Mostra: 61 - 70 of 72 RISULTATI
INTERVISTE

RIMI

Poesia e scienza: sei domande a Margherita Rimi
POESIA E SCIENZA: SEI DOMANDE A MARGHERITA RIMI

 

Margherita Rimi è nata a Prizzi (PA) e risiede in provincia di Agrigento. Poetessa, medico e neuropsichiatra infantile, svolge da anni una intensa attività di prima linea per la cura e la tutela dell’infanzia e dell’adolescenza, lavorando in particolare contro le violenze e gli abusi sui minori e a favore dei bambini portatori di handicap. Tra le sue raccolte in versi, sono da segnalare: “Per non inventarmi” (Kepos, 2002), “La cura degli assenti” (LietoColle, 2007), “Era farsi. Autoantologia 1974-2011”, (Marsilio, 2012; Premio Laurentum, 2012 e Premio Brancati Zafferana, 2013; Segnalazione Speciale Stefano Giovanardi, 2013); “Nomi di cosa. Nomi di persona” (Marsilio, 2015). Nel 2014 le è stato conferito il Premio Città di Sassari alla carriera, e nel 2016 ha ricevuto un riconoscimento dall’Unicef-Italia.

  • Nella sua formazione culturale è nato prima l’interesse per la poesia o quello per la scienza?

Non c’è un prima e un dopo: la curiosità per la scienza (intesa come bisogno di esplorazione della natura, degli animali e dell’uomo) e quella per la letteratura (come passione per le parole, interesse per la lettura) sono nate quasi incrociandosi, legate alla curiosità della conoscenza e del mondo. Alle Elementari sottolineavo parole, frasi e scrivevo, nei margini bianchi dei libri, delle parole chiavi, che richiamavano l’argomento: per me utili per imparare meglio e prima. I libri che dovevano tenersi per disciplina puliti, io li imbrattavo e di questo mi vergognavo: quelli dei miei compagni erano lindi. In adolescenza, grazie alle lezioni di validi professori del Liceo Classico (ad Agrigento) sono stata più consapevole della grande passione sia per la letteratura, che per gli argomenti scientifici. Nella scelta universitaria, poi, tra Lettere e Medicina ha prevalso la Medicina, l’aspetto umano della cura e del prendersi cura dei malati. Pensavo nella mia giovinezza di salvare tante vite umane, ed è capitato qualche volta nella pratica del mio lavoro in Pronto Soccorso. Ma la letteratura era là, non mi lasciava. Insieme ai libri di medicina leggevo tanti testi letterari, e testi di psicologia che, per tipologia e contenuti, si avvicinavano alla conoscenza dell’animo umano.

  • Quali sono i poeti e i narratori che hanno avuto un ruolo più rilevante nell’avvicinarla alla scrittura?

Mi hanno avvicinato alla scrittura, prima di tutto, i libri scolastici e qualche classico per l’infanzia (“Giannettino”, “Pinocchio”, “Alice nel paese delle meraviglie”). Successivamente i classici greci e latini, la Divina Commedia, la Bibbia, la letteratura russa (Gogol’, Čechov, Tolstoj, Dostoevskij). Tra le autrici ho trovato molto particolare la scrittura di Ágota Kristóf e Herta Müller. Letture fondamentali sono state le “Operette morali” di Leopardi, le opere di Pirandello, Sciascia, Vittorini, Giuseppe Pontiggia. Tra i poeti Bacchini, Porta, Enzensberger, Birgitta Trotzig, Ana Blandiana, solo per citarne alcuni.
Ad avvicinarmi alla scrittura non sono stati solo i testi di letteratura, ma anche di argomenti medico-scientifici e anche diversi autori psichiatri e psicoanalisti (Winnicott, Alice Miller, Ferenczi).

  • In che modo la sua professione medica e la sua produzione letteraria si influenzano reciprocamente?

Penso che in tutti e due ci sia un primario bisogno di verità e di conoscenza, una ricerca di bellezza. Nel mio lavoro c’è la bellezza di prendersi cura dell’altro, nell’ascolto e nello scambio, nella costruzione di una relazione e nella conoscenza reciproca; e c’è anche un andare verso la verità attraverso la parola. Non si procede, però, solo con tecniche medico-scientifiche e psichiatriche, si tratta di un processo che coinvolge anche l’aspetto umano. E nella mia produzione letteraria è lo stesso, vi è la ricerca di una verità umana e della bellezza: nella scelta della parola, nella disposizione dei versi, nell’ascolto del sentimento e del pensiero, del suono, nella costruzione di significati e di senso. È così che, nella creazione poetica, avviene pure una forma di conoscenza, non solo di se stessi, ma anche di un sapere che va oltre il dato di circostanza. Penso che l’arte e la poesia vadano oltre la scienza stessa, oltre la contingenza, perché tendono a cogliere aspetti di eternità e universalità dell’essere umano. Ma lo spirito con cui mi pongo di fronte a tutti e due è lo stesso. Il lavoro con i bambini malati ha affinato la mia sensibilità anche linguistica e la mia capacità di comprensione sia razionale che emotiva. I bambini stessi hanno rappresentato una guida nella mia ricerca di verità. Imparando ad interagire con loro, ho imparato come una nuova lingua, che è divenuta parte della mia ricerca poetica. C’è un dialogo continuo tra poesia e scienza: parte del linguaggio medico-scientifico e psichiatrico viene assunto dalla parte poetica, viene integrato alla lingua e al sapere della poesia. Ma lo scambio non è meramente linguistico o di trasferimenti di parole settoriali e tecnicismi vari dall’uno all’altro campo, sic et simpliciter dalla medicina alla poesia; sarebbe solo un abbellimento, un vezzo, un artefatto, una ostentazione del sapere scientifico, sfruttando la poesia. Tra il sapere medico-scientifico, psichiatrico e la poesia c’è uno scambio attraverso cui passano valori umani e sentimenti, studi, conoscenze e tecnica, esperienze e percezioni, scelte etiche e di pensiero, consapevolezza di libertà. E, lo ripeto, una comune spinta verso la verità. La medicina impara dalla poesia e la poesia dalla medicina. La poesia ha fatto suo un dialogo tra il sapere letterario e quello scientifico, ma alla fine è la poesia stessa che assorbe gli altri linguaggi per farne una creazione artistica.

  • Ritiene che la poesia abbia una funzione non solo didattica e culturale, ma anche qualche utilità terapeutica nella sua attività di neuropsichiatra infantile?

Non uso la poesia come strumento tecnico nella terapia con i bambini. Ma le parole, poiché fanno parte del processo terapeutico, possono, nell’interazione e nel dialogo con il bambino, assumere una struttura e valenza poetica e artistica. Succede che tra me e il bambino nasca, a tratti, una vera e propria lingua poetica come una lingua comune, la quale sembra potenziare l’effetto terapeutico. Penso comunque che l’arte, in tutte le sue forme, possa giovare al trattamento di tante malattie. Del percorso terapeutico, dunque, possono far parte anche tecniche che appartengono all’arte (musica, poesia, narrazione, pittura, teatro) oltre che, naturalmente, i trattamenti psicoterapici delle diverse scuole.

  • Come vive il rapporto tra lingua scritta e parlata, tra italiano e dialetto? Secondo quali direttive trova più facile e arricchente esprimersi?

Non penso alla scissione tra lingua scritta e lingua parlata, né tra italiano e lingua siciliana o altre lingue. Li sento e li vivo insieme, come a dire che una sola forma non basta e che una sola lingua non basta. La poesia ha bisogno di tutto questo. Mi affascina molto la lingua parlata la parola parlata, parlata da chiunque, che sono spesso fonte di ispirazione: di parole o frasi, di suoni, da cui, attraverso una rielaborazione artistica, può svilupparsi un componimento poetico. Ricordiamoci che prima di imparare a scrivere abbiamo impariamo a parlare.
Nell’ultimo mio libro di poesia “Nomi di cosa. Nomi di persona” (edito da Marsilio, con risvolto di Amedeo Anelli e foto di copertina donata da Letizia Battaglia che ringrazio entrambi) ho utilizzato anche parole e frasi, oltre che in siciliano, in francese e inglese, come un’incisione, un innesto sull’italiano. Penso di avere potenziato e arricchito la mia lingua poetica. Questo non l’ho fatto per abbellire, per ornare o per esercizio estetizzante, ma per una necessità di ricerca linguistica, di sperimentazione; per dare più forza, più bellezza e varietà di suono alla mia poesia. Appunto quando una lingua non basta. Così accade anche con il linguaggio scientifico: il suo utilizzo è piegato alla poesia, alla sua arte della parola. È la poesia che comanda.

  • Quali sono i problemi che più la coinvolgono nel suo relazionarsi con i piccoli pazienti e con le loro famiglie? Ritiene che la medicina e la situazione sanitaria in Italia e in particolare in Sicilia godano di sufficiente attenzione da parte del potere politico? In che maniera si potrebbe rendere più efficienti ospedali e ricerca?

I problemi sono la carenza di figure professionali: l’assistente sociale, il pedagogista, con i quali si dovrebbe lavorare in equipe e nell’ottica di una integrazione multidisciplinare. In particolare nel caso della cura dei bambini è indispensabile anche un lavoro con i genitori. Nonostante la carenza di personale e altro, la situazione sanitaria italiana regge. Nel riordino del sistema sanitario, si sono introdotte delle regole proprie delle aziende private (l’attenzione ai costi e ai risultati). Mi auguro che la politica e i governi non dimentichino mai che la salute è un valore umano inestimabile e non un prodotto commerciale.

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/Poesia-scienza-MargheritaRimi.html       2 settembre 2016

 

 

 

INTERVISTE

RONCHI

 

 

 

INTERVISTE

RUCHAT RONCATI

floraFLORA RUCHAT RONCATI, ARCHITETTO

  •  Non è del tutto scontato che una donna eserciti la professione di architetto arrivando a occupare una posizione di grande rilievo nel suo paese, proponendosi, quindi, come punto di riferimento. Che ruolo hanno avuto, nella sua formazione, se non nella sua vocazione, l’ambiente familiare e quello culturale in cui è cresciuta?

Tendo quasi istintivamente a smitizzare il concetto di “vocazione” nel senso di richiamo imperioso a esercitare una particolare funzione nella vita. Credo che molte delle esperienze che ci troviamo a vivere siano piuttosto frutto del caso, di una serie di circostanze spesso imprevedibili. Almeno, a me è capitato che le grosse scelte – quelle gravide di conseguenze anche esistenziali – si siano imposte quasi da sole: penso agli studi a Zurigo, ai primi lavori in Ticino, alla parentesi romana. Comunque, può anche aver avuto un suo peso il fatto che io sia nata da una famiglia di costruttori, e che quindi abbia respirato sin da piccola un certo tipo di problematiche (ma anche un vocabolario, una sensibilità) relative al mondo dell’edilizia. Intendiamoci, mio nonno era muratore, e ha vissuto tutto dall’interno il destino del ticinese emigrato costretto a mettere radici in vari paesi…

  • Il Ticino, appunto, tradizionalmente considerato fucina di architetti, che importanza ha avuto nel plasmarla: prigione o trampolino?

Mi ha ovviamente condizionata, nel bene e nel male: gli anni del liceo a Lugano sono stati molto intensi, fondamentali soprattutto da un punto di vista affettivo. Ma già allora provavo prepotente la voglia, la spinta a evadere, a uscire dai suoi confini, a confrontarmi con una realtà più vasta…Zurigo è stata una scelta obbligata: era in pratica l’unico sbocco per chi – ticinese – volesse andare all’università, perché la guerra, ma in particolare il fascismo, avevano interrotto il rapporto con l’Italia che si è ricucito solo molti anni dopo. Ho vissuto Zurigo, all’inizio, con un senso di estraneità pressoché totale: la barriera della lingua costituiva una specie di diaframma tra noi e l’esterno, ancora oggi mi accorgo di non possedere il tedesco pienamente… Ma la città mi coinvolge sempre di più, tant’è vero che ogni volta che mi si è offerta l’occasione di tornarci l’ho colta al volo.

Ritornando al periodo degli studi, parecchi problemi hanno condizionato tutti quegli anni. Ricordo comunque con gratitudine e rispetto in particolare la figura di Tami, ma anche quelle di Roth e Waltenspühl, miei docenti all’ ETH. Un primo concorso pubblico, che poi ho vinto, ha segnato il mio inserimento forzato nella professione, e il ritorno in Ticino. Qui – ed è la seconda fase del rapporto con il mio cantone – per dodici anni ho lavorato a una serie di progetti nel campo dell’edilizia scolastica e residenziale, sia da sola sia in collaborazione con altri colleghi. Oggi torno spesso in Ticino, ma quasi essenzialmente per godere di quelle amicizie e di quegli affetti (persone e spazi) che durano una vita…

  • Recentemente, in una conferenza all’ETH, ha esordito affermando che «parlare architettura» è più facile che «parlare di architettura». Premesso che sono convinta che lei sappia fare molto bene entrambe le cose, quali sono state le tappe più significative della sua attività?

Negli anni ’60 si viveva in un clima particolare, pieno di entusiasmi e di utopie. Lavorare nell’edilizia scolastica significava anche essere coinvolti in un grosso processo pedagogico, e quindi politico, che mediavamo attraverso la nostra unica arma: l’architettura, a cui allora attribuivamo un ruolo strutturale, convinti che anche attraverso il discorso architettonico si potesse cambiare il mondo. Ciò comportava prese di posizione, polemiche, spesso anche rischi economici. Di quel periodo vorrei menzionare i progetti dell’asilo di Chiasso, della scuola di Riva S.rVitale e dell’asilo di Viganello. Agli anni ’70 appartiene invece una realizzazione molto discussa, il bagno pubblico a Bellinzona, in collaborazione con Galfetti e Trümpy, che è stato in pratica il mio intervento conclusivo in Ticino. Nel ’75 mi sono trasferita a Roma, dove ho vissuto per un decennio, e questa esperienza ha soddisfatto una mia ansia di uscire dai confini della Svizzera, di confrontarmi con altre realtà che mi portavo dentro dall’adolescenza. Roma è una città che comunque non può lasciare indifferenti, incide a fondo. Vivere a fianco di tanti esempi di splendida armonia architettonica, stratificati in duemila anni di storia, è un continuo stimolo: e in confronto aiuta anche a ridimensionarsi, riducendo le ambizioni. Purtroppo a Roma, quando si tratta di produrre praticamente (mi occupavo soprattutto di progetti residenziali e di recupero nel meridione), il discorso si fa complesso, ci si scontra con difficoltà di ogni genere, dalle preesistenze archeologiche, ai vincoli normativi, alle pastoie politico-legali, a un’inerzia atavica che rende tutto più difficile, ma comunque sempre coinvolgente e in qualche modo possibile.

Nell’85 mi è stata offerta la cattedra di Progettazione all’ETH di Zurigo, e ho accettato con qualche titubanza ma soprattutto con curiosità. Una scommessa! L’impegno didattico mi assorbe moltissimo, più del previsto, ma cerco di non trascurare il mio lavoro più propriamente pratico, confrontandomi e verificandomi continuamente con esso. Solo così penso sia possibile travasare onestamente qualcosa di proprio nell’insegnamento quotidiano; è facile altrimenti farsi spremere come un limone, e rimanere a secco…

  • Il lavoro di uno scrittore, di un pittore, è reso inconfondibile da stilemi personali, da segni di riconoscimento. Qual è il tratto che più caratterizza le sue opere?

Penso faccia stato la storia: gli infiniti esempi noti e meno noti che ci precedono costituiscono la linfa del nostro lavoro di «ricerca paziente». Evidentemente tra essi emergono figure che ci sono più consone e ci accompagnano costantemente allargando ( ma in qualche modo anche limitando, con le necessarie esclusioni) il repertorio di riferimento. È probabile che chi guarda un mio disegno, osserva una mia realizzazione, riesca a individuare una verità che mi appartiene. Anche se un architetto non è mai del tutto autonomo nel suo lavoro, deve rispondere delle sue scelte a un committente, ed è vincolato da precisi limiti e condizioni da rispettare… L’architettura è cambiata pochissimo, eppure è databile: ecco, il tentativo è quello di rispondere ai problemi di oggi con i mezzi di oggi, in un linguaggio attuale, vivo.

  • Esiste una specificità femminile nell’architettura?

Ci credo poco. In ciò che risulta dal lavoro direi di no: alla fine il progetto è lì, «in carne e ossa», o sulla carta, e il suo valore o il suo livello si giudica in assoluto, senza distinzioni di sesso. Esiste, invece, un modo diverso di lavorare: la donna è più insicura, quindi più capace di recepire positivamente la critica e di rimettersi in discussione, proprio perché da poco è arrivata a questo stadio produttivo. In genere non pretende di lasciare la sua traccia, le basta lasciare una traccia, senza avere la pretesa di inventare nulla. Inoltre c’è una grossa differenza nel gestire il proprio privato, che è indubbiamente più complesso e dispersivo per una donna che per un uomo, soprattutto nei riguardi della famiglia, della routine domestica…

  • Ci può illustrare la novità e il significato di questa mostra basilese che la vede tra i promotori?

La preparazione è stata un’esperienza piacevolissima per me – la prima di lavoro tra sole donne. Tre età, tre culture, tre stili, e nessun conflitto! Ci siamo poste l’obiettivo di comunicare, attraverso la manipolazione dello spazio concesso, alcuni aspetti indotti e/o congeniti della donna oggi, nei suoi ruoli diversi e compresenti, nel tentativo di lanciare al visitatore (senza distinzione di sesso) una provocazione a reagire, in bene o in male, forse a riflettere… La mostra è tutta lì da vedere, fino alla fine di giugno. È iniziata per caso il primo di aprile…Un pesce?

«Agorà» (Svizzera), 10 maggio 1989

INTERVISTE

SAYA

Pubblicare un libro di poesie: intervista all’editore Marco Saya
 MARCO SAYA, EDITORE E POETA

 

Le edizioni Marco Saya, attive a Milano dal 2012 (www.marcosayaedizioni.net), si occupano prevelentemente di pubblicare e diffondere poesia. Ecco un’intervista all’editore.

 

  • Brevemente, qualche cenno alla sua biografia.

Un passato da informatico e una vita parallela presente che trascorre tra un grande amore per il jazz, la scrittura poetica e una neo casa editrice. Sono nato a Buenos Aires. A tre anni sono stato dirottato a Rio de Janeiro, prima di approdare definitivamente a Milano a dieci anni. Dopo il diploma al liceo classico Giovanni Berchet e una lunga frequentazione universitaria presso la facoltà di Ingegneria Elettronica, mi sono dedicato per anni al jazz come chitarrista professionista, alla poesia con diverse pubblicazioni e alla collaborazione con numerosi siti letterari.

  • Quando e spinto da quali motivazioni ha aperto la sua casa editrice?

Ho aperto la casa editrice nel gennaio del 2012. Perché? Premetto che sono un editore che non chiede contributi all’autore. Normalmente sono sempre i soliti noti che pubblicano con i soliti editori nel solito scambio di figurine, tralasciando tutto un mondo di altrettanto ottimi poeti, spesso esclusi dal mercato dello scambio delle figurine. Non si tratta dunque di incrementare il numero di player nel catalogo della Panini, ma di dare voce a chi merita di essere selezionato e pubblicato secondo alcuni parametri in parte soggettivi, legati a un gusto personale, in parte indirizzati all’individuazione di un’univocità e ricerca della scrittura poetica che non sia omologata come tantissima poesia del 900. È inutile aprire una casa editrice che sia una copia sbiadita di tante altre, deve esistere per tutti la possibilità di dare voce a una creatività che non sia solo “imprenditoriale”!

  • Quali difficoltà trova oggi, sul mercato librario, un editore che si occupi principalmente di pubblicare poesia?

La prima difficoltà riguarda la distribuzione, ma è anche vero che sono pochissimi i lettori di poesia e dunque questo potrebbe essere un falso problema. Semmai ci dobbiamo domandare come poter incrementare il pubblico dei lettori. Personalmente mi affido e mi trovo bene con i distributori online. Per un editore il conto vendita presso un libraio non è, di questi tempi, un buon affare. Il libro, poi, si vende solo nel caso di una presentazione ben organizzata, e sottolineo il “ben organizzata”.

  • Qual è il suo giudizio sulla produzione poetica italiana attuale? Perché la poesia riscuote così poco interesse tra i lettori?

La poesia dovrebbe anche arrivare al lettore/lettore e non solo, come spesso avviene, al lettore/autore. Troppi scrivono e pochissimi leggono: e chi scrive, quasi sempre, non legge gli altri. Nei primi sette mesi di quest’anno sono usciti circa 2000 titoli di poesia. Come è possibile, a questo punto, giudicare la produzione poetica attuale? Aggiungo che, secondo me, manca anche una critica (a parte qualche rara eccezione) che sappia discernere e voglia indicare nuove vie. Spesso si preferisce rimanere nei tradizionali orticelli dei già collaudati. Come editore pubblico solo 12 titoli all’anno, sperando così di poter dare una buona visibilità all’autore/autrice tramite una serie di presentazioni: l’unico modo, a mio avviso, di far conoscere e promuovere degnamente un autore. Poi, come sempre, sarà il tempo e un lettore attento a decidere se l’editore avrà operato delle scelte che caratterizzino la poetica di quel determinato scrittore.

  • Lei scrive versi. Cosa ha pubblicato finora e quali sono i poeti che sente più vicini alla sua sensibilità?

Ho pubblicato diverse raccolte, l’ultima dal titolo Filosofia spicciola nel 2014. Amo soprattutto Montale e la sua ironia presente in parte della sua vasta produzione, e poi il suo modo di intendere la poesia come “filosofia dell’esistenza”, le risposte che suggerisce discretamente alle eterne domande, al quid irrisolto che ci accompagna nella nostra fragile consapevolezza umana. E poi Ungaretti, Zanzotto, Caproni, Fortini…Ma sono tanti i poeti che amo.

  • Concluda questa breve intervista con un suo verso che le stia particolarmente a cuore.

Basterebbe una sola poesia, / quattro versi che possano girare il mondo / con le proprie parole. / Di questo si tratta, / scrivere questi quattro versi.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Pubblicare-un-libro-di-poesie.html

3 settembre 2015

INTERVISTE

SIMONELLI

MARCO SIMONELLI, POETA E PERFORMER
Intervista a Marco Simonelli, poeta, traduttore e performer
Marco Simonelli, poeta, traduttore e performer, è nato nel 1979 a Firenze, dove vive. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia. Tra le più recenti: “Will. 24 Sonetti” (2009), “L’estate sta finendo” (2011), “Il pianto dell’aragosta” (2015). Nel 2012 Firenze Mare è apparso in “Poesia Contemporanea, XI Quaderno Italiano”.

 

  • Cosa ci puoi raccontare dell’ambiente in cui sei nato, ti sei formato culturalmente, e in cui oggi vivi e lavori?

Ho avuto la fortuna di avere due genitori che, fra le altre cose, mi hanno sempre incoraggiato a leggere. Culturalmente mi sono formato in una Firenze perennemente post-ermetica al cui clima un po’ opprimente ho reagito per opposizione. Oggi la scena letteraria fiorentina è animata soprattutto da narratori; i poeti, seppur affiatati, sono un po’ più defilati.

  • Attraverso quali letture e incontri ti sei avvicinato alla poesia?

Ho iniziato a leggere poesie da adolescente: dai maledetti francesi passai ai beat americani e ai futuristi russi, tipiche letture un po’ ribelli. Frequentavo altri giovani poeti, organizzavamo serate di letture a microfono aperto che in poco tempo divennero molto popolari. Era un’epoca pre-internet e per noi l’incontro era fondamentale: ci scambiavamo libri ed esperienze. Un incontro decisivo per me fu quello con Mariella Bettarini e i libri della sua casa editrice Gazebo: fu lei ad introdurmi alle tecniche di revisione di un testo poetico, mi insegnò il cosiddetto labor limae. Tramite Mariella entrai in contatto con poeti fiorentini di poco più grandi di me: Massimiliano Chiamenti, Elisa Biagini, Rosaria Lo Russo.

  • In che relazione si trovano la tua produzione poetica, quella di performer teatrale e l’attività di traduttore?

Si tratta di un rapporto di interdipendenza: la traduzione e l’interpretazione vocale di testi altrui è nutrimento fondamentale per la mia scrittura. A tutt’oggi, l’unico sistema che ho per valutare se un mio testo è riuscito o meno, è quello di leggerlo ad alta voce.

  • Quale dei tuoi libri ha avuto più successo, a quale sei più legato emotivamente, e a cosa stai lavorando adesso?

Direi “Sesto Sebastian”, un monologo drammatico del 2004 sul martirio di San Sebastiano che costituì per me un coming out in versi. È stato ristampato di recente in “Poesie d’amore splatter”, un’antologia dei miei testi più “performativi”. In questo periodo sto lavorando ad una nuova raccolta intitolata – per ora – “Le buone maniere” e si ispira ad una tradizione letteraria che da Bonvesin de la Riva e Giovanni Della Casa arriva fino a Donna Letizia: è una riflessione sulle regole del vivere civile aggiornate alla violenza dei nostri tempi.

  • Leggendoti, sembra che sulla tua scrittura agiscano influssi non solo letterari, ma anche – e forse soprattutto – cinematografici e musicali. È un’impressione esatta?

Sì, lo è: in realtà ciò che mi ha sempre affascinato è la contaminazione fra forme espressive di differente provenienza. Sono dell’opinione che un testo poetico possa e debba essere in grado di esprimere il tempo in cui vede la luce. Io sono nato nel 1979, la mia è stata un’infanzia prettamente televisiva. Nel 2007 realizzai un libro, “Palinsesti”, interamente costruito sfruttando la carica mitologica (e quindi anche comunicativa) dell’immaginario televisivo degli anni ’80. La mia intenzione era quella di creare un canzoniere che fosse anche un peana generazionale per la fine dell’infanzia. L’operazione puntava al riciclaggio di un immaginario sporco, innescava nel lettore coetaneo una sorta di riconoscimento immediato seppure surreale. Dal 2010 in poi la mia scrittura tenta di avvicinarsi all’altro in maniera più decisa e per raggiungere questo risultato mi avvalgo anche di tecniche narrative. La metrica poi, che per sua stessa natura interferisce coi processi mnemonici, cerca di mimare, nel suo costituirsi in strofe, vere e proprie inquadrature la cui dinamica viene impressa tramite il ritmo del verso.

  • Dai tuoi versi traspare un’adesione vivace, quasi fisica, alla vita in ogni sua manifestazione. Una partecipazione gioiosa e ironica a tutto quello che ti accade intorno. Vivere, amare, osservare, rincorrere la felicità, è più importante che scrivere. Giusto?

Direi che senza una naturale curiosità per le realtà che ci circondano e che incrociamo quotidianamente, difficilmente si arriva a scrivere qualcosa di valido. In qualsiasi corso di scrittura creativa, una delle prime lezioni che si apprendono è «Scrivi di ciò che conosci». Noi iniziamo a conoscere le cose nel momento in cui stabiliamo un contatto, nel momento in cui iniziamo a confrontarci con esse. Da questi contatti può accendersi la scrittura che a volte segnala solo l’inizio di un percorso di indagine: ciò che la scrittura scopre in genere è una vasta complessità in cui è facile (ma in fondo anche utile) perdersi.

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/Intervista-a-MarcoSimonelli.html    11 novembre 2016

INTERVISTE

SQUIZZATO

 GILBERTO SQUIZZATO, REGISTA E SCRITTORE

Gilberto Squizzato si racconta in quest’intervista.

  • Qual è stata la tua formazione culturale (studi, letture, maestri…), e radicata in quale humus ambientale?

Durante il liceo classico (frequentato in una media città di provincia benestante e borghese quasi come un intruso, dal momento che venivo da una modesta famiglia di operai, soffrendo pertanto il disagio dell’inferiorità economica e sociale, a cui reagivo trovando risarcimento negli ottimi risultati scolastici che mi consentivano di primeggiare sui pigri e demotivati figli del ceto dominante) ebbi la fortuna di avere come docente d’italiano uno splendido professore che fremeva di passione civile nell’introdurci al mondo della letteratura. Le sue memorabili ed estasianti (per me) lezioni su Dante, ma anche le emozionanti escursioni che andavano dal Gilgamesh sumero al mondo proto-biblico, fino a giungere alla contemporaneità uscita dalla Resistenza che egli aveva vissuto nelle sue Langhe sature di echi letterari, da Pavese a Fenoglio, mi aprirono all’orizzonte prima neppure immaginato degli studi letterari e, fatalmente, anche filosofici e teologici.
L’altra mia fortuna, da bravo ragazzo di Azione Cattolica che ero, fu quella di non iscrivermi alla Cattolica (allora dominata da una stantia neoscolastica uggiosa e pretesca) per inseguire un amore giovanile risoltosi nel nulla, che mi fece però il dono di precipitarmi un quel crogiolo fervido di passioni che era la Statale di Milano negli anni dal ’68 al ’73. Era la Statale in cui si era dovuto trasferire Mario Capanna cacciato dalla Cattolica, ma era anche un laboratorio superlativo di pensiero critico e di consapevolezza politica e civile: Pochi altri, se non i miei compagni di allora, ebbero la fortuna di avere come maestri, tutti in una volta, e di persona, personalità come Paci, Cantoni, Fergnani, Rovatti, Dorfles, Catalano, Berengo, Salinari, Antonielli, Ferrero, Brizio, Cazzaniga, Gambi, Rosci… Era il gotha della cultura italiana di quegli anni, lì riunito per singolare congiuntura, ma credo anche perché Milano era il territorio fecondato da quel gran seminatore di pensiero marxista (ma critico)
di Banfi. Ma non voglio neppure dimenticare che quelli gli anni in cui si studiavano Sartre, Althusser, il Freud di Musatti, Laing, Levi Strauss, Margaret Mead, Marcuse e Adorno…
Così vissi quella che credo essere stata una delle stagioni più fortunate dell’Università italiana ma anche immerso nel vortice di quel tumultuoso rivolgimento culturale e antropologico che fu il Sessantotto milanese: è in quel contesto che i fermenti di un fervore civile e politico così potente si fusero, in me, con quelli della novità prodotta nel mondo cattolico dal Concilio. Fu in quegli anni che venni in contatto con i miei autentici maestri spirituali: Turoldo anzitutto, che tuonava a Sotto il Monte ma anche con le sue poesie civili e teologiche dalle pagine della rivista Sette Giorni, e con lui Milani, Balducci, Franzoni, Mazzi, Lutte, La Valle, i tanti cattolici del dissenso (Gozzini, Masina…) che trasmigrarono nella sinistra aprendo un fecondo confronto fra le differenti antropologie che provenivano dal marxismo e dalla tradizione cristiana.

  • Cosa ti ha spinto a passare dagli studi letterari alla cinematografia?

Non ho mai abbandonato gli studi letterari (e filosofici) per il cinema, ma provai a fondere i due interessi che mi appassionavano così fortemente. Ma mi accostai al cinema non solo sotto il profilo della ricerca teorica: continuando a frequentare l’università decisi di imparare quel linguaggio sul set, diventando prima assistente e poi aiuto regista di diversi maestri, fra i quali, più che Lattuada, Argento e Monicelli, ebbi come maestro anche di politica e d’impegno civile Carlo Lizzani: lo stesso che era stato assistente e sceneggiatore di Rossellini e De Sanctis, che aveva partecipato alla Resistenza Romana, che si era formato nel primo nucleo clandestino del PCI di Trombadori, Alicata, Ingrao, che volendo diventare politico militante di professione era stato consigliato proprio dal partito a impegnarsi nella settima arte. Da Lizzani mutuai non solo la scelta per una cinematografia asciutta ed essenziale, ma anche la passione per la discussione sul linguaggio filmico letta con i paradigmi della politica, l’etica (oggi un po’ desueta) del cineasta engagé, come si diceva allora. Erano i tempi del nuovo cinema brasiliano di Rocha, di Pasolini, di Godard, per intenderci…
Finché la RAI bandì un concorso per registi destinati a operare nella neonata Terza Rete, superai la selezione e fui però assunto come giornalista: un’ottima occasione per imparare la sintesi e la tempestività nel racconto del reale. E da allora, archiviati i tre anni d’insegnamento di lettere nella scuola media superiore, mi diedi al servizio pubblico, provando a coniugare la lotta politica e la ricerca di nuovi linguaggi (docu-fiction, real-movie, fiction storica con documenti filmati autentici, ecc.)

  • Com’è nato il tuo interesse per la teologia, e in che modo ritieni di poterti definire cristiano?

Altra immensa fortuna: da ragazzo, all’oratorio, incontrai un giovane prete che piuttosto che buttarci nel campo di calcio preferiva metterci in mano la “Bibbia” e ci insegnò a studiarla.
Un’emozione violentissima e inestinguibile, che accese in me non solo l’interesse per la teologia (Kung, Moltmann, la teologia della Liberazione, Kaspers, Cullman, Schillebecx, per citarne solo alcuni, ma anche la lettura marxista del Vangelo di Belo e di Gutierrez, la demitizzazione di Bultmann, e poi via via la scuola americana di Altizer e Hamilton, il Jesus Seminar di Crossan, la teologia e l’ecclesiologia critica di base dei movimenti popolari del dissenso cattolico, per non dire di quel continente fascinoso che furono (e sono per me) gli studi biblici che incrociano antropologia, analisi delle forme, psicanalisi, storia, nuova archeologia… Un vero peccato che Massoneria italiana dell’Italia riunificata nel Regno abbia bandito dalle università italiane gli studi teologici e biblici, con il beneplacito del Vaticano che li volle rinchiudere e proteggere nei propri seminari e nelle proprie accademie (mentre in Germania, Francia, Svizzera, Stati Uniti, Olanda, paesi nordici, questi studi hanno fatto progressi enormi e abitato in profondità generazioni di coscienze. Così oggi abbiamo, in Italia, il popolo di fedeli più ignorante al mondo in fatto di Bibbia e i ceti culturali laici (di livello universitario) più digiuni di queste discipline, capaci solo di balbettare quando si cita una pagina del Vangelo e di chiudersi dentro gli schemi di un neopositivismo ottocentesco… Un disastro.
Da questo mio studio frenetico e da questo intensa esperienza dentro il laboratorio della teologia elaborata dalla base nel movimento dei cristiani critici ha preso forma il mio modo di credere, da cui sono scaturiti i tre volumi in cui ho provato, nell’ordine:

  1. a tradurre il Credo di Nicea (scritto con un armamentario concettuale e filosofico greco, ormai incomprensibile) in un linguaggio significativo oggi per i miei figli, nati e cresciuti nella cultura post-moderna, scientifica, tecnologica, digitale, nichilista;
  2. a indagare il senso più autentico della parola ambigua, abusata, maltrattata (Dio) di cui ignoriamo il significato originario, in direzione di una fede (apofatica) che rinuncia a ogni immagine del divino e preferisce il silenzio davanti al Mistero esistenziale che Gesù chiamava il Padre;
  3. a dimostrare possibile e liberante una fede laica che archivia l’immaginario religioso ormai inservibile dei millenni passati. Se sono cristiano. Sì, ma non essendo ebreo, e dunque non attendendo alcun Messia (Unto, Cristo in greco) preferisco oggi definirmi gesuano.

  • Ci puoi illustrare brevemente in cosa è consistito il tuo lavoro alla RAI? Che giudizio dai della programmazione televisiva attuale?

Prima il giornalismo, laboratorio efficacissimo per imparare a essere curiosi e preparati a indagare tutto, a provare a interpretare in tempo reale gli eventi, a costruirne una narrazione ipersintetica che obbliga a un linguaggio (visivo e verbale) preciso ed efficace. Poi il reportage e la direzione di un settimanale (Europa) che mi consentì di indagare gli ambiti più diversi (politica, storia, ambiente, società, cultura, arte…) del nostro continente. Più tardi, invitato da Guglielmi, mitico direttore della nuova RAI Tre, il “racconto del reale” in forma cinematografica, sperimentando di volta in volta anche forme di fiction sempre fedeli al reale e al dato storico. Sul collasso delle motivazioni e delle regole di un autentico servizio pubblico radiotelevisivo scrissi un saggio molto critico dieci anni fa che non bastò a mobilitare i dipendenti dell’azienda, i suoi sindacati e le aree più attente e consapevoli del Parlamento a una rifondazione dalle fondamenta della RAI, per sottrarla al livellamento verso il basso della qualità dei programmi e dei linguaggi, al servizio di una malintesa concorrenza con la TV commerciale. Se vuoi fare servizio pubblico NON devi inseguire il degrado e gli stilemi delle altre emittenti che hanno come scopo il profitto economico, ma fare ricerca, sperimentazione, innovazione (e informazione autenticamente libera e indipendente). Non vedo traccia, se non in qualche raro frammento dei palinsesti RAI, di queste logiche e finalità diverse e antitetiche.

  • Dopo anni di impegno come regista sei tornato alla scrittura. Con quali esiti, e quali obiettivi?

Senza mai rinunciare, in segreto, a coltivare saltuariamente le mie velleità liriche e/o di poesia civile, con il tempo mi sono reso conto del fatto che l’immagine può mostrare moltissimo, ma non riesce a dire tutto. Ci sono continenti del vissuto umano che solo la parola può provare a esplorare e raccontare. Un’affermazione forse ovvia, banale, ma è così, a pensarci bene. Pasolini (maestro supremo nella narrazione per immagini) non abiurò mai alla parola del verso, del romanzo, del saggio.
E così, sempre in segreto, mi sono scoperto bisogno di racconti romanzati, che mi hanno dato la soddisfazione di scoprire anche l’amore per la parola narrativa. Se e cosa valgano questi miei romanzi, proprio non lo so. Ci sarà pur un motivo se sono tuttora inediti.

  • Attualmente insegni al Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano. Pensi che esistano in questo ambito possibilità concrete di lavoro e di successo per le generazioni più giovani?

Oh, certo, se vuoi diventare un ciarlatano (o un prestigiatore) del video, le occasioni sono immense. Le TV e la rete non chiedono (quasi) altro. Se poi teniamo conto delle prodigiose possibilità espressive fornite oggi dalle camere digitali ad alta definizione e dai programmi di montaggio che offrono un repertorio illimitato di effetti digitali, allora le chance risultano sconfinate. Se invece vuoi indagare seriamente il reale, scrivere cinematograficamente un racconto dignitoso, sperimentare nuove scritture, gli spazi di manovra si restringono enormemente.
Soprattutto si è persa, in Italia, un’autentica scuola di sceneggiatura filmica e televisiva. La TV del talk show è diventata in sostanza radio filmata in diretta, e il nostro cinema non può che guardare con rimpianto allo spessore narrativo e alla sapienza di altre stagioni che fecero la grandezza suprema del nostro cinema (anche quello di serie b, commedia all’italiana compresa). Oggi vediamo sullo schermo quasi solo commediole generazionali o pretenziosi esercizi di calligrafia. Ma chi sa scrivere oggi (se non pochissimi, rari autori) le sceneggiature di De Sica, Antonioni, Visconti, Petri, Scola, Rosi, Pasolini…
Sopravvive, a fatica, qualche vecchio maestro (Taviani, Bellocchio, Bertolucci). Per il resto (con l’eccezione di pochi come Sorrentino e Tornatore) chi sa scrivere cinema oggi in Italia all’altezza di quella scuola che ebbe sceneggiatori immensi (Zavattini, Sonego, Age, Scarpelli, Pirro, Benvenuti, Guerra…)?

 

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/Intervista-a-Gilberto-Squizzato.html          29 marzo 2018

INTERVISTE

TALAMO

Silvio Talamo. Un artista napoletano a Berlino

Silvio Talamo è un musicista, producer e cantautore napoletano, oggi residente e operante a Berlino. Il suo repertorio spazia tra musica elettronica e acustica, pop e techno. Come performer di successo si esibisce in teatri, trasmissioni radiotelevisive, club, festival e street stations. Ha pubblicato nel 2017 il disco Living in a Bubble, e quest’anno il libro Poesie/Gedichte in un’elegante versione bilingue delle edizioni ProMosaik.

In quale ambiente familiare e culturale sei cresciuto, e cosa di esso hai assorbito positivamente, cosa invece ti senti di rifiutare o rinnegare come zavorra e ostacolo alla tua crescita umana e professionale?

Per quanto riguarda la mia famiglia, mia madre dipingeva da giovane. Poi ha dovuto lasciare per la vista. Questa è l’unica relazione diretta che io possa trovare con la produzione artistica in famiglia. Ma quando si parla di ambiente io penserei a qualcosa di più vasto, oserei dire anche sociale. Non credo sia un momento facile per le arti e forse non lo era neanche venti anni fa, non so. Uno dei problemi che ho spesso avuto è rientrare in un genere, sembra una cosa importante per poter diffondere i messaggi. Un altro ostacolo lo troverei in  una competizione non sempre proficua, anzi addirittura debilitante sul piano della creatività. Le porte è sempre meglio aprirle… Ma se dobbiamo parlare di formazione il mio ambiente è stato più un ambiente di astrazione, con questo intendo dire che non ho fatto altro che creare connessioni tra esperienze culturali anche diverse, lontane, e me le sono portate appresso.

 

Dagli studi di filosofia a quelli musicali: attraversando quali percorsi, superando quante difficoltà e inseguendo quali miti ed esempi, sei arrivato ai risultati artistici attuali?

Ho iniziato scrivendo poesie verso la fine del liceo e il periodo iniziale dell’università. Poi insieme ad amici aprimmo una piccola associazione culturale, la sede ora a pensarci era molto “underground”, direi. Incominciammo a fare reading e poi, dopo qualche tempo, la cosa finì, ognuno prese la sua strada. Allora studiavo percussione oltre che Filosofia alla Federico II e la cosa che mi colpì fu mettere in relazione la voce, quella dell’allora lettore-performer, con la musica. Approfondii la strada del canto. Si aprirono universi nuovi e tutti risiedevano nel campo dell’oralità anche se in forme lontane. Mi interessai per qualche tempo all’etnologia e al folklore, così come alle produzioni delle avanguardie.

 

Verso dove si orienta oggi la tua ricerca musicale?

Ho scoperto le potenzialità che le strumentazioni elettroniche possono offrire. Credo che in questo ambito stia succedendo qualcosa di molto importante nel mondo. Per me il nuovo è lì: tra midi, loop, messaggi cc, onde sonore, sintetizzatori, software, sample…  È un lato che ha subito proprio negli ultimi anni una evoluzione gigantesca, a patto che il concetto di nuovo sia considerabile come una cosa interessante. Al tempo stesso continuo a usare la mia chitarra e il canto ovviamente, una strada quindi più tradizionale, in un certo senso. Mi piacerebbe sintetizzarle tutte! In fin dei conti è un lavoro sul tempo. Viviamo in un mondo dove non c’è solo compresenza di spazi culturali diversi ma anche di tempi. Il tempo si è spezzato, la sua linea è più simile ai labirinti di Borges o a qualche narrazione di fantascienza che ad un moto progressivo. Poi arriva il ritmo, il cerchio e quindi il nostro rapporto disperato con la natura. Il problema è che quando le cose vanno troppo veloci, la ruota sembra ferma, così come talvolta mi appare il nostro presente: simile a un limbo.

Oltre alla musica, ti dedichi anche alla poesia. Quali sono state le tue letture formative, e in che direzione ti poni dal punto di vista letterario? Più tradizionale o di avanguardia?

La poesia è fondamentale, quasi una salvezza. Nella mia adolescenza rimasi folgorato dal simbolismo francese. Mi piacque un certo romanticismo inglese. Ho letto con interesse le avanguardie, specialmente quella surrealista e poi la neoavanguardia italiana. Anche l’inafferrabile esperienza dell’ermetismo mi incuriosiva. Spesso si tratta di esperienze contrastanti. Ricordo i reading e le interviste che lessi di Allen Ginsberg e Gary Snyder. Mi interessava la lirica giullaresca con il suo carico di istanze antropologiche e para-teatrali. Ma il bello della letteratura è che è una materia illimitata, non finita e che risponde sempre con spessore in qualsiasi epoca o periodo storico si vada a cercare.
Posso dire che negli ultimi tempi, anche durante la stesura del mio libro, ho due autori presenti sulla mia scrivania: Dylan Thomas e le poesie di Friedrich Hölderlin. Ma sono stati importanti anche libri che non hanno direttamente una valenza, diciamo così, letteraria, nel senso proprio di letteratura. Cioè le elaborazioni sul montaggio cinematografico di Sergei Eisenstein, quello passato alla storia nella cultura popolare italiana per altri motivi, e il libro sull’alchimia di Carl Gustav Jung.
Alla questione se “tradizionale” o “avanguardia” però non saprei rispondere, non me lo domando neanche. Certo dall’Ottocento in poi le esperienze letterarie, quelle più tradizionali e quelle più di avanguardia, si sono sempre espresse attraverso una rottura, almeno quelle che interessavano a me.

 

In cosa Berlino ti ha avvantaggiato rispetto a Napoli, e come giudichi l’interesse e il calore con cui ti segue il pubblico delle due città?

Napoli è in un momento certamente migliore rispetto a quando l’ho lasciata, un buon momento che esprime anche buona volontà nel fare cose; molta vitalità nonostante tutti i problemi. Probabilmente, con il tempo, sarà portata a moltiplicare ancora più gli spazi dedicati all’espressione.  Torno a fare cose lì, quando è possibile.
Berlino è una grande città, un centro internazionale come pochi.  Qui a Berlino, che mi sembra quasi un’isola, c’è molto interesse sincero per l’arte. C’è una popolazione dove la percentuale di artisti e creativi è altissima, molti spazi per esprimersi e semplicemente la gente ascolta e non è interessata solo al puro intrattenimento. Nessuno si preoccupa se quello che fai è ordinario o no. È molto alternativa, underground. Intendiamoci, ritagliarsi uno spazio non è facile, anzi anche difficile ma al tempo stesso c’è posto per tutto. Io personalmente faccio molto. Vedremo se cambierà… Una cosa importante è che posso incontrare artisti di tutto il mondo e affacciarmi a molteplici linguaggi. Tutti vogliono fare, realizzare libri, registrazioni e spettacoli.

 

© Riproduzione riservata                    «Il Pickwick», 25 ottobre 2018

INTERVISTE

VALIGIE ROSSE


 
INTERVISTA ALLA REDAZIONE DELLA CASA EDITRICE “VALIGIE ROSSE”

Nata dal premio musicale intitolato al cantautore Piero Ciampi, la casa editrice Valigie Rosse è ispirata da un progetto audace e coraggioso: ricercare originali voci poetiche, italiane e straniere, di cui valga la pena amplificare la voce attraverso volumi che associano alla grande cura editoriale una stampa di particolare pregio.
Le pubblicazioni della casa editrice Valigie Rosse, oltre a plaquette di poesia, accolgono anche opere di narrativa, graphic novel e volumi che raccolgono testimonianze di storie vere e di progetti culturali.

  • Quando e dove è stata fondata la vostra casa editrice, per iniziativa di chi, e con quali motivazioni e finalità?

Valigie Rosse, prima che come editore, nasce come collezione di libri. Valigie Rosse è infatti il nome della sezione di poesia del famoso premio musicale intitolato al cantautore livornese Piero Ciampi. Nel 2010, in occasione del trentennale della morte dell’artista, Riccardo Bargellini (grafico), Valerio Nardoni (traduttore) e Paolo Maccari (studioso e critico letterario) presentano al premio un progetto molto proteso nel futuro: una collezione di libri, che potesse un giorno diventare una casa editrice.
Il nome di Piero Ciampi è legato soprattutto alla qualità dei suoi testi e della sua personalità fortemente poetica, indipendente, legata alla concretezza, mai aulica eppure delicata. La collezione di Valigie Rosse nasce dunque come ricerca di poeti di cui – a nostro avviso – valesse la pena amplificare la voce. Non viene premiato né un esordiente né un poeta già affermato, il premio Valigie Rosse – se così si può dire – è una sorta di primo premio alla carriera. Ogni anno vengono premiati due poeti, uno italiano (di cui si pubblica una plaquette inedita) e uno straniero, che viene per la prima volta tradotto in italiano.
Il progetto, di carattere no-profit, vanta un’indipendenza assoluta, ed è stato finanziato inizialmente grazie al contributo di 30 amici, a cui fu fatta questa promessa: dato che abbiamo coperto le spese, impiegheremo i proventi delle eventuali vendite nella pubblicazione del secondo libro… che vi regaleremo entro Natale. Così fu: oggi la collezione è composta di quattordici libri ed è un grande onore che sia stata segnalata sul numero 50 della rivista Testo a Fronte.

  • Quante persone collaborano al vostro progetto?

La redazione è attualmente composta da sette persone, che vi si dedicano spassionatamente: Riccardo Bargellini, Lisa Cigolini, Valerio Nardoni, Tiziano Camacci, Alessio Casalini, Silvia Bellucci, Tommaso Barsali.

  • Quali collane sono presenti nel vostro catalogo? Pubblicate anche ebook?

I nostri libri sono tutti stampati in offset. Alla prima collana se ne sono aggiunte altre tre: Gli asteroidi (una collana di libri di testimonianza, inaugurata con il libro di un utente del centro residenziale Franco Basaglia di Livorno, che ha richiesto due anni di lavoro); Beauty Case (di favole poetiche per bambini); e Fuoricampo (che accoglie progetti di promozione culturale, come “Ho visto il film”, dello scrittore Dario Pontuale, che contiene venti ritratti di libri). Tutte le collane sono attive ed hanno al momento un libro in lavorazione.

  • Qual è stato il vostro libro che ha riscosso più successo, di pubblico e di critica? In che modo riuscite a pubblicizzare i vostri prodotti? Le fiere e le kermesse editoriali servono, o è più efficace la comunicazione sui social?

I nostri due libri di maggior successo sono “Quando piove ho visto le rane” (2015) di Azzurra D’Agostino, e “Commiato da Andromeda” (2011) di Andrea Inglese – sono esaurite le 400 copie numerate in cui pubblichiamo i nostri libri – che proprio quest’anno è in parte confluito nel primo romanzo dell’autore “Parigi è un desiderio” (Ponte alle Grazie). Il successo di critica e pubblico è stato forte e immediato; anche la promozione è stata molto divertente: Andrea Inglese aveva infatti realizzato anche uno spettacolo ispirato al libro, in collaborazione con il gruppo Sara dei Vetri, che nel 2011 aveva vinto il Premio Ciampi.
Le kermesse sono senza dubbio utili, abbiamo partecipato al Pisa Book Festival per tre anni, ma i costi sono troppo elevati rispetto alle vendite, e abbiamo desistito.
La comunicazione sui social è importante ma anche inevitabilmente velata di apparenza; nel nostro caso, dato che promuoviamo progetti di libro, sono più importanti i contatti con le librerie, con i gruppi di lettura, con i promotori di iniziative culturali. Da pochissimo abbiamo inaugurato una collaborazione con la Scuola Carver, dedicata alla scrittura creativa.

  • Che tipo di difficoltà incontrate nel diffondere la vostra attività, e cosa vi augurate per il vostro futuro di editori?

Speriamo che la risposta non sembri troppo banale: i nostri problemi maggiori sono di ordine economico. La nostra motivazione (ognuno di noi fa altro nella vita) è quella di realizzare cose belle. Dal momento che ci siamo recentemente costituiti come Srls, per poter dare maggiore possibilità di visibilità e diffusione ai nostri libri, la gestione diventa molto più complessa e presuppone dei costi vivi ben superiori a quelli tipografici.
Il futuro verso cui stiamo spingendo questa attività è quello della sostenibilità di progetti culturali realmente indipendenti. Abbiamo maturato delle competenze che potrebbero permetterci questo lusso: in lavorazione abbiamo un libro bellissimo di filastrocche per bambini, di cui vorremo donare metà tiratura all’Ospedale Meyer, che l’ha già valutato ed ha concesso il patrocinio. Credo che ci riusciremo.

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/Intervista-editori-ValigieRosse.html    11 gennaio 2016

INTERVISTE

VALLORTIGARA

GIORGIO VALLORTIGARA E LA POESIA

Giorgio Vallortigara (Rovereto 1959) è professore ordinario di neuroscienze all’Università di Trento ed è stato Adjunct Professor presso la School of Biological, Biomedical and Molecular Sciences dell’Università del New England, in Australia. Si è particolarmente interessato alla cognizione numerica e alla predisposizione biologica al riconoscimento di agenti animati in vari modelli animali. È autore di più di 300 articoli scientifici su riviste internazionali e di libri a carattere divulgativo: Cervello di gallina (Bollati-Boringhieri, 2005), Cervelli che contano (Adelphi 2014), Pensieri della mosca con la testa storta (Adelphi 2021), Il pulcino di Kant (Adelphi 2023). Oltre alla ricerca scientifica svolge un’intensa attività di divulgazione, collaborando con le pagine culturali di varie testate giornalistiche e riviste.

 

 

  • Nel volume Lettere dalla fine del mondo. Dialogo tra uno scrittore che voleva essere uno scienziato e uno scienziato che voleva essere uno scrittore, pubblicato da La nave di Teseo nel 2021, lei affermava che tre attività umane le stanno profondamente a cuore oltre alla scienza: l’arte, la musica, la scrittura. Tra di esse, quale predilige con particolare partecipazione emotiva?

Senza dubbio la scrittura, anzi più precisamente la lettura. Sono un lettore vorace di romanzi ma anche di poesia. Non trovo che ci sia una differenza fondamentale con l’attività scientifica perché anche nella scienza si tratta di narrare delle storie. Certo la plausibilità della narrazione scientifica deve essere fondata sui fatti e la sua oggettività risiede nella intersoggettività delle osservazioni e degli esperimenti. La narrativa letteraria rappresenta invece un punto di vista unico e originale, quello del narratore. Forse per questo io la considero privilegiata rispetto al lavoro dello scienziato. Il tema della narrazione mi interessa anche dal punto di vista scientifico. Perché gli esseri umani sono così affascinati dalle storie? Si tratta evidentemente di un fenomeno biologico, perché è un universale della natura umana: dovunque ci sono stati esseri umani ci sono stati aedi, cantori, raccontatori di storie e poeti. La passione per le storie è ovviamente al servizio (o il sottoprodotto) della cosiddetta teoria della mente, la nostra peculiare abilità di interpretare i comportamenti degli altri individui attribuendo loro degli stati mentali (lui crede che, lei desidera che…), ma forse è anche un modo per fronteggiare la finitudine delle nostre vite. Come diceva Pessoa, «Leggo perché la vita non mi basta».

 

  • Sempre nella stessa stimolante conversazione con Massimiliano Parente, sosteneva che lo sguardo scientifico non distrugge la bellezza delle cose, ma semmai rende più consapevoli della loro ragion d’essere. Le capita di osservare un fenomeno naturale, un insetto, un albero, e soprattutto di leggere una poesia senza indagarla con la curiosità dello scienziato, ma semplicemente lasciandosi trasportare da una sensibilità di carattere sentimentale?

L’aspetto che lei chiama sentimentale in effetti è il più razionale, perché ha a che fare con l’esperienza cosciente, quindi inevitabilmente è anche quello dello scienziato. Il tipo di sguardo cui lei allude è forse quello dei sogni o della rêverie, dove è l’inconscio a farla da padrone. Lì pare essere collocata la fonte della rivelazione creatrice – che si esprima poi in un brano musicale, in un romanzo, in un esperimento scientifico o in una formula matematica poco importa. Il vero mistero, come ha notato recentemente lo scrittore Cormac McCarthy, è perché l’inconscio debba usare questi mezzi indiretti per comunicare: la metafora, l’allusione, l’immagine fugace… Non potrebbe fornirci in chiaro i suoi messaggi?

  • Scrittori e poeti: quali sono quelli a cui ritorna più frequentemente, con attenzione grata?

Sono sempre a disagio con questo tipo di domande, perché non voglio essere indelicato con qualcuno degli autori che amo scordandomi di menzionarlo. Quindi, solo perché forzato a farlo, dico due nomi: Borges per la prosa e Montale per la poesia. Perché? Forse perché tutti e due hanno «parlato» la scienza senza saperne alcunché, il che è quasi magico! Invece parlo più volentieri dei libri che ho appena letto o che ho sul comodino in questo momento. L’ultimo (e finale) McCarthy, Stella Maris (Einaudi) che è strepitoso, e la raccolta di Tutte le Poesie (Einaudi) di Giovanni Raboni, che confesso non conoscevo (“Le volte che è con furia che nel tuo ventre cerco la mia gioia è perché, amore, so che più di tanto non avrà tempo il tempo…”), ma anche ho trovato incantevole Ultima estate a Roccamare di Alberto Riva (Neri Pozza). Poi quei poeti che (inconsapevoli?) parlano a noi scienziati, per esempio Andrea Bajani in Dimora naturale che si fa neurobiologo (“In queste settimane tutti parlano / dei polpi, avrebbero il vantaggio / di un cervello non localizzato, / distribuito dappertutto. Pensavo / fossimo gli unici imperfetti / condannati dalla massa cerebrale. / Sono umani in stato terminale: / il farabutto si è metastatizzato”) o Gilda Policastro che si fa statistica matematica (“Non esce quel numero, / nessuno lo estrae: sceglie te / la statistica, il numero che sei / quando a decidere è l’ultimo crunch”). Potrei proseguire, meglio se mi fermo…

 

  • Commentando un po’ ironicamente, e da profana, il suo ultimo libro (Il pulcino di Kant, Adelphi 2023), in cui esamina approfonditamente la nascita e l’evoluzione della conoscenza nel cervello umano e animale, le chiedo se ritiene la predisposizione verso la scrittura poetica una dote innata o acquisita. Perché in alcuni adolescenti si manifesta spontaneamente, senza predisposizioni di tipo culturale assimilate in ambito familiare o scolastico, e altri invece sono totalmente sordi al richiamo della poesia?

Credo sia innata, ma ammetto di non averne le prove. Un po’ tutti questi talenti – per la musica, la matematica, la poesia – si manifestano precocemente e sovente in assenza di istruzioni specifiche. I poeti sono “nati imparati”, come si dice a Roma. Questo naturalmente non ci esime dal dovere di cercare di far accostare alla poesia i giovani a scuola e gli adulti anche altrove. Un mio collega, Emanuele Castano, uno scienziato cognitivo che si occupa degli esiti della familiarità con la lettura della narrativa letteraria di contro a quella di intrattenimento, ha mostrato come nel primo caso si affini sensibilmente la nostra capacità di cogliere e leggere gli stati mentali degli altri. Però c’è qualche controindicazione, perché non necessariamente questa acutezza psicologica rende più felici le nostre vite personali. I poeti lo sanno.

 

  • Ci può citare qualche verso che ricorda a memoria?

Nulla di terribilmente originale, ma tutte le mattine quando, passeggiando, specie in autunno, mi capita di avere il barbaglio dei raggi del sole negli occhi, mi viene automatico di recitare Montale: E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. Oppure, per immaginare di essere fieramente un uomo del Mezzogiorno anziché sommessamente tridentino, con accento imbarazzante recito senza cantarlo il testo di Luna Rossa di Vincenzo De Crescenzo: Vaco distrattamente abbandunato / ll’uocchie sott’ ‘o cappiello annascunnute / mane ‘int’ ‘a sacca e bávero aizato / Vaco siscanno ê stelle ca só’ asciute.

 

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 17 novembre 2023

 

INTERVISTE

VENTRE

Cinque domande a Daniele Ventre

 

DANIELE VENTRE, POETA E TRADUTTORE

 

Daniele Ventre è nato a Napoli nel 1974. Nel 2010 ha pubblicato una versione dell’Iliade, che ha vinto il premio Marazza per la traduzione poetica. Nel 2012 è uscita il suo libro di versi  “E fragile è lo stallo in riva al tempo”. Fa parte della redazione del blog letterario Nazione Indiana.

  • Da quale realtà familiare e ambientale proviene e in che modo tale realtà ha influenzato le sue scelte culturali?

Provengo da una famiglia di insegnanti. Ovviamente, la presenza di una biblioteca piuttosto cospicua e fornita ha orientato i miei interessi piuttosto presto.

  • Che studi ha fatto e dove? Ha avuto esperienze formative anche all’estero?

Ho studiato e conseguito il dottorato all’Università degli Studi di Napoli; non ho avuto esperienze formative all’estero. Un’ anomalia nel “pedigree” del versificatore tipo, ma è così.

  • Attualmente di cosa si occupa, sia a livello professionale, sia per ciò che riguarda la sua produzione letteraria?

A livello professionale, insegno lingue e letterature classiche nei licei. Per quanto riguarda la mia produzione, lavoro ora per lo più sulla traduzione di Virgilio: sto inoltre riordinando alcune raccolte di poesie, fra cui testi in dialetto e in lingue morte, e sto cominciando a raccogliere materiali per un romanzo in prosa.

  • Quali sono le sue pubblicazioni più recenti e da quali poeti (classici e moderni) ritiene di essere stato più influenzato?

Recentemente è uscito un mio romanzo in versi, “Verso Itaca”, riscrittura del mito di Telègono, figlio di Odisseo e di Circe. Il libro mi è stato commissionato dalle Edizioni d’if, per cui uscì nel 2012 la mia prima raccolta di poesie. Un poeta che per me agli esordi ha contato molto è stato Gabriele Frasca. Quanto ai classici, dobbiamo mettere in conto tutta la poesia antica greca e latina; nel mare magnum delle letterature, un ruolo peculiare rivestono per me le epiche medievali dall’area ibero-romanza all’area slava, il teatro tragico francese classico, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e più ancora Mallarmé e ovviamente Eliot e Pound; pochi autori del secondo Novecento americano (Beat generation) e francese/francofono (Luca); la tradizione italiana fino al primo Novecento, e nel Novecento in specie Montale, le neoavanguardie & dintorni (Fortini, Sanguineti e Pagliarani, più che Pasolini), Luzi, il tanto (inopportunamente) disprezzato Quasimodo, Gatto o Sinisgalli, Zanzotto e Giudici; importantissimi sono stati per me anche Michele Sovente e Emilio Villa. La domanda è spinosa; gli incontri nella lettura di poesia sono molteplici e tutti influenti: un elenco che li comprenda rischia di suonare pletorico, monco, ridicolo. Per di più io diffido, quando si dice: “Trovo che Omero o l’Erodiade di Mallarmé o le poesie di Kavafis o gli esametri di Scialoja o Omeros di Walcott (cinque testi per me imprescindibili) siano il mio incunabolo”. L’esperienza di chi lavora sui versi è un’esperienza di lettore di versi. Di molti versi. Di un multiverso di versi.

  • Qual è il suo giudizio sulla poesia contemporanea italiana? Quali sono i nomi che considera più rilevanti e in che modo pensa si possa aiutare maggiormente a diffondere l’interesse per la poesia?

La poesia contemporanea italiana è piuttosto vitale, perfino nelle sue pulsioni suicide. Per diffondere l’interesse verso la poesia, sarebbe opportuna la creazione di una rete stabile, di una rete vera, meno vittimismo, meno autoritarismo residuale. Quanto ai grandi nomi, sono restio a farne, visto che le classifiche suscitano risentimento. Dirò che per me sono importanti personalità che appartengono a ambiti assai differenti: penso a Mariagrazia Calandrone, Antonella Anedda, Andrea Inglese, Marco Giovenale, Gilda Policastro, Michele Zaffarano, Andrea Raos, Lidia Riviello, che pure sento meno vicini alla mia maniera (alla quale alludo per mera necessità di orientamento), a Gabriele Frasca e Franco Buffoni; a poeti più in vista, come Franco Marcoaldi e Franco Loi; a poeti più defilati come Roberto Carifi, Mariano Bàino, Mimmo Grasso, Ariele D’Ambrosio, Bruno di Pietro, Viola Amarelli, Bruno Galluccio, Franz Krauspenhaar, Mariapia Quintavalla, Roberta Durante, Ferdinando Tricarico, Eugenio Lucrezi, Claudio Finelli, Carmine de Falco, Giovanna Marmo… Un altro canone umorale in ordine sparso.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Cinque-domande-a-DanieleVentre.html   10 febbraio 2016