovare una sorella di mio nonno, facevo da interprete per mio padre che non capiva i veronesi. E anche mia zia parlava veronese. A Parma feci l’orecchio con la parlata emiliana, più tardi sarebbe stata una guida per imparare il milanese e leggere Porta. Sia mio padre sia mia madre, che aveva studiato l’arpa, amavano la musica. Mia nonna suonava il pianoforte, e ho sentito da lei, il mio primo Chopin, il mio primo Beethoven. Ma lei amava soprattutto Mendelssohn. Un suo modo, durante il fascismo, per dimostrarsi contraria alle leggi razziali. Ma l’episodio più importante della mia infanzia e adolescenza fu il trasferimento in Argentina. Mio padre era stato nominato professore di geometria analitica all’Università di La Plata, per aprire una succursale a Bahía Blanca, oggi Universidad del Sur. L’impatto con la lingua spagnola fu decisivo, mi aprì la strada ad altre lingue. Già avevo l’esperienza dei dialetti: ne capivo e parlavo tre, napoletano, romano, veneziano. Ma capivo anche l’emiliano e il milanese. In Argentina studiai, a scuola, anche l’inglese. Il francese e il tedesco vennero all’università. Intanto, tornato in Italia, al liceo avevo appreso il greco e il latino, che non ho abbandonato più. Anzi mi esercitavo a scrivere esametri latini.

 

La sua esistenza è stata segnata da due grandi passioni: musica e letteratura. Quale delle due ha privilegiato professionalmente, e in che modo si sono influenzate a vicenda?

 A Bahía Blanca cominciai a studiare il pianoforte. Che proseguii in Italia, affiancandovi gli studi di composizione. A lungo restai incerto se dedicarmi alla musica o alla letteratura. Vinse la letteratura, e non terminai gli studi musicali. Anche se in privato, da autodidatta, li completai.

 

Quali sono stati (e sono tuttora) i nomi di riferimento che più hanno contribuito alla sua formazione intellettuale e umana?

 Che domanda complessa, alla quale è difficile rispondere. Intanto musica e letteratura hanno proseguito a interessarmi con sempre maggiore insistenza. I miei idoli musicali giovanili furono Chopin e Beethoven. A 18 anni ci fu l’impatto con Stockhausen, che mi sconvolse. Era il suo primo concerto romano, forse in Italia, salii sul palco, volevo conoscerlo. Dopo anni, in un nuovo incontro mi riconobbe: sei quel pazzo che è salito sul palcoscenico a chiedermi l’autografo. Restammo in contatto. Ma ancora più radicale fu l’influsso di Boulez, di Nono, di Berio. Mi onoravano della loro amicizia. In letteratura fu decisivo l’incontro con Vittorio Sereni. Gli scrissi dopo l’uscita de Gli strumenti umani, libro che mi sconvolse. Mi rispose. E ci vedevamo ogni tanto. Ma l’impatto più forte fu, per il romanzo, con Proust, per la poesia con l’ultimo Montale, quello di Satura, per intenderci, e con Dylan Thomas. Da giovane ebbi una vera e propria passione per Alfieri. Che m’introdusse al teatro. Shakespeare! Accadde anche qualcosa di strano: Dante l’ho sempre letto come un poeta di oggi. Il suo lavoro sulla lingua mi è sempre parso un modello. La mia tesi di laurea la scrissi su un poligrafo fiorentino del ‘500, Antonfrancesco Doni, anche musicista. E scoprii il madrigale. Ma anche l’Ariosto, e il Tasso, mai più abbandonati.

 

Nello scrivere versi, ritiene incidano di più le esperienze esistenziali, con i loro contraccolpi emotivi, o invece la riflessione teorica, l’ideologia, il lavoro sui testi? 

Tutt’e due le cose. Spesso l’idea nasce da un’esperienza, un’emozione. Ma anche una lettura, un episodio politico. Non scrivo tuttavia di getto. Ho un quaderno che porto sempre con me, butto giù gi schizzi, le idee, spesso nascono già formalizzate in versi. Un tempo ero ossessionato dal sonetto. Nelle altre lingue se ne scrivono ancora. Perché gli italiani sembrano rifiutarlo? Ho scritto per anni versi liberi. Poi mi è venuto naturale scrivere endecasillabi, non devo nemmeno contare, nascono da sé. Forse ciò si deve al fatto che scrivo in versi anche il mio teatro. Non solo monologhi, ma anche monologhi. Due li ho recitati io stesso, e con successo. Emozionante recitare l’addio di Petrarca a Venezia, la sua ultima notte nella città, proprio a Venezia, al Teatro La Fenice. Era uno spettacolo della Biennale Teatro. La musica la composero alcuni miei cari allievi del conservatorio, oggi miei cari amici. Una commedia, anch’essa in versi, fu recitata al Teatro Belli, a Trastevere: Con il passare degli anni. La regia era di Marco Maltauro. Piacque. Il teatro era pieno tutte le sere.

 

Si considera debitore verso qualche poeta in particolare? La sua approfondita conoscenza di diverse lingue e culture, antiche e moderne, come ha arricchito la sua sensibilità verso la pratica di scrittura?

 Sono molti i poeti dei quali mi sento debitore. Antichi e moderni. Per esempio, Lucrezio mi ha insegnato che si può fare poesia anche con il pensiero, che la poesia non è solo, romanticamente, effusione di sentimenti. Orazio non mi piaceva da giovane, oggi lo adoro, per la sua abilità metrica e per l’uso disinvolto della sintassi. Ammiro molto la capacità costruttiva di poeta. Non a caso vado matto, come Dante, per Arnaut Daniel o per il catalano Ausiàs March e per lo stesso Dante. Ma ero ancora studente e mi colpì una poesia di Dylan Thomas composta di solo due lunghissime strofe di circa 30 versi ciascuna, in cui le rime procedono a specchio. La seconda strofa ripropone a specchio tutte le rime della prima. E sto parlando di un grandissimo poeta. Questo lavoro “artigianale” della scrittura nelle altre lingue è vivissimo. Borges scrive sonetti.  Clancier scrive bellissime chansons.

Che giudizio si sente di dare, oggi, del panorama letterario e musicale italiano contemporaneo? Quali sono le personalità che considera più rilevanti, e attraverso quali mezzi ritiene si possa incrementare l’interesse per questi due ambiti artistici?

Difficile rispondere. In linea generale la letteratura e la musica italiana di oggi mi deludono. Come mi deludono le canzoni, se paragonate a ciò che si ascolta fuori d’Italia. Per esempio quest’innografia di Battiato mi irrita. È un musicista mediocre e un poeta inesistente. Se ne parla e se ne scrive come fosse Bob Dylan, lui sì grandissimo. Così mi delude anche il cinema che si fa oggi. Ma ciò detto, esistono anche in Italia voci nuove, interessanti. Alcune pur troppo scomparse, come Ferruccio Benzoni. Sotto silenzio per decenni, ora lo si riscopre. Ci sono giovani narratori bravissimi, che non si lasciano appiattire dagli editor. Faccio due nomi a caso: Luciano Funetta e Massimiliano Felli. Ma in genere la letteratura è governata dagli editor, che tendono a banalizzare tutto ciò che leggono, con il risultato che si pubblicano romanzi tutti uguali, tutti scritti con la stessa prosa di una sciatteria che grida vendetta. Quanto alla poesia, ci si illude, in genere, che sciorinando pseudoversi, che sembrano versi solo perché si va a capo, versi banali e sciatti, si sfugga alla trappola delle neoavanguardie. Il verso libero non significa liberarsi di un ritmo. Del resto, nemmeno la prosa è senza ritmo. I veri poeti, come sempre, sono pochissimi. E ce ne sono, comunque.

 

Di cosa si sta occupando attualmente, e quali lavori inediti progetta di pubblicare nel prossimo futuro?

 Cominciamo dalla fine. Ho un romanzo, finito 20 anni fa. Il suo difetto è che il protagonista sia Aristotele. Gli editori mi rispondono sempre allo stesso modo: avvincente, scritto bene, ma troppo colto, non troverà lettori. In Francia, per Gallimard (Gallimard! Come dire Mondadori, Einaudi), Christoph Ono-dit Biot ha pubblicato un romanzo, affascinante, il cui protagonista è un filologo classico, e cita interi passi di Omero in greco. Non credo che il lettore medio francese sia più colto del lettore medio italiano (o sì?), ma l’editore gli dà fiducia. Il romanzo è tra i primi in classifica. Perché da noi non è possibile? Poi c’è una serie di racconti, due già pubblicati, ma mi piacerebbe raccoglierli in volumi. Mi si dice che il racconto non va. Poi ci sono le poesie, tante. Sto lavorando a un nuovo romanzo. Di argomento contemporaneo. Ma preferisco tacerne. Avevo in progetto anche di scrivere il processo che l’Inquisizione intentò al figlio di Monteverdi, per sua fortuna finito bene, ma che costò al padre grande angoscia, due decenni prima era stato bruciato Giordano Bruno, e non erano passati che pochi anni dal processo a Galilei. Leggendo quelle carte si è colti dallo sconforto. L’anima nera, buia, sotterranea degli italiani: delatori, bugiardi, persecutori, sempre pronti a perseguire qualcuno. Il fascismo non si è inventato niente. A denunciare il figlio di Monteverdi all’Inquisizione fu un suo compagno di studi all’Università di Bologna, che aveva scambiato libri di anatomia – allora proibiti in Italia – per libri di negromanzia. Sembra qualcosa successo ieri. Ma per il momento mi sono arenato alle pagine di disperazione di un padre. Che forse è la nostra disperazione per un mondo che sembra accanirsi proprio su chi è incolpevole.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 26 maggio 2021

aggiornato il 31 Maggio 202126 Maggio 2021
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INTERVISTE

ZUCCO

 Intervista al professor Rodolfo Zucco, critico letterario

RODOLFO ZUCCO,

CRITICO LETTERARIO E DOCENTE UNIVERSITARIO

 

  •  Seguendo quale vocazione si è dedicato all’approfondimento della letteratura italiana?

Ho deciso che mi sarei iscritto a Lettere a diciassette anni. Ricordo di aver dato la notizia a mio padre con qualche titubanza, perché lui – impiegato in uno studio notarile – mi immaginava geometra. Non che fosse deluso, perché aveva avuto, da giovane, ambizioni artistiche (aveva praticato la pittura, da dilettante) ed era rimasto un appassionato di arte e di antiquariato. Quanto a me, scelta del corso di laurea a parte, avevo le idee confuse. E rimasero confuse fino al giorno in cui un compagno mi invitò a una lezione di Fernando Bandini, che insegnava, a Padova, Stilistica e metrica italiana. A quel punto – con la frequentazione del Circolo filologico, i seminari e le lezioni di Mengaldo, le conversazioni con i nuovi compagni di studi – quello che volevo fare mi diventò subito chiaro. La mia passione per gli studi metrici incrociò quella per la poesia contemporanea; quindi proposi a Bandini di seguirmi in una tesi su Giudici, e di lì è venuto il resto.

  • Quali sono i suoi campi di interesse più specifici e come riesce a conciliare indagini critiche su periodi storici lontani tra di loro?

La verità è che ho sempre lavorato su un arco temporale piuttosto stretto: dal Settecento al Novecento. Da qualche anno ho ridotto ulteriormente il mio campo di interesse alla poesia del Secondo dopoguerra, in particolare a quella sviluppatasi in area lombarda a partire dagli anni Cinquanta-Sessanta, con qualche escursione: De Signoribus, Insana, Viviani. Negli ultimi dieci anni ho avuto occasione di studiare (con soddisfazione) qualche poeta di area friulana, giuliana e veneta (soprattutto Biagio Marin).

  • Ritiene che l’università italiana sia in grado di preparare al meglio futuri studiosi di letteratura e con quali prospettive di occupazione futura?

Di certo insegnano, in molte università italiane, docenti della mia generazione che sono da tempo degli ottimi maestri, e stanno crescendo molti eccellenti giovani studiosi. A questi però i risibili investimenti dei governi italiani nell’università e nella ricerca danno pochissime possibilità. Occorre guardare all’estero: il che non è necessariamente un male: ma sarebbe bello che si trattasse di una libera scelta.

  • Recentemente ha curato l’edizione critica di due Meridiani Mondadori, dedicati a Giudici e Raboni. Quali sono state le difficoltà maggiori riscontrate nella preparazione dei due volumi? L’operazione ha avuto successo di pubblico e di critica o lei riscontra un sostanziale disinteresse nei confronti della poesia contemporanea?

Non sono le difficoltà, che mi tornano alla mente, ma solo una grande gioia (anche la gioia di superare qualche difficoltà). Amo molto questi poeti, e ho imparato, commentandoli, ad amare l’arte del commento. Al «Meridiano» di Giudici avrei voluto poter dedicare più tempo; non mi dispiacerebbe ritornarci. Nel complesso, sono più contento del «Meridiano» di Raboni, sul quale sono stato tre anni. Quanto alla critica, mi pare che abbia accolto abbastanza bene i due volumi. Ma de I versi della vita c’è stata una sola ristampa, de L’opera poetica nemmeno quella. Gli editori hanno optato rispettivamente per un «Oscar» (che ha il grave difetto di non ripresentare l’ultimo libro di Giudici, Da una soglia infinita) e per due volumi nella «Bianca».

  • Ci può indicare alcuni nomi di poeti italiani che apprezza particolarmente?

Quelli su cui ho scritto. Recentemente ho scoperto Federico Hindermann: un grande.

  • Di cosa tratta l’ultimo volume di critica letteraria da lei pubblicato?

È un volume che ho fatto grazie all’interessamento di Andrea Cortellessa. Si intitola ospiti discreti, è uscito da Aragno due anni fa, e raccoglie nove saggi (su Sereni, Caproni, Giudici, Raboni, Magrelli, Bandini, Insana, De Signoribus e Benzoni). L’idea era quella di fare un libro di Selected essais, ma che fosse anche una traccia del mio percorso intellettuale e biografico..

  • Sappiamo che scrive poesia. Avverte nella sua produzione qualche influenza o eredità rimandabile a un autore del nostro ’900? Può citarci il suo verso che le sta più a cuore?

Sono autore di versifications (Genette) e di loro aggregazioni in pastiche. Quella della versification è una tecnica già usata da molti: posso citare Raboni, Volponi, Scialoja, Magrelli; Pagliarani ci ha fatto dei bellissimi libri. Un amico mi ha segnalato quelle di Carver, quasi tutte da Čechov. Cinque versi:

Non credo già che niuno, / non avendomi in pratica, / mi potesse conoscer, tanto io / son mutato con questi / abiti…

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/intervista-rodolfo-zucco.html      27 novembre 2015

 

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