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RECENSIONI

AUGE’

MARC AUGE’, UN ETNOLOGO AL BISTROT – RAFFAELLO CORTINA, MILANO 2015

L’etnologo e antropologo Marc Augé (1935) ha voluto rendere omaggio, con questo piccolo volume, a un’istituzione della società e della cultura francese: il bistrot. Cioè a quella particolare “bottega” che si colloca a mezza via tra il circolo operaio e il più raffinato dei caffè cittadini. E lo ha fatto descrivendo con garbo e nostalgia non solo un ambiente fisico, ma soprattutto un’atmosfera, e le abitudini che accompagnano la vita di ogni persona, rendendogliela più affettuosamente piacevole.
Soprattutto nella città d’elezione dell’autore, «i bistrot marcano il paesaggio cittadino. Sono la traccia della fedeltà che Parigi mantiene verso se stessa». E Augé ripercorre quindi tutti i bistrot della sua esistenza, da quelli sfiorati con frettoloso imbarazzo negli anni del liceo, ad altri frequentati durante l’università, quando con pochi amici vagheggiava l’utopia di crearvi un movimento letterario sulle orme dei surrealisti Breton e Aragon, e poi degli esistenzialisti Sartre e de Beauvoir.
Luoghi di ritrovo che hanno fatto da sfondo a musiche, film e romanzi, creando una moda ben presto diffusa in tutto il mondo, e che vedono rispettato e imitato ovunque anche un loro particolare arredamento: il bancone di zinco, «su cui appoggiano i gomiti i clienti abituali… a contatto della cucina, da cui lo separa una paratia e alla quale lo collega uno sportello»; le mensole alle spalle del barista, con le bottiglie allineate davanti a uno specchio; i tavolini vicini ai finestroni che danno sulla strada; il televisore acceso, in alto, con il volume basso per non disturbare le chiacchiere dei clienti; la saletta riservata col biliardo. Noi italiani non ritroviamo forse, in queste descrizioni, i versi malinconici di qualche canzone di Gaber, di Paoli, di Paolo Conte?
Essenziali sono i rapporti umani che si instaurano all’interno del bistrot, con il cameriere gentile e discreto che ogni mattina saluta l’avventore e ne anticipa le ordinazioni sempre uguali, i colleghi incontrati per caso o fedeli compagni di birre, gli sconosciuti con cui scambiare discorsi superficiali sul tempo, lo sport o la politica, i solitari infelici che si attardano la sera perché nessuno li aspetta a casa. Uno spazio, quindi, che si offre all’incontro, allo scambio di reciproco conforto e conoscenza, e che sa misurare il tempo con il suo «respiro quotidiano».
Marc Augé sembra temere che questi affascinanti luoghi di ritrovo siano destinati a scomparire, soppiantati da anonimi fast-food, da pub pretenziosi, da «catene alimentari globalizzate», privando Parigi e tutte le nostre città di un modo di vivere e di relazionarsi con gli altri amichevole e indulgente, ancora a misura d’uomo.

 

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/Un-etnologo-al-bistrot-Marc-Auge.html      19 novembre 2015
RECENSIONI

AUGE’

MARC AUGÉ, LE TRE PAROLE CHE CAMBIARONO IL MONDO

RAFFAELLO CORTINA, MILANO 2016

 

L’etnologo francese Marc Augé, raggiunta la veneranda età degli 81 anni, sembra scoprire la leggerezza accattivante della scrittura ironica e visionaria, che sa strizzare maliziosamente l’occhio a un pubblico amante più del divertissement letterario che della pubblicazione scientifica. Così aveva già fatto con altri due recenti libri (Il tempo senza età e Un etnologo al bistrot), sempre pubblicati da Raffaello Cortina. Così fa anche in quest’ultimo, spiazzante e divertito, saggio: Le tre parole che cambiarono il mondo. Augé immagina qui che il Sommo Pontefice, il giorno di Pasqua del 2018, affacciandosi al balcone di Piazza San Pietro prima della benedizione “urbi et orbi”, pronunci davanti alla marea di fedeli in trepido ascolto tre parole terrificanti: «Dio non esiste!»

«Un silenzio assoluto scese su Piazza San Pietro. Numerosi furono quelli che trattennero il fiato in attesa di ciò che sarebbe seguito: le parole decisive che avrebbero incenerito l’affermazione sacrilega che il papa avrebbe ovviamente condannato, rivelandone pure gli autori. Ma Francesco volse le spalle e se ne andò…».

Ovviamente tornano alla mente di noi tutti le prime immagini della serie televisiva The young Pope  di Sorrentino, o il Pontefice di Moretti: ma qui Augé parla proprio di Bergoglio, Papa Francesco, e di quella che definisce una sua «nuova stravaganza». E nomina anche puntualmente diversi cardinali, filosofi, giornalisti, uomini politici, descrivendo lo tsunami mediatico, l’affranta disperazione dei credenti, l’imbarazzo dei potenti del mondo all’ascolto delle tre incredibili parole pronunciate dal Vicario di Cristo: «Dio non esiste!», in pratica «il suicidio in diretta del cattolicesimo romano».

La settimana seguente alla Pasqua è descritta giorno per giorno nell’evolversi della situazione a livello globale. Papa Francesco viene ricoverato in una clinica privata, e sottoposto a visite mediche per verificarne la salute mentale; si ipotizzano intrighi interni al Vaticano, intromissioni della CIA, veleni sovietici o congiure islamiche. Ogni guida religiosa del pianeta grida al sacrilegio e invoca l’intervento divino, credenti laici e consacrati sembrano in preda a convulsioni nervose e a deliri millenaristici. Marc Augé, da ateo convinto e sarcastico anticlericale quale si definisce, sorride sornione di fronte a tale isterismo collettivo. Ma si augura che finalmente venga scongiurata la pericolosa tendenza, anti-razionalistica, superstiziosa e bigotta, che ottenebrando le menti delle masse, le spinge a comportamenti intolleranti e fratricidi in nome di qualsiasi divinità. E se per ottenere ciò, fosse necessario ricorrere all’invenzione di una particolare miscela chimica con cui liberare i fasci neuronali dell’umanità dall’oscurantismo religioso (un fantascientifico Progetto Panoramix cui sottoporre papi, imam, rabbini, presidenti e dittatori, nonché i popoli tutti), ben venga anche questo stratagemma. Ci troviamo con evidenza davanti a un pamphlet scritto con intento parodistico e sottilmente polemico. Quello che preme all’autore di dimostrare è quanto possano arrivare ad essere pericolose le religioni vissute con un’adesione esaltata, con fanatismo, senza rispettare il dubbio di alcuni o la diversa fede di altri.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/tre-parole-cambiarono-mondo-Auge.html    23 dicembre 2016

 

 

 

 

 

 

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AUSTER

PAUL AUSTER, ESPERIMENTO DI VERITÀ – EINAUDI, TORINO 2005

Quante cose succedono in Esperimento di verità , questa raccolta di ventiquattro raccontini di Paul Auster!
Scritti con uno stile leggero e veloce, divertiti e quasi stupefatti dalle vicende elementari ma incredibili che narrano, coprono tutta l’esistenza dell’autore, dall’infanzia alla sua maturità di celebre e premiato scrittore. E ruotano ciascuno intorno a un avvenimento minimo ma fondamentale, che ha inconsapevolmente o involontariamente avuto conseguenze basilari nelle vite dei protagonisti, dirottando il corso delle loro esistenze.

Auster ne è la vittima o il responsabile, oppure ancora il testimone diretto e il narratore privilegiato. Racconta di essere diventato scrittore per aver deciso a otto anni di portare sempre con sé una matita, dopo aver perso l’occasione di farsi firmare un autografo dal suo idolo del baseball. O di aver salvato con un balzo istintivo e imprevedibile la sua bambina piccola che stava per schiantarsi contro una vetrata. Sempre al posto giusto nel momento giusto, in più di un’occasione gli è capitato di sventare incidenti potenzialmente tragici per se stesso e per i suoi cari. Un attimo prima o dopo, un metro più in qua o in là, essi avrebbero potuto cambiare le sorti di qualsiasi esistenza
Pure coincidenze, quelle raccontate? Numeri di telefono sbagliati che aprono squarci rivelatori nel destino delle persone, desideri impossibili che si avverano, incontri inspiegabili che potrebbero far credere a qualche stregoneria di un demiurgo capriccioso…

È la costrizione della necessità che ci domina, quasi fossimo tutti programmati, costretti a percorrere un binario già definito in partenza, o l’imponderabilità del caso, che crudelmente colpisce un ragazzino con un fulmine salvando il compagno che gli sta accanto, e che fa ritrovare dopo anni persone che si erano amate, cercate e dimenticate?
Paul Auster si interroga e ci interroga con intelligenza, ironia o amarezza: disincantato e incantato insieme da ogni Esperimento di verità, da ciò che accade quotidianamente nel mondo.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Esperimento-di-verita-PaulAuster.html       11 ottobre 2016

 

 

 
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BABEL’

ISAAC BABEL’, DUE RACCONTI FRANCESI – ENSEMBLE, ROMA 2019

Nella collana dedicata ai classici delle edizioni Ensemble, è uscito un libriccino di Isaac Babel’, Due racconti francesi, esemplare dello stile incisivo e arguto dello scrittore russo. Nato a Odessa nel 1894, Babel’ rispecchiava nella propria narrativa il clima leggendario delle tradizioni ebraiche della sua famiglia, il senso claustrofobico della persecuzione contro il suo popolo, corretto tuttavia dall’ironia e da una critica sarcastica contro l’ottusità del potere e del conformismo politico, caratteristiche che lo resero inviso al regime sovietico, e lo portarono all’arresto nel 1939, quindi alla fucilazione nel 1940. La sua produzione letteraria, giudicata estetizzante e provocatoriamente sensuale, era stata spesso sottoposta a censura.

Nella breve ma puntuale prefazione, la traduttrice del volume Sara Grosoli sottolinea la passione di Babel’ per la cultura francese (e in particolare per l’opera di Flaubert e Maupassant), che lo indusse addirittura a scrivere i primi racconti in quella lingua, aspirando a liberare la letteratura russa dalle atmosfere opprimenti di Dostoevskij e di Turgenev, e dal moralismo religioso troppo esibito di Tolstoj.  Nella maturità si recò più volte a Parigi, dove madre, moglie, sorella e figlia si erano trasferite per sfuggire alla persecuzione stalinista, tornando tuttavia sempre in patria, poiché “preferiva vivere parzialmente libero, ma confortato dal successo letterario nel paese natale”, piuttosto che da émigré appena tollerato nella libera Europa. Quando venne arrestato nella sua dacia mentre era al lavoro, proclamò la sua indignata protesta soprattutto perché non gli avevano permesso di concludere ciò che stava scrivendo.

I due racconti pubblicati da Ensemble si nutrono dunque di questa ammirazione per la Francia, per la sua libertà di pensiero e di costume, per la vivacità dell’espressione formale dei suoi grandi romanzieri, lontani dalla cappa di severa integrità degli scrittori russi. Nel primo, a uno squattrinato studente ventenne viene proposto di correggere la versione di alcuni racconti di Maupassant a cui si sta dedicando una matrona dell’alta borghesia pietroburghese, Raissa Benderskaja, in una forma corretta ma del tutto inespressiva. L’abilità del giovane nel volgere lo stile dello scrittore francese in un russo elegante e incisivo gli serve per conquistare le grazie della ricca signora, che non solo gli paga profumatamente le traduzioni, ma finisce per concedersi a lui con grande passione durante la lettura comune di uno dei brani più eccitanti de La confessione. “Si strinse al muro, allargando le braccia nude… Di tutte le divinità messe sulla croce questa era la più seducente”.

Il sogghigno canzonatorio e sensuale di Babel’ è ancora più evidente nel secondo racconto, Via Dante, ambientato nel quartiere latino di Parigi, dove due ospiti dell’Hotel Danton si confidano con complicità le loro imprese amorose, quasi spiandosi vicendevolmente attraverso le pareti divisorie delle loro camere, da cui provengono quotidianamente gemiti, gridolini e risate di piacere. La voce narrante è quella di uno spaesato esule russo, il cui vicino – un rivenditore di automobili usate di nome Jean Benal-, si incarica generosamente di introdurre alle gioie carnali della capitale, facendogli frequentare bettole, bordelli, caffè e gare sportive, e soprattutto spronandolo a seguire il suo esempio di tombeur de femmes. Ma quando una delle sue più procaci amanti lo scanna con un coltello scoprendosi tradita, al malinconico rifugiato non resta che meditare sugli strani esiti dell’amore: “«Dio … tu non perdoni quelli che non amano…». Nella logora rete del Quartiere Latino era calato il buio, sui suoi gradini la folla lillipuziana cominciava a correre di gran fretta, intense zaffate d’aglio si diffondevano per i cortili. Il crepuscolo aveva rivestito la casa di Madame Truffaut: la facciata gotica con due finestre, i resti delle torrette e delle volute, l’edera pietrificata. Qui aveva vissuto Danton un secolo e mezzo fa. Dalla sua finestra vedeva il palazzo della Conciergerie, i ponti lievemente gettati lungo la Senna, la fila di casette cieche strette al fiume. Quelle stesse zaffate risalivano fino a lui. Spinte dal vento, scricchiolavano le travi arrugginite e le insegne delle taverne”.

 

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https://www.sololibri.net/Due-racconti-francesi-Babel.html         4 giugno 2019

 

 

RECENSIONI

BACHELARD

GASTON BACHELARD, LA POETICA DELLO SPAZIO – DEDALO, BARI 2006

Il filosofo francese Gaston Bachelard (18841962) fu un epistemologo dai molteplici interessi culturali: partendo da studi scientifici di fisica e chimica, si dedicò in seguito alla psicanalisi e all’antropologia. Nella seconda parte della sua carriera, si avvicinò in particolare alla ricerca sull’immaginario poetico, sottolineando la superiorità del fantastico e della “rêverie” rispetto alla razionalità e al ragionamento logico.

In questo volume su La poetica dello spazio, pubblicato nel 1957 dopo altri titoli importanti (La psicanalisi del fuoco; dell’acqua; dell’aria) ribadisce ostinatamente la sua convinzione riguardo alla folgorazione che un’immagine poetica, quando sia veramente tale, produce nel lettore, provocando in lui un “retentissement” (una risonanza: ma in francese il termine mantiene un alone di più immediata allusività), colpendo il suo inconscio con una “sonorità di essenza”. Rifiutando sia ogni semplificatrice motivazione psicanalitica, che tende a spiegare la poesia servendosi dell’analisi di ipotetici traumi biografici dell’autore («lo psicanalista pretende di spiegare il fiore attraverso il concime…»), sia le letture destrutturanti di certa linguistica, Bachelard propone – quasi romanticamente – una sua interpretazione fenomenologica dell’immaginazione poetica, che «emerge alla coscienza come prodotto diretto del cuore, dell’anima, dell’essere dell’uomo colto nella sua attualità».

L’immagine sorge prima del pensiero, direttamente da un’emozione del poeta, e «nella sua semplicità non ha bisogno di un sapere: essa è la ricchezza di una coscienza ingenua, nella sua espressione è linguaggio giovane». Linguaggio giovane che, con la sua novità, mette in moto un’originale e sorgiva attività linguistica, tuttavia nutrita di memorie. In particolare, di memorie spaziali, geografiche, che riesce a sublimare in maniera intuitiva, istintiva, imprevedibile. Il poeta rievoca, scrivendo, gli spazi amati, «gli spazi di possesso, difesi contro forze avverse». Ritornano, nelle sue rêveries (parola molto amata da Bachelard) le immagini della casa, che diventano la topografia del suo intimo. In generale, tutti gli esseri umani, ricordando le case e le camere in cui hanno vissuto, tornano a dimorare in se stessi, rannicchiandosi – per così dire – in un rifugio protettivo che hanno amato («la casa è il nostro primo universo»), o temuto, ma che comunque li ha nutriti. Quali sono gli ambienti domestici che più ritornano nelle immaginazioni poetiche, nei sogni, e anche negli incubi? Secondo Bachelard, la cantina e la soffitta, scavo e salita, riparo ed elevazione, irrazionale e razionale: sempre nel segno della verticalità, questi due ambienti evocano paure ancestrali e solitudine, silenzio e protezione dall’invasione altrui. Dagli ambienti della casa, il filosofo passa poi ad analizzare «la casa delle cose», cassetti, cassapanche, armadi: una sorta di «estetica del nascosto», in cui si racchiudono i propri segreti, in una dialettica del dentro e del fuori, dell’aperto e del chiuso. Che poi si collega al passaggio successivo, allo spazio dell’eterno e dell’immensità, anch’essi fucine di splendide immaginazioni poetiche, di turbinose visioni artistiche.

Il “fuori di noi” che è senza misura (mare, oceano, deserto, foreste, cieli…) ci allontana dalle meschinità quotidiane, allargando la nostra anima in una visione di vastità, inducendola alla contemplazione della grandezza che ci sconfina da noi stessi: «L’immensità è in noi, è legata a una sorta di espansione di essere che la vita frena e la prudenza arresta, ma che riprende nella solitudine». L’invito di Bachelard è allora a non avere paura del sogno, del ricordo, dell’immaginazione e della poesia: «Ah! Quanto avrebbero da imparare i filosofi se si risolvessero a leggere i poeti!». Scriveva Pierre-Jean Jouve, «Poiché noi siamo dove non siamo».

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/La-poetica-dello-spazio-Bachelard.html     6 febbraio 2017

 

 

 

 

RECENSIONI

BACHMANN

INGEBORG BACHMANN, TRE SENTIERI PER IL LAGO – ADELPHI 1980-2012

Uno dei racconti di Ingeborg Bachmann compresi nel volume adelphiano Tre sentieri per il lago si intitola Occhi felici, e narra in poche mirabili pagine la miopia astigmatica (in rapido sviluppo e volutamente trascurata) di Miranda, metafora di un voluto, programmatico distanziamento della protagonista dalla vita e dall’amore.

«Sul confine della cecità… nel suo mondo di nebbia … mondo velato», Miranda «si stupisce come gli altri uomini riescano a sopportare quotidianamente le cose che vedono e che sono costretti a vedere», quindi sceglie di non curarsi, di non portare gli occhiali: dimentica ovunque quelli che ha, li perde, li distrugge, li lascia cadere. E così va a sbattere contro passanti e vetrate, inciampando su ogni ostacolo, rischiando di venire investita per strada e di incendiare il suo appartamento con i mozziconi accesi dimenticati qua e là (triste presagio della orribile morte che attenderà l’autrice del racconto nel 1973). «Poiché non tollera la realtà», Miranda «se la dipinge a modo suo», e sceglie di non guardare l’inferno che la circonda: «un ammasso di facce infelici, cattive, maledette, segnate dalle umiliazioni e dal delitto, volti inimmaginabili». Preferisce addirittura non osservarsi allo specchio, ritenendosi imperfetta o quasi brutta; e nemmeno vuole scrutare l’espressione del suo compagno, l’adorato Josef che forse le sta mentendo, la sta tradendo con la loro migliore amica, si prepara a lasciarla. «Di più non vuole sapere». In lei tutto è tenero, «dalla voce fino ai piedi incerti, ivi compresa la sua funzione nel mondo. Che dovrebbe essere la tenerezza tout court». Così, per evitare a Josef l’imbarazzo della fuga, la crudeltà di un abbandono, decide di fingere lei il disamore, anzi simula un pubblico abboccamento con un ex fidanzato, risolvendosi a soffrire in prima persona piuttosto di fare soffrire l’amante. Perciò, scappando da tutti e da sé stessa, con i suoi felici occhi accecati, finisce per urtare violentemente contro un portone, e piomba a terra insanguinata, in una caduta che ovviamente non è solo materiale.

Tutta la vita di Ingeborg Bachmann è stata un continuo abbassarsi e rialzarsi (come ha ben sottolineato Giannina Longobardi in un suo saggio del 2016) per un susseguirsi di successi e incomprensioni, amori e abbandoni, trasferimenti e desideri di radicamento ambientale e sentimentale. Nata in Carinzia, a Klagenfurt, nel 1926, dopo gli studi di giurisprudenza e germanistica in diverse università austriache, iniziò la sua attività giornalistica come redattrice radiofonica, in seguito dedicandosi alla poesia, alla narrativa e alla drammaturgia, e partecipando attivamente al Gruppo 47, di cui facevano parte scrittori austriaci e tedeschi (Heinrich Bōll, Hans Magnus Enzensberger, Gunter Grass, Peter Handke, Peter Bichsel…), impegnati a riscattare la letteratura tedesca dal passato nazista. La Bachmann visse molto all’estero, a Londra, Parigi, Berlino ma soprattutto a Roma, dove si trasferì definitivamente nel 1965 trovandovi la morte a 47 anni, in seguito alle ustioni riportate in un incendio provocato dalla sua sigaretta, nella casa di via Giulia. Ebbe lunghe e tormentate relazioni con Paul Celan e Max Frisch, e fu più volte ricoverata in cliniche psichiatriche per curare una dolorosa dipendenza dall’alcol e dagli psicofarmaci. Tuttavia mantenne sempre una sua lucida capacità di analisi e di intervento critico nei riguardi della società contemporanea, massificante e brutale.

In un altro dei cinque racconti inclusi in Tre sentieri per il lago, è ancora una donna indifesa e innocua a subire l’ingiustificabile prepotenza del mondo. In questo caso si tratta di un’anziana vedova ‒mortificata dall’unico figlio, famoso psichiatra ‒ che trova conforto nelle premure della giovane nuora, fino a quando anche quest’ultima verrà umiliata e allontanata dal marito egoista. Se negli Occhi felici era la vista il senso attraverso cui Miranda si difendeva dal mondo, ne Il latrato è l’udito che con le sue allucinazioni acustiche accompagna l’impaurita esistenza della vecchia signora Jordan.

È poi la protagonista di una terza storia, Nadja, interprete simultanea viennese, a subire nuovamente la tracotante ed egoistica indifferenza di un uomo. In compagnia di lui, facoltoso diplomatico in servizio alla Fao, casualmente conosciuto ad un convegno internazionale, passa alcuni giorni in un lussuoso hotel a Maratea, con la speranza di approfondire un rapporto per lo meno amicale. Ma al momento di lasciare la stanza, alla malinconica aspettativa di lei, lui risponde distratto di rimpiangere solamente la pesca subacquea e la mancata cattura di una cernia.

Ancora, in Problemi problemi Beatrix, ingenua e gioiosa ventenne che adora unicamente dormire e andare dal parrucchiere, costituisce per il suo amante Erich (un funzionario sposato, più anziano di lei, fiero della dedizione di «questa bambina così paziente e senza pretese»), «un raggio di sole… un’oasi di pace».

Infine, nel lungo racconto che dà il titolo al volume, Tre sentieri per il lago, Elisabeth torna  cinquantenne a trovare l’anziano padre nella casa che l’ha vista crescere, e da cui è fuggita per salvarsi dalla claustrofobica atmosfera austriaca (in questa malsopportazione per la madrepatria, provinciale e reazionaria, l’autrice si accomuna al compatriota e contemporaneo Thomas Bernhard). Gira il mondo come fotografa di successo, si sposa con Hugh, omosessuale newyorkese, e vive una serie di amori e relazioni sfortunate, al limite del masochismo, dettate non solo da un forte complesso di inferiorità, ma anche dal bisogno compulsivo di riconoscente protezione, attiva e passiva: «Se in quasi trent’anni non aveva incontrato un solo uomo che potesse significare tutto per lei, che le fosse diventato indispensabile, una persona che avesse in sé la forza e il mistero che lei aveva sempre atteso, qualcuno che fosse veramente un uomo, e non un qualche essere bizzarro, sperduto, un debole o uno di quelli che hanno bisogno di aiuto, il mondo ne era pieno, allora voleva dire che un uomo così non esisteva proprio». Elisabeth viene abbandonata da tutti i suoi amanti, giovani e vecchi, intellettuali e ignoranti, di qualsiasi nazionalità, e nella stordente frenesia del lavoro cerca di dimenticare sé stessa e le sue delusioni: «Non è nulla, non è nulla, ormai non può succedermi più nulla. Qualcosa mi può succedere, ma non deve».

I personaggi emblematici che la Bachmann sembra prediligere in questi racconti sono donne che patiscono il disinteresse degli uomini; se non si tratta di violenza fisica subita, è comunque la durezza di un’empatia negata, quella che le avvilisce: l’alzata di spalle con cui tutti rispondono alla loro generosa e disinteressata profferta d’amore.

Anche nei versi, Ingeborg Bachmann ribadisce la sua visione di una società opprimente, ossessiva, crudele, a cui solo la gratuità della poesia può opporre resistenza. Una tra le sue composizioni più note, A voi, parole, è indicativa non solo del suo stile intellettualisticamente ricercato, ma anche della sua ferrea convinzione che non sia possibile un’interpretazione fideistica della realtà, né una spiegazione scientificamente razionale di essa, perché “Non vi è schiarita”: quindi, esclusivamente alle parole può spettare il compito di tendere all’autenticità, sfidando la tenebra dell’indicibile, in uno slancio utopico verso la realizzazione di rapporti interpersonali più giusti e non sopraffatori:

«A voi, parole, orsù seguitemi! / Anche se già ci siamo spinti avanti, / fin troppo avanti, ancora si va / più avanti, si va senza fine. // Non vi è schiarita. // La parola / non farà / che tirarsi dietro altre parole, / le frasi altre frasi. / Così il mondo intende / definitivamente / imporsi, / esser già detto. / Non lo dite. // Seguitemi, parole, / che non diventi definitiva / ‒ questa ingordigia di parole / e detti e contraddetti! // Lasciate adesso per un poco / ammutolire ogni sentimento: / che il muscolo cuore / si eserciti altrimenti. // Lasciate, vi dico, lasciate. // Non sussurrate nulla, / nulla, dico, all’orecchio supremo, / che per la morte nulla / ti venga in mente: / lascia stare, seguimi, / né mite né amara, / non consolatrice / né significativamente / sconsolante, / ma nemmeno priva di significato ‒ // E soprattutto niente immagini / tessute nella polvere, vuoto rotolare / di sillabe, parole di morte. // Nemmeno una, / o parole!»

Nessuna immagine, nessuna falsa consolazione, nessun vuoto sperimentalismo ci si può pemettere scrivendo; in Domande e pseudodomande, così infatti Ingeborg Bachmann dichiarava: «La realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé». Nel mondo ostile che circonda chi è inerme o vittima, l’impegno etico e linguistico della scrittrice consiste nel far emergere la verità dalle falsificazioni imposte dalle convenzioni sociali, la bellezza e la perfezione dall’impurità e dalle brutture, e può essere demandato solo alla produzione letteraria: l’unica in grado di ricreare miticamente l’innocenza primigenia.

 

© Riproduzione riservata                 «Il Pickwick», 14 novembre 2018

 

 

 

 

RECENSIONI

BACHMANN

INGEBORG BACHMANN, VERRÀ UN GIORNO – MARIETTI 1820, MILANO 2009

Di Ingeborg Bachmann (1926-1973), poetessa, scrittrice e giornalista austriaca, la casa editrice Adelphi ha pubblicato quasi tutta la produzione in prosa e in versi, giustamente rendendole il tributo che merita in quanto una delle maggiori autrici europee del secondo dopoguerra. Ma il volume che mi pare giusto segnalare a chi volesse avvicinarsi alla sua produzione, è stato invece edito da Marietti una decina di anni fa, con il titolo Verrà un giorno, e il sottotitolo Conversazioni romane.

Si tratta di un libro illustrato con diverse fotografie che ritraggono l’autrice a Roma, dove lei scelse di stabilirsi, dopo un lungo girovagare in diverse nazioni, a partire dal 1953, e dove trovò la morte nella sua casa di Via Giulia 66, in seguito a un tragico incidente, per le gravissime ustioni provocatele dalla sua stessa sigaretta. La sua fu un’esistenza sofferta e inquieta, segnata da dipendenze dall’alcol e da psicofarmaci, da frequenti ricoveri in cliniche psichiatriche e da molte delusioni sentimentali (tra i suoi amori, si citano come particolarmente importanti quelli con Paul Celan, Max Frisch e il compositore Hans Werner Henze). Il volume riporta la sceneggiatura del film “Ingeborg Bachmann in Italia” girato da Gerda Haller  pochi mesi prima della morte della scrittrice, e ne costituisce così una sorta di testamento spirituale, offrendo ai lettori fondamentali riflessioni sulla letteratura, sulla politica, sul rapporto tra i sessi, e una visione inedita della personalità della Bachmann. A cominciare dalla premessa, con una esplicita dichiarazione d’amore per la sua città elettiva, Roma, dove “le persone sono un po’ più belle e molto gentili”, riescono a non prendere le cose troppo sul serio, sono pazienti e solidali tra loro. Dagli italiani, afferma, ha imparato il modo di vivere, di godere della bellezza del cielo e delle architetture, degli incontri con gente comune o con intellettuali autorevoli: persone capaci ancora di impegnarsi e di lottare (si era nel 1973…).

Ingeborg Bachmann rivela in queste conversazioni il suo consapevole femminismo, la sua ostilità verso il matrimonio e verso qualsiasi costrizione della libertà individuale, e contemporaneamente esprime una visione ingenuamente utopistica sul futuro, destinato a una redenzione universale, all’amore, alla bontà. “Verrà un giorno”, ripete ostinatamente, che riscatterà il genere umano da ogni sofferenza e ingiustizia. Incalzata dalla regista Gerda Haller, pronuncia un credo di ottimismo con i versi della sua poesia più famosa, La Boemia è sul mare: “Io confino ancora con una parola e con una terra diversa, / io confino, anche se poco, sempre più con tutto, // un boemo, un errante, che nulla ha, nulla trattiene, / capace ancora soltanto di vedere dal mare, che è / controverso, la terra della mia Elezione”.

Il libro è introdotto e concluso da due approfonditi contributi critici, di Hans Hōller e di Judith Kasper, che indagano sia le posizioni ideologiche della Bachmann, sia il suo rapporto con la scrittura in versi, ma soprattutto la sua disposizione etica nei confronti del mondo in cui si è trovata a vivere.

 

© Riproduzione riservata              

https://www.sololibri.net/Verra-un-giorno-Bachmann.html            27 novembre 2018

 

 

 

 

RECENSIONI

BACIGALUPO

MASSIMO BACIGALUPO, EZRA POUND – ARES, MILANO 2022

Massimo Bacigalupo (Rapallo 1947), uno dei maggiori anglisti italiani, ha dedicato un corposo ed esaustivo volume a Ezra Pound (da lui amato, studiato e tradotto sin dalla giovinezza), in occasione dei cinquant’anni dalla morte del poeta americano, avvenuta l’1 novembre 1972. L’universo poetico poundiano viene esaminato dall’autore con l’intenzione dichiarata di “essere una guida alla lettura, mostrare Come leggere Pound”, facendolo apprezzare nel suo “mondo accidentato ed esilarante”, nella sua scrittura esoterica, allusiva, autoreferenziale, giocosa, magmatica, poliglotta.

Bacigalupo conobbe Pound nel 1962, accompagnando la nonna che ne era stata il medico personale a Sant’Ambrogio di Zoagli, e rimanendo folgorato alla vista del “poeta accigliato alle prese coi suoi demoni”.

Delle quattrocento pagine del libro edito da Ares, più di 50 sono riservate a una documentata cronologia biografica, con un ricco repertorio di note ai tredici capitoli nei quali viene ripercorsa tutta la tormentata vicenda esistenziale e letteraria dello scrittore statunitense.

Nato a Hailey, Idaho, nel 1885, da una famiglia di tradizioni quacchere e puritane, crebbe a Filadelfia e studiò all’Università di Pennsylvania. Trasferitosi in Europa, pubblicò a Venezia la prima raccolta di poesie, A lume spento, nel 1908. Stabilitosi a Londra l’anno successivo, si impegnò in un’intensa e proficua attività di scrittura, collaborando a riviste di critica letteraria, artistica e musicale, intessendo rapporti con scrittori e artisti affermati (Yeats, Eliot, Ford, Joyce, Wyndham Lewis) ed esordienti, e soprattutto traducendo poesia di tutte le epoche, dagli antichi anglosassoni ai provenzali, dai classici latini ai cinesi e ai nō giapponesi. Iniziò a pubblicare diverse raccolte di versi, e fondamentale fu tra il 1912 e il 1913 il suo apporto (insieme agli amici Richard Aldington e Hilda Doolittle) alla nascita dell’Imagismo, che inaugurava uno stile poetico innovativo, teso a cogliere l’immagine in una pronuncia breve e oggettiva, antimetafisica, capace di esprimere una rivelazione istantanea ed evocativa, sulla base di un ritmo musicale richiamante la concisione espressiva degli haiku orientali. Famoso il distico tratto da In a Station of the Metro, manifesto canonico dell’Imagismo: “The apparition of these faces in the crowd; / Petals on a wet, black bough”.

Bacigalupo commenta minuziosamente tutta la produzione letteraria di Pound, citandone versi, brani saggistici, lettere, esplorando i rapporti interpersonali con amici e avversari anche attraverso l’evoluzione/involuzione del pensiero politico, analizzandone severamente pregi e difetti caratteriali: “insieme sfuggente, indefinito, e narcisistico, accentratore”, “timido e sventato, gaffeur ed elegante, ottuso e ipersensibile. Innamorato eterno delle proprie idee, le più trepide e le più grossolane, apparentemente del tutto acritico. Una forza di natura”.

Negli anni precedenti e subito successivi al primo conflitto mondiale, Pound sviluppò un tenace sodalizio con Thomas Stearn Eliot, che produsse importanti effetti sia sulla pubblicazione dei primi volumi eliotiani, e in particolare di The Waste Land, sia sulla svolta ironica compiuta da lui stesso nelle opere fondamentali del decennio successivo. Iniziò quindi a dar forma ai Cantos, poema epico capolavoro la cui stesura occupò l’intero arco della sua vita.

Nel 1920 lasciò l’Inghilterra per trasferirsi a Parigi, quindi a Rapallo, dove risiedette quasi stabilmente dal 1925 al 1945, celebrandone con ammirato stupore lo splendido scenario. Negli anni ’30 iniziò una nuova fase della sua riflessione teorica, finalizzata alla costruzione della seconda parte dei Cantos, e dominata dal desiderio di dare una risposta agli interrogativi sociali ed economici più pressanti posti dalla crisi finanziaria e dall’affacciarsi dei regimi autoritari: i Cantos 31-41, pubblicati nel 1934, si aprono infatti citando Jefferson e si chiudono con Mussolini, i Cantos 42-51, usciti nel 1937, partecipano dell’euforia suscitata dalla guerra italo-abissina. Si andava radicalizzando nel poeta l’interesse per il fattore economico come motore dello sviluppo della storia umana, a cui si affiancò un’esasperata riflessione sull’usura, espressione di un risentimento antisemita che lo spinse su posizioni sempre più reazionarie. Bacigalupo esplora sia i rapporti di Pound con i movimenti letterari e la stampa vicina a Mussolini, sia la sua amicizia e collaborazione con il fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti, di cui condivideva il dinamismo belligerante e antidemocratico.

Negli anni ’40 il poeta tenne a Radio Roma una serie di discorsi in lingua inglese fortemente segnati da antiebraismo e avversi alla politica di Roosevelt, nel segno progettuale di un mondo libero da interessi illeciti, restituito a un sentimento popolare vicino alle componenti rurali del fascismo.

Accusato di tradimento, nel 1945 venne fatto prigioniero dagli americani e internato in un campo vicino Pisa, dove scrisse The Pisan Cantos, pubblicati nel 1948. Trasferito negli Stati Uniti per essere processato, fu dichiarato infermo di mente e rinchiuso per dodici anni nel manicomio criminale di Saint Elizabeth a Washington. Qui compose altre sezioni dei Cantos, continuando a tradurre i classici. Liberato nel 1958, si stabilì nuovamente in Italia, dove visse fino alla morte, scrivendo l’ultima parte del suo poema.

Massimo Bacigalupo ci guida attraverso la selva intricata, ipnotica e spesso oscura dei versi di Pound, nel viaggio fantasmagorico che il poeta affronta nello spazio e nel tempo alla scoperta del mondo e di sé, sulle tracce di Ulisse e di Dante. L’autobiografismo si alterna con la lucida osservazione e il severo giudizio sulla società contemporanea, l’omaggio alla tradizione con l’utopia di un futuro riscattante dalla palude storica di un presente aborrito, da trasformare bellicosamente.

Il percorso ancipite dal baratro all’eden oscilla fra differenti stati compositivi, passando da una tranquilla e saggia contemplazione alla furia e al caos incombenti, sempre esibendo “la potenza della voce poundiana, e anche un suo manierismo, che è la ripetizione di parole per creare sonorità e ridondanza. In Pound ha molta importanza il senso della voce che trascina, che impone la sua visione con una forza ipnotica, con un’energia che regge tutto, anche le parti apparentemente più fiacche. Siamo continuamente respinti dalla violenza della comunicazione poundiana, dalla sua illogicità, ma poi anche sedotti…”.

I Cantos sono un caleidoscopio di paesaggi incantati e agghiaccianti, di personaggi storici e mitologici santi e malvagi, di immagini e termini scurrili grotteschi blasfemi o al contrario ricercati suggestivi ammalianti, di testi stratificati e citazioni erudite, di impenetrabile tenebra e luce accecante. La proposta editoriale di Ares offre al lettore lunghi passi del poema in inglese, con traduzione e puntuale commento, poi brani di epistolari amorosi, informazioni sugli amici letterati italiani, e una galleria fotografica di ritratti e ambienti che hanno Ezra Pound come soggetto-oggetto esplicito o allusivo, con la sua straordinaria faccia su cui la storia ha segnato graffiti, e la poesia ha modellato l’impronta di una apocalittica genialità.

Massimo Bacigalupo, oltre a questo volume realizzato con passione e rara competenza, ha curato anche edizioni di Emily Dickinson, Herman Melville, F. Scott Fitzgerald, Wallace Stevens, Seamus Heaney e Louise Glück. Già professore ordinario di letteratura angloamericana nell’Università di Genova, è vicepresidente dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere, e collabora a Il Secolo XIXIl manifestoParagone e Poesia.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 31 ottobre 2022

 

 

 

RECENSIONI

BAHARIER

HAIM BAHARIER, LE DIECI PAROLE – GARZANTI, MILANO 2023

Haim Baharier, studioso di ermeneutica ed esegesi biblica, matematico e psicanalista francese (Parigi 1947), nato da genitori ebrei di origine polacca reduci dal campo di sterminio di Auschwitz, è stato allievo del filosofo Emmanuel Levinas, del fondatore della psicologia della motivazione Paul Diel e di Léon Askenazi, considerato il padre della rinascita del pensiero ebraico in Francia. Autore di numerose opere dedicate ai testi sacri, insegna Talmud e Torah e tiene da molti anni esclusive e memorabili lezioni di ermeneutica ed esegesi biblica. Tra le sue opere: La Genesi spiegata da mia figlia (2006), Il tacchino pensante (2008), Qabbalessico (2012) e l’autobiografico La valigia quasi vuota (2014). Attualmente vive a Milano.

Garzanti ha ripubblicato il suo saggio Le dieci parole, uscito per la prima volta nel 2011, che commenta il Decalogo dando rilievo al contesto storico in cui ha avuto luce e si è diffuso tra la popolazione ebraica, analizzandone soprattutto la complessità linguistica. Non “I dieci comandamenti”, ma “Le dieci parole”, come anche Papa Francesco ha voluto recentemente intitolare un suo volume, sottolineandone la non prescrittività, bensì l’indicazione comunicativa, là dove i verbi – scritti al futuro e non all’imperativo – suggeriscono esortazione e invito, “promesse che si realizzano”, più che comando e obbligo. Lo stesso Baharier afferma: “leggere il Decalogo come una lapide di imperativi è l’errore di chi teme di cimentarsi con il pensiero, di chi con il pensiero ha paura di scottarsi”.

La Bibbia inizia con Genesi, narrando la grandiosità della creazione, e non con il Decalogo, momento identificativo dei figli di Israele, posticipato all’Esodo, a segnare un percorso che snodandosi dall’Egitto verso la terra promessa offre al popolo eletto la sua costituzione prima ancora che diventi nazione. Tra premesse e promesse si pone il commento di Haim Baharier, insieme esegesi e narrazione che chiosa e illumina di nuova luce il cammino ebraico, dalla preparazione spirituale di Esodo 19 alla realizzazione di Esodo 20. Passo dopo passo il testo originale viene riportato alla sua esatta interpretazione, in cui termini generalmente ricondotti a sentimenti di odio, vendetta, punizione, peccato, vengono traslati in maniera meno inquisitiva: “Una mano sciolta sulla spalla, non l’indice puntato in faccia”. Israele si libera dalla schiavitù, uscendo dall’Egitto e accampandosi nel deserto del Sinai: il deserto non è desolazione ma humus potenziale, la montagna non è ostacolo ma elevazione, la divinità non è vendicativa, i tempi verbali non indicano imposizione ma proposta, il verbo avere non esiste: “Non avrai altro Dio” diventa “Non ci saranno per te altri Elohim sui miei volti”.  La Torah è più dolce di come ci è stata trasmessa!

Se la prima parola era “non ci saranno per te altri idoli”, la seconda chiede di non divinizzare valori o ideologie che si servano di Dio in contesti impropri, per sanare le proprie insicurezze. E la terza promessa, di santificare le feste, invita a inseguire l’ideale, a investire nel sogno di un riscatto: custodire lo Shabbàt, giorno in cui il Creatore riposa. Dal quarto al decimo comandamento l’attenzione si rivolge all’essere umano, al suo agire nel rispetto di persone-cose-ambiente.

Onora il padre, la cui essenza è quella di delegato a creare: il figlio di oggi è il padre di domani, da ossequiare sempre, nel suo avvicinarsi e nel suo allontanarsi dal ruolo che gli compete. Non assassinerai, né materialmente né metaforicamente, per mantenerti in alto, fagocitando con impazienza il senso del conoscere. Non fornicherai, frantumando l’intimità e possedendo l’altro da te, pur accettando l’impulso innato, senza volerlo estirpare a forza. Non rapirai, persone o cose, appropriandoti di quello che non è tuo. Non opprimerai il tuo compagno con falsa testimonianza, creando faziosità, comunicazioni fallaci, saperi occulti. Non desidererai ciò che è possesso altrui, perché si deve accettare il limite, attenersi agli argini.

“Il Decalogo, come tutto il testo sacro, è scritto in una lingua consonantica la cui leggibilità è affidata agli esseri umani. Lingua partitura che chiama ogni lettore esecutore a una interpretazione. Testo che attende sempre di essere interpretato. Haim Baharier ci indica un percorso, attraverso una prosa vertiginosa e spesso oscura, che stilla “piccole/grandi illuminazioni”, come suggerisce Maurizio Meschia nella prefazione al volume.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net                   17 gennaio 2024

 

 

RECENSIONI

BAINBRIDGE

BERYL BAINBRIDGE, LO DICE HARRIET – ANABASI, MILANO 1993

Di un’autrice britannica, Beryl Bainbridge, del tutto sconosciuta da noi, è stato pubblicato presso Anabasi Lo dice Harriet, «un piccolo romanzo nero di rara fattura», come recita la quarta di copertina. Il volume narra le vicende di due ragazzine terribili che, negli anni subito dopo la seconda guerra mondiale, vivono in Inghilterra, in una città di mare, svagandosi con passatempi al limite del lecito, in un crescendo di allusività e morbosità che coinvolge vischiosamente anche il mondo degli adulti. Harriet, delle due adolescenti, è la più disincantata: appena quattordicenne, esile e nervosa, ha già una sua cinica visione del mondo e dell’amore: «A tredici anni, amare qualcuno vuol dire solo farsi un’esperienza». In base a tale direttiva cerca di svezzare la sua romantica e grassoccia amica del cuore, che ne segue fedelmente ogni dettame. Le due adolescenti accumulano quindi esperienze, dapprima con dei prigionieri di guerra italiani, quindi con personaggi alquanto originali del luogo. Con questi scendono in spiaggia, intrattenendosi in confidenze velate e tormentose, e scambiando con loro «l’atto di amicizia», all’insaputa dei genitori, i quali si mostrano scissi tra la voglia di essere fiduciosi e l’ansia preoccupata per eventuali allarmanti conseguenze. Tra le vittime preferite dei loro giochi proibiti, c’è l’elegante signor Briggs, ribattezzato Zar: un uomo colto e raffinato, ma ormai sfatto fisicamente e moralmente, impastoiato nel lugubre matrimonio con una grassa madama che passa i pomeriggi a gustarsi la tv dei ragazzi. Harriet e la sua amica imbastiscono un flirt sottile intrigante con l’anziano uomo, fatto di ammiccamenti e ripicche, avances e ritrosie, lusinghe e rifiuti. Zar ha paura, si vergogna, fa appello alla solidarietà di parenti e amici, ma viene irretito via via in una ragnatela di promesse e calunnie; cede, si concede, sembra impazzito dal desiderio, attratto dalla sfrontatezza e improntitudine morale di Harriet, e dall’amore estasiato da cui è stata presa la ragazzina più giovane. Le due adolescenti lo perseguitano, arrivano a spiarlo, a tormentarlo in casa sua e in ogni momento della giornata: lui si lascia adescare, pur tormentato dalla riprovazione verso se stesso e vanamente inseguito dalla moglie, sempre più petulante. Quando il rapporto tra i tre assume le sembianze di una vera e propria relazione, al clou di un incontro clandestino la più disarmata e infantile tra le due ragazze ammazza a bastonate la signora Briggs, inopportunamente tornata a casa.
Di fronte ai recenti episodi di violenza assassina da parte di giovanissimi, di cui siamo stati impotenti testimoni, ci siamo chiesti quanto di meccanico e inconsapevole agisse nelle menti e nelle mani omicide. Beryl Bainbridge arriva a supporre un automatismo inarrestabile e inconscio in azioni come quella che descrive: «Colpii ancora, con disperata audacia, perché non poteva guardarmi in faccia, e quando cadde lentamente di lato scivolando nell’ombra come una foglia gigantesca, vidi lo Zar sul portone che mi guardava. Non potei muovermi, né abbassare il braccio… Dentro di me piangevo e amavo i miei genitori con tutte le mie forze, ma non riuscivo a muovermi… Ero contenta che ora fossero arrabbiati con me, perché mentre colpivo la signora Briggs avevo avvertito uno strano desiderio di vendetta: perciò mi toccavano il castigo e l’espiazione…».

La conclusione del romanzo – che mi sembra giusto non rivelare- è in linea con le premesse: la perfidia di Harriet, che ha armato la mano assassina, non cede nemmeno di fronte al sangue e alla morte. La sua malvagità sembra ben suggerita dalla riproduzione sulla copertina del volume del ritratto di Balthus  Jeune fille au chat, in cui una bambina osserva biecamente il futuro lettore, quasi a sfidarlo, braccia incrociate dietro la testa, ginocchio sollevato a mostrare sfrontatamente le mutandine, calzettoni arrotolati e un gatto minaccioso ai piedi. Occhi bambini come quelli che attribuiamo a Harriet, spudorati e protervi ma in qualche modo giustamente accusatori nei confronti di un mondo di adulti che non ha insegnato loro ad amare.

 

«L’Arena», 23 settembre 1993