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INTERVISTE

VENTRE

Cinque domande a Daniele Ventre

 

DANIELE VENTRE, POETA E TRADUTTORE

 

Daniele Ventre è nato a Napoli nel 1974. Nel 2010 ha pubblicato una versione dell’Iliade, che ha vinto il premio Marazza per la traduzione poetica. Nel 2012 è uscita il suo libro di versi  “E fragile è lo stallo in riva al tempo”. Fa parte della redazione del blog letterario Nazione Indiana.

  • Da quale realtà familiare e ambientale proviene e in che modo tale realtà ha influenzato le sue scelte culturali?

Provengo da una famiglia di insegnanti. Ovviamente, la presenza di una biblioteca piuttosto cospicua e fornita ha orientato i miei interessi piuttosto presto.

  • Che studi ha fatto e dove? Ha avuto esperienze formative anche all’estero?

Ho studiato e conseguito il dottorato all’Università degli Studi di Napoli; non ho avuto esperienze formative all’estero. Un’ anomalia nel “pedigree” del versificatore tipo, ma è così.

  • Attualmente di cosa si occupa, sia a livello professionale, sia per ciò che riguarda la sua produzione letteraria?

A livello professionale, insegno lingue e letterature classiche nei licei. Per quanto riguarda la mia produzione, lavoro ora per lo più sulla traduzione di Virgilio: sto inoltre riordinando alcune raccolte di poesie, fra cui testi in dialetto e in lingue morte, e sto cominciando a raccogliere materiali per un romanzo in prosa.

  • Quali sono le sue pubblicazioni più recenti e da quali poeti (classici e moderni) ritiene di essere stato più influenzato?

Recentemente è uscito un mio romanzo in versi, “Verso Itaca”, riscrittura del mito di Telègono, figlio di Odisseo e di Circe. Il libro mi è stato commissionato dalle Edizioni d’if, per cui uscì nel 2012 la mia prima raccolta di poesie. Un poeta che per me agli esordi ha contato molto è stato Gabriele Frasca. Quanto ai classici, dobbiamo mettere in conto tutta la poesia antica greca e latina; nel mare magnum delle letterature, un ruolo peculiare rivestono per me le epiche medievali dall’area ibero-romanza all’area slava, il teatro tragico francese classico, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e più ancora Mallarmé e ovviamente Eliot e Pound; pochi autori del secondo Novecento americano (Beat generation) e francese/francofono (Luca); la tradizione italiana fino al primo Novecento, e nel Novecento in specie Montale, le neoavanguardie & dintorni (Fortini, Sanguineti e Pagliarani, più che Pasolini), Luzi, il tanto (inopportunamente) disprezzato Quasimodo, Gatto o Sinisgalli, Zanzotto e Giudici; importantissimi sono stati per me anche Michele Sovente e Emilio Villa. La domanda è spinosa; gli incontri nella lettura di poesia sono molteplici e tutti influenti: un elenco che li comprenda rischia di suonare pletorico, monco, ridicolo. Per di più io diffido, quando si dice: “Trovo che Omero o l’Erodiade di Mallarmé o le poesie di Kavafis o gli esametri di Scialoja o Omeros di Walcott (cinque testi per me imprescindibili) siano il mio incunabolo”. L’esperienza di chi lavora sui versi è un’esperienza di lettore di versi. Di molti versi. Di un multiverso di versi.

  • Qual è il suo giudizio sulla poesia contemporanea italiana? Quali sono i nomi che considera più rilevanti e in che modo pensa si possa aiutare maggiormente a diffondere l’interesse per la poesia?

La poesia contemporanea italiana è piuttosto vitale, perfino nelle sue pulsioni suicide. Per diffondere l’interesse verso la poesia, sarebbe opportuna la creazione di una rete stabile, di una rete vera, meno vittimismo, meno autoritarismo residuale. Quanto ai grandi nomi, sono restio a farne, visto che le classifiche suscitano risentimento. Dirò che per me sono importanti personalità che appartengono a ambiti assai differenti: penso a Mariagrazia Calandrone, Antonella Anedda, Andrea Inglese, Marco Giovenale, Gilda Policastro, Michele Zaffarano, Andrea Raos, Lidia Riviello, che pure sento meno vicini alla mia maniera (alla quale alludo per mera necessità di orientamento), a Gabriele Frasca e Franco Buffoni; a poeti più in vista, come Franco Marcoaldi e Franco Loi; a poeti più defilati come Roberto Carifi, Mariano Bàino, Mimmo Grasso, Ariele D’Ambrosio, Bruno di Pietro, Viola Amarelli, Bruno Galluccio, Franz Krauspenhaar, Mariapia Quintavalla, Roberta Durante, Ferdinando Tricarico, Eugenio Lucrezi, Claudio Finelli, Carmine de Falco, Giovanna Marmo… Un altro canone umorale in ordine sparso.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Cinque-domande-a-DanieleVentre.html   10 febbraio 2016

 

INTERVISTE

VILLATICO

INTERVISTA A DINO VILLATICO

Dino Villatico (Roma, 1941), dopo aver trascorso l’adolescenza in Argentina, si è laureato in lettere a Roma, perfezionando gli studi musicali da autodidatta. Si è dedicato all’insegnamento di italiano e latino nei licei, e di storia della musica nei conservatori. Per 45 anni è stato critico musicale del quotidiano “La Repubblica”. Oggi collabora a “Il Manifesto” e a diversi blog online. Ha da poco pubblicato presso l’editore Giuliano Ladolfi il volume di versi Ecografia di un congedo. Dal 2013 vive a Fiano Romano.

 

In quale ambiente familiare e culturale è nato e cresciuto, e in che misura tale ambiente è stato    determinante per le sue scelte di studio e di lavoro?

 Sono nato a Roma, giusto 80 anni fa, e mi sembra ieri che bambino assistevo al bombardamento dell’aeroporto di Centocelle.  Mi sembravano fuochi di artificio. Un contadino mi trasse dentro casa. Eravamo andati a procurarci cibo alla borsa nera. Poi da quella visione si sviluppò invece la paura del rumore degli aerei, che durò a lungo, quasi fino al mio primo viaggio in aereo, nel 1970, verso gli USA. La mia famiglia era una bella mescolanza regionale e internazionale: mio padre napoletano, matematico, mia madre ciociara, ma di padre veneziano e madre calabrese, bisavolo scozzese. Rami della famiglia a Verona, a Parma. Fin da bambino dunque l’orecchio abituato a diverse parlate. Quando andavamo a Verona a trovare una sorella di mio nonno, facevo da interprete per mio padre che non capiva i veronesi. E anche mia zia parlava veronese. A Parma feci l’orecchio con la parlata emiliana, più tardi sarebbe stata una guida per imparare il milanese e leggere Porta. Sia mio padre sia mia madre, che aveva studiato l’arpa, amavano la musica. Mia nonna suonava il pianoforte, e ho sentito da lei, il mio primo Chopin, il mio primo Beethoven. Ma lei amava soprattutto Mendelssohn. Un suo modo, durante il fascismo, per dimostrarsi contraria alle leggi razziali. Ma l’episodio più importante della mia infanzia e adolescenza fu il trasferimento in Argentina. Mio padre era stato nominato professore di geometria analitica all’Università di La Plata, per aprire una succursale a Bahía Blanca, oggi Universidad del Sur. L’impatto con la lingua spagnola fu decisivo, mi aprì la strada ad altre lingue. Già avevo l’esperienza dei dialetti: ne capivo e parlavo tre, napoletano, romano, veneziano. Ma capivo anche l’emiliano e il milanese. In Argentina studiai, a scuola, anche l’inglese. Il francese e il tedesco vennero all’università. Intanto, tornato in Italia, al liceo avevo appreso il greco e il latino, che non ho abbandonato più. Anzi mi esercitavo a scrivere esametri latini.

 

La sua esistenza è stata segnata da due grandi passioni: musica e letteratura. Quale delle due ha privilegiato professionalmente, e in che modo si sono influenzate a vicenda?

 A Bahía Blanca cominciai a studiare il pianoforte. Che proseguii in Italia, affiancandovi gli studi di composizione. A lungo restai incerto se dedicarmi alla musica o alla letteratura. Vinse la letteratura, e non terminai gli studi musicali. Anche se in privato, da autodidatta, li completai.

 

Quali sono stati (e sono tuttora) i nomi di riferimento che più hanno contribuito alla sua formazione intellettuale e umana?

 Che domanda complessa, alla quale è difficile rispondere. Intanto musica e letteratura hanno proseguito a interessarmi con sempre maggiore insistenza. I miei idoli musicali giovanili furono Chopin e Beethoven. A 18 anni ci fu l’impatto con Stockhausen, che mi sconvolse. Era il suo primo concerto romano, forse in Italia, salii sul palco, volevo conoscerlo. Dopo anni, in un nuovo incontro mi riconobbe: sei quel pazzo che è salito sul palcoscenico a chiedermi l’autografo. Restammo in contatto. Ma ancora più radicale fu l’influsso di Boulez, di Nono, di Berio. Mi onoravano della loro amicizia. In letteratura fu decisivo l’incontro con Vittorio Sereni. Gli scrissi dopo l’uscita de Gli strumenti umani, libro che mi sconvolse. Mi rispose. E ci vedevamo ogni tanto. Ma l’impatto più forte fu, per il romanzo, con Proust, per la poesia con l’ultimo Montale, quello di Satura, per intenderci, e con Dylan Thomas. Da giovane ebbi una vera e propria passione per Alfieri. Che m’introdusse al teatro. Shakespeare! Accadde anche qualcosa di strano: Dante l’ho sempre letto come un poeta di oggi. Il suo lavoro sulla lingua mi è sempre parso un modello. La mia tesi di laurea la scrissi su un poligrafo fiorentino del ‘500, Antonfrancesco Doni, anche musicista. E scoprii il madrigale. Ma anche l’Ariosto, e il Tasso, mai più abbandonati.

 

Nello scrivere versi, ritiene incidano di più le esperienze esistenziali, con i loro contraccolpi emotivi, o invece la riflessione teorica, l’ideologia, il lavoro sui testi? 

Tutt’e due le cose. Spesso l’idea nasce da un’esperienza, un’emozione. Ma anche una lettura, un episodio politico. Non scrivo tuttavia di getto. Ho un quaderno che porto sempre con me, butto giù gi schizzi, le idee, spesso nascono già formalizzate in versi. Un tempo ero ossessionato dal sonetto. Nelle altre lingue se ne scrivono ancora. Perché gli italiani sembrano rifiutarlo? Ho scritto per anni versi liberi. Poi mi è venuto naturale scrivere endecasillabi, non devo nemmeno contare, nascono da sé. Forse ciò si deve al fatto che scrivo in versi anche il mio teatro. Non solo monologhi, ma anche monologhi. Due li ho recitati io stesso, e con successo. Emozionante recitare l’addio di Petrarca a Venezia, la sua ultima notte nella città, proprio a Venezia, al Teatro La Fenice. Era uno spettacolo della Biennale Teatro. La musica la composero alcuni miei cari allievi del conservatorio, oggi miei cari amici. Una commedia, anch’essa in versi, fu recitata al Teatro Belli, a Trastevere: Con il passare degli anni. La regia era di Marco Maltauro. Piacque. Il teatro era pieno tutte le sere.

 

Si considera debitore verso qualche poeta in particolare? La sua approfondita conoscenza di diverse lingue e culture, antiche e moderne, come ha arricchito la sua sensibilità verso la pratica di scrittura?

 Sono molti i poeti dei quali mi sento debitore. Antichi e moderni. Per esempio, Lucrezio mi ha insegnato che si può fare poesia anche con il pensiero, che la poesia non è solo, romanticamente, effusione di sentimenti. Orazio non mi piaceva da giovane, oggi lo adoro, per la sua abilità metrica e per l’uso disinvolto della sintassi. Ammiro molto la capacità costruttiva di poeta. Non a caso vado matto, come Dante, per Arnaut Daniel o per il catalano Ausiàs March e per lo stesso Dante. Ma ero ancora studente e mi colpì una poesia di Dylan Thomas composta di solo due lunghissime strofe di circa 30 versi ciascuna, in cui le rime procedono a specchio. La seconda strofa ripropone a specchio tutte le rime della prima. E sto parlando di un grandissimo poeta. Questo lavoro “artigianale” della scrittura nelle altre lingue è vivissimo. Borges scrive sonetti.  Clancier scrive bellissime chansons.

Che giudizio si sente di dare, oggi, del panorama letterario e musicale italiano contemporaneo? Quali sono le personalità che considera più rilevanti, e attraverso quali mezzi ritiene si possa incrementare l’interesse per questi due ambiti artistici?

Difficile rispondere. In linea generale la letteratura e la musica italiana di oggi mi deludono. Come mi deludono le canzoni, se paragonate a ciò che si ascolta fuori d’Italia. Per esempio quest’innografia di Battiato mi irrita. È un musicista mediocre e un poeta inesistente. Se ne parla e se ne scrive come fosse Bob Dylan, lui sì grandissimo. Così mi delude anche il cinema che si fa oggi. Ma ciò detto, esistono anche in Italia voci nuove, interessanti. Alcune pur troppo scomparse, come Ferruccio Benzoni. Sotto silenzio per decenni, ora lo si riscopre. Ci sono giovani narratori bravissimi, che non si lasciano appiattire dagli editor. Faccio due nomi a caso: Luciano Funetta e Massimiliano Felli. Ma in genere la letteratura è governata dagli editor, che tendono a banalizzare tutto ciò che leggono, con il risultato che si pubblicano romanzi tutti uguali, tutti scritti con la stessa prosa di una sciatteria che grida vendetta. Quanto alla poesia, ci si illude, in genere, che sciorinando pseudoversi, che sembrano versi solo perché si va a capo, versi banali e sciatti, si sfugga alla trappola delle neoavanguardie. Il verso libero non significa liberarsi di un ritmo. Del resto, nemmeno la prosa è senza ritmo. I veri poeti, come sempre, sono pochissimi. E ce ne sono, comunque.

 

Di cosa si sta occupando attualmente, e quali lavori inediti progetta di pubblicare nel prossimo futuro?

 Cominciamo dalla fine. Ho un romanzo, finito 20 anni fa. Il suo difetto è che il protagonista sia Aristotele. Gli editori mi rispondono sempre allo stesso modo: avvincente, scritto bene, ma troppo colto, non troverà lettori. In Francia, per Gallimard (Gallimard! Come dire Mondadori, Einaudi), Christoph Ono-dit Biot ha pubblicato un romanzo, affascinante, il cui protagonista è un filologo classico, e cita interi passi di Omero in greco. Non credo che il lettore medio francese sia più colto del lettore medio italiano (o sì?), ma l’editore gli dà fiducia. Il romanzo è tra i primi in classifica. Perché da noi non è possibile? Poi c’è una serie di racconti, due già pubblicati, ma mi piacerebbe raccoglierli in volumi. Mi si dice che il racconto non va. Poi ci sono le poesie, tante. Sto lavorando a un nuovo romanzo. Di argomento contemporaneo. Ma preferisco tacerne. Avevo in progetto anche di scrivere il processo che l’Inquisizione intentò al figlio di Monteverdi, per sua fortuna finito bene, ma che costò al padre grande angoscia, due decenni prima era stato bruciato Giordano Bruno, e non erano passati che pochi anni dal processo a Galilei. Leggendo quelle carte si è colti dallo sconforto. L’anima nera, buia, sotterranea degli italiani: delatori, bugiardi, persecutori, sempre pronti a perseguire qualcuno. Il fascismo non si è inventato niente. A denunciare il figlio di Monteverdi all’Inquisizione fu un suo compagno di studi all’Università di Bologna, che aveva scambiato libri di anatomia – allora proibiti in Italia – per libri di negromanzia. Sembra qualcosa successo ieri. Ma per il momento mi sono arenato alle pagine di disperazione di un padre. Che forse è la nostra disperazione per un mondo che sembra accanirsi proprio su chi è incolpevole.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 26 maggio 2021

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