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RECENSIONI

PESSOA

FERNANDO PESSOA, POESIE – NEWTON COMPTON, ROMA 2014

In una curata veste grafica con testo portoghese a fronte, e ad un prezzo addirittura risibile, l’editore Newton Compton propone ai lettori una cospicua scelta della produzione poetica orto-eteronima di Fernando Pessoa (1888-1935). Orietta Abbati ne ha curato con appassionata partecipazione sia la documentata nota biobibliografica sia l’approfondita introduzione, mentre a Piero Cacucci è stato affidato l’incisivo commento finale, indagante lo sguardo metonimico su interno ed esterno dell’esistenza e dell’ideologia pessoana, simboleggiato dalla persistente metafora della finestra. A entrambi gli studiosi si deve la traduzione dei testi. Ne  Il libro dell’inquietudine, sotto lo pseudonimo di Bernardo Soares, così Pessoa descriveva la frantumazione identitaria che albergava nella sua interiorità: «La mia anima è una misteriosa orchestra: non so quali strumenti suonino e stridano, dentro di me: corde e arpe, timballi e tamburi. Mi conosco solo come una sinfonia». E a questa sinfonia, a questo suo teatro mentale, offrivano le loro voci tre controfigure poetiche, con caratteri, timbri e vicende esistenziali assolutamente diverse e originalissime: Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Álvaro de Campos. Il volume in questione ne testimonia la grandezza e la peculiarità stilistica e ideologica: a cominciare dal primo eteronimo, quell’Alberto Caeiro presente con ventuno componimenti, e considerato il maestro degli altri due. Una sorta di autodidatta rurale, orgogliosamente privo di ogni speculazione metafisica, immerso paganamente nello splendore della natura, e fedele solo al richiamo delle sensazioni. Proprio all’innocente esperienza sensoriale, infatti, Caeiro demanda la possibilità di conoscere il mistero della vita e dell’anima umana: «Sono un pastore di greggi. / Il gregge è i miei pensieri / e i miei pensieri sono tutti sensazioni. / Penso con gli occhi e con gli orecchi / con le mani e con i piedi / con il naso e la bocca. // Pensare un fiore è vederlo e odorarlo / e mangiare un frutto è saperne il senso».

Agli antipodi si pone la lezione estetica del secondo eteronimo, Ricardo Reis, che costruisce con rigore neoclassico una poesia antimodernista, modulata sulla lezione degli antichi, in particolare di Orazio. Equilibrio e misura sembrano essere le parole d’ordine della produzione reisana, insieme a un’istanza pedagogica tesa a educare alla saggezza epicurea dell’atarassia: «Oggi, quali servi di lontani dèi, / in casa d’altri, senza il giudice, / beviamo e mangiamo. / E domani accada quel che accada». Il terzo membro della famiglia eteronomica, Álvaro de Campos, si staglia imperiosamente nella sua singolarità di ingegnere navale innamorato della modernità e del progresso, da lui trionfalmente esaltati con espressioni iperboliche e deflagranti, secondo il suo dettame di dover «sentire tutto in tutte le maniere», «O ferro, o acciaio, o alluminio, o lastre di ferro ondulato! / O moli, o porti, o treni, o gru, o rimorchiatori! // Ehilà grandi disastri ferroviari! / Ehilà crolli di gallerie di miniere! / Ehilà deliziosi naufragi dei grandi transatlantici!…». Questi tre specchi deformanti del sentire poetico di Pessoa trovano una loro ricomposizione nelle sue poesie ortonime, caratterizzate da un’angoscia esistenziale indicativa della sua complessa interiorità spirituale e intellettuale: «Ho graduato le influenze, ho conosciuto le amicizie, ho udito, dentro di me, le discussioni e le divergenze di opinioni, e in tutto questo mi pare che sia stato io, creatore di tutto, ad essere il meno presente. Mi sembra che tutto sia avvenuto indipendentemente da me. E mi sembra che ancora avvenga così».

La disgregazione del soggetto, il crudele processo di spersonalizzazione e il conseguente anelito alla simulazione e contraffazione, vengono evidenziati in versi quasi programmatici: «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che giunge a finger che è dolore / il dolore che davvero sente», «Sono una vita oscillante / sulla coscienza d’esistere», «Oggi che estraneo a tutto e a me stesso, / posso, alla luce del dì vasto e ricco, / verificare che fui uno a casaccio, / è ancora a casaccio che lo verifico. // Tutto è estraneo; quanto sono o fui / un altro da me e senza me sospinge». Ecco quindi che la poesia pessoana diventa emblema e simbolo della devastante crisi filosofica e ideologica che interessò le coscienze e la produzione artistica mondiale nel XX secolo, incarnandone la sofferenza e l’ambiguità.

«Poesia» n.298,  novembre 2014

RECENSIONI

PETRIGNANI

SANDRA PETRIGNANI, LE SIGNORE DELLA SCRITTURA – LA TARTARUGA, MILANO 1984-2022

Il volume Le signore della scrittura, che restituisce la voce ad autrici fondamentali del nostro Novecento letterario, mettendo in luce non solo il loro alto spessore intellettuale, ma anche la loro personalità, è giustamente dedicato dall’autrice a Laura Lepetit, coraggiosa fondatrice delle edizioni La Tartaruga, che lo aveva pubblicato nel 1984 e, prima di venire a mancare lo scorso anno, ne ha voluto la ristampa.

Rileggere, dopo quarant’anni, le interviste che Sandra Petrignani fece a undici grandi scrittrici italiane per il quotidiano Il Messaggero, ci riporta a metodi di lavoro, ad atmosfere culturali, a stili di vita pubblici e privati di altro livello rispetto a quelli odierni, e decisamente da rimpiangere.

Le signore che qui si raccontavano – alcune con aperta cordialità, altre con scontroso ritegno, altre ancora con pungente ironia –, avevano in comune l’età avanzata (dai settant’anni in su), lo stesso giudizio amaramente severo sulla loro contemporaneità, e una giustificabile acredine verso “l’assenza di vero prestigio… l’imperdonabile mancanza di autentico riconoscimento” da parte dei critici, degli editori e dei lettori italiani, prevenuti riguardo al loro essere donne.

In realtà, almeno quattro di loro (Morante, Ginzburg, Ortese, Romano) sono oggi considerate appartenere a ragione al nostro Olimpo letterario, e anche delle altre sette si riconosce unanimemente il valore. Anna Banti, Maria Bellonci, Laudomia Bonanni, Fausta Cialente, Alba de Céspedes, Livia De Stefani, Paola Masino godono attualmente di grande stima e interesse, vengono antologizzate, studiate, addirittura imitate. Probabilmente quarant’anni fa non era così, se Petrignani asseriva nell’introduzione all’edizione del 1984: “Ciò che raccontano di sé disegna nell’insieme una comune condizione di isolamento, delle donne fra gli uomini, ma anche delle donne fra le donne. Sono quasi tutte isolate sulla roccia dei libri che hanno scritto, nel silenzio che le circonda o di cui hanno voluto circondarsi”.

Pressoché tutte le intervistate hanno iniziato a scrivere molto precocemente, dall’adolescenza se non persino dall’infanzia, trovando però grandi difficoltà nel farsi pubblicare e nell’avere successo. Erano state lettrici onnivore, appassionate di storia e di arte, curiose di politica, ma arrivate alla vecchiaia vivevano isolate, con pochi amici, snobbando le cerimonie ufficiali e i salotti mondani, timorose di esibire la loro fragilità fisica, la loro stanchezza mentale. Elsa Morante così confidava: “Sono una vecchierella che vuole essere lasciata in pace. Sono aumentata di peso, ho i capelli bianchi, sono malata… Io detesto il mio corpo”.

Nei giudizi espressi sulle altre donne e sul femminismo indicavano spesso una notevole disistima. Anna Banti: “Non sono sempre e comunque dalla parte delle donne. E le dirò questo: le donne sono cattive verso le altre donne. Sono invidiose. Non sopportano che un’altra si distingua in qualcosa”; Elsa Morante: “Sarò stata sfortunata, ma non ho mai conosciuto una donna veramente intelligente. Le donne pensano solo a se stesse e alle loro faccende private, scimmiottano l’uomo, ed è un segno della loro stupidità voler essere come i maschi: spregiano le loro grandi qualità femminili diventando spregevoli”.

Valutazioni decisamente risentite e sprezzanti erano rivolte al mondo degli intellettuali, degli accademici, dell’editoria. “La figura del critico autorevole, ‘infallibile’, del critico padre, è in estinzione. Ora i critici sono più vicini, più simili agli scrittori, meno distaccati e forse più soggetti a infatuazioni e cecità” (Ginzburg); “Ma cosa vuole che creda nell’immortalità letteraria! Non vede che stiamo andando verso la distruzione dell’intero universo?” (Morante); “Oggi scrivere non basta più. Uno scrittore per prima cosa deve sapersi promuovere da solo, darsi d’attorno… Autori e critici che una volta erano considerati seri, oggi non si vergognano ad avallare sotto prodotti letterari ignorando opere migliori” (Bonanni); “Si perde del tempo prezioso a leggere quanto oggi gli editori sfornano. I classici dobbiamo leggere. E rileggere” (Masino).

Molte di loro avevano avuto compagni importanti: Anna Banti era la moglie del critico d’arte Roberto Longhi, Maria Bellonci del giornalista Goffredo Bellonci, Fausta Cialente del compositore Enrico Terni, Paola Masino dello scrittore Massimo Bontempelli, Lalla Romano del banchiere Innocenzo Monti, Elsa Morante di Alberto Moravia. In generale, tuttavia, non parlavano con entusiasmo della loro vita di coppia, essendosi sentite spesso trascurate, o non prese nella dovuta considerazione come scrittrici nella stretta cerchia familiare.

Colpisce l’estrema saggezza di alcune frasi lapidarie di queste anziane scrittrici. Lalla Romano affermava: “Vivere con passione e raccontare la vita con distacco… Bisognerebbe coltivare l’indifferenza rispetto al rumore del mondo, alle chiacchiere, ai giudizi sbagliati. Il distacco dalla vanità e dalla compiacenza”, e Alba de Céspedes: “Il grande segreto della vita è eliminare. Proprio così: eliminare tante cose inutili, quelle che ci fanno perdere tempo. Bisogna avere la forza di dire di no, se si vuole riuscire in qualche cosa”, Anna Maria Ortese, alle cui riflessioni è concesso lo spazio più ampio nel libro, condensava con saggezza antica e acuta sensibilità la responsabilità morale che ogni essere umano dovrebbe provare nei confronti di qualsiasi elemento del creato: animali, vegetali, aria, acqua, rendendo continuamente grazie alla bellezza dell’universo, e rifiutando la violenza, l’inganno, la corruzione: “Questo vivere è cosa sovrumana… Tutto respira e tutto ha diritto di respirare”.

Sandra Patrignani, riproponendo dopo quarant’anni queste testimonianze di vita, ci ha permesso di incontrare non solo eccezionali signore della scrittura, ma anche maestre del pensiero: un invito pressante a riscoprirle nelle pagine straordinarie che ci hanno lasciato.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 5 aprile 2022

 

RECENSIONI

PETRUZZELLI

PINO PETRUZZELLI, L’ULTIMA NOTTE DI DIETRICH BONHOEFFER – ARES, MILANO 2022

 Il pastore luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) trascorre l’ultima notte della sua breve esistenza nel lager di Flossenbürg, in attesa di venire giustiziato per aver partecipato al fallito attentato contro Hitler, nell’operazione Walchiria. A raccontare le tragiche ore che lo separano dall’esecuzione è Pino Petruzzelli (Brindisi,1962), drammaturgo, regista e attore, fondatore – insieme a Paola Piacentini – del Centro Teatro Ipotesi di Genova; lo fa recuperando elementi biografici, itinerari ideologici e percorsi di fede del protagonista, con la volontà di renderne un ritratto psicologico e morale, sullo sfondo delle emozioni vissute nei drammatici momenti che precedono la sua impiccagione.

Si tratta di un monologo in cui Dietrich parla a se stesso e a Dio, lasciando che la paura, lo sconforto, la tentazione di una resa, affiorino alla sua mente e alle sua labbra insieme alla supplica. L’impianto della narrazione è volutamente teatrale, quasi che l’autore abbia progettato una futura rappresentazione sulla scena: si svolge infatti per quadri, scanditi in sei ore, dall’una di notte del 9 aprile 1945 fino all’alba, quando i carcerieri verranno a prelevare il prigioniero per condurlo al patibolo. E ogni atto, privo di azione e voci diverse, rievoca un passaggio dell’esistenza di Dietrich, intervallando le illuminazioni della memoria con brani evangelici, preghiere, poesie.

La prima, fondamentale e affettuosa ricostruzione, è quella dell’ambiente familiare, con la numerosa famiglia nell’elegante villa di Bratislava, il padre illustre psichiatra, la madre premurosa e attenta educatrice degli otto figli, l’amorevole ma austera formazione culturale e cristiana impartita ai ragazzi: musica, libri, rispetto per la natura, e soprattutto un costante impegno a vivere con dignità il proprio ruolo di cittadini democratici. I ricordi del fratello Walter ucciso da una bomba sul fronte durante la prima guerra mondiale, degli appassionati studi di teologia, dei seminari di qualificazione in Europa e in America, e quindi del servizio pastorale rivolto a soccorrere la sofferenza dei più poveri, lottando contro le ingiustizie sociali e contro il razzismo verso neri ed ebrei, si susseguono limpidi e nostalgici. Bonhoeffer ripercorre, in un puntuale esame di coscienza, i momenti che l’hanno portato ad assumersi la responsabilità convinta e decisa di opposizione al nazismo: gli articoli giornalistici, le trasmissioni radiofoniche, le omelie dal pulpito, i rapporti sempre più stretti con la resistenza europea. Gli scrupoli di coscienza che lo avevano tormentato negli ultimi anni riguardavano ovviamente la possibilità di conciliare la propria fede in Cristo con la decisione di eliminare Hitler, partecipando a un complotto pianificato per rovesciare la dittatura, all’interno dei servizi segreti dell’Abwehr. Messo di fronte al silenzio complice del luteranesimo tedesco se ne era allontanato con disgusto, aderendo alla Chiesa Confessante e scegliendo la lotta clandestina e lo spionaggio. L’arresto avvenuto nel 1943, l’internamento dapprima nel carcere di Tegel, quindi nel lager di Flossenbürg, avevano segnato il momento di più profonda depressione, non solo per la nostalgia di casa, della fidanzata diciannovenne Maria, e per la consapevolezza dell’inevitabile condanna, ma soprattutto per l’impossibilità di continuare a combattere, impedito com’era ad agire, chiuso in una cella buia di sette piedi per tre.

Nell’attesa della morte, l’uomo di Dio si appella alla fede, con i versi toccanti delle poesie che verranno pubblicate postume nel suo libro più famoso, Resistenza e resa: “Signore, povero tu fosti / e come me prigioniero e abbandonato, / degli uomini conosci ogni patimento, / ti sento accanto in questa solitudine. / Non mi dimentichi, mi cerchi, / ti riconosco e a te mi rivolgo, / donami la fede / che dalla disperazione salva”, “Quando un profondo silenzio ci avvolge, / facci udire il suono pieno del mondo”, “Non le sopporto più queste prigioni buie. / Sono malato come un uccello in gabbia. / Ho fame di colori, di fiori, di canti d’uccelli. / Ho sete di parole buone, di compagnia / e sono anche stanco e vuoto nel pregare. / Sono solo pronto a prendere congedo da tutto”. Il congedo dal mondo avvenne per Dietrich Bonhoeffer nelle prime ore del mattino del 9 aprile 1945: secondo le testimonianze raccolte, fu affrontato con dignità, coraggio e fiduciosa speranza nella risurrezione promessa dal Vangelo.

© Riproduzione riservata              11 aprile 2022

RECENSIONI

PICCA

AURELIO PICCA, ARSENALE DI ROMA DISTRUTTA – EINAUDI, TORINO 2018

«Quando la vidi non sapevo fosse Roma… La luce del mattino timbrava ogni oggetto. Anche l’asfalto era una pista. Ma nessuna macchina o moto la percorreva. Il cielo, molto alto, sono sicuro che aveva abbandonato con gentilezza l’alba e andava a rincorrere il sole di giugno». È l’avvio, poeticissimo, dell’ultimo romanzo di Aurelio Picca (Roma 1957), Arsenale di Roma distrutta, in cui l’autore narra di un bambino treenne che, scendendo da un autobus sulla via Appia insieme alla tata, ha la sua prima fatale e prodigiosa visione della capitale. Da qui nasce il suo rapporto di passione e dipendenza viscerale con la città, durato l’intera esistenza. Roma dai mille attributi: a testa alta, spaccona, paracula, livida, gialla, nera e nera, macera, frollata, femminona o meretrice o transessuale, elettrica e metallica, feroce e cadaverica. Metropoli e suburbio, in cui il protagonista ripercorre gli anni tronfi e trionfanti della sua infanzia e giovinezza, attraversati da personaggi pubblici e privati mai banali, mai comparse, sempre prepotentemente incardinati nella loro provocatoria sfida al decoro borghese, al conformismo, all’acquiescenza.

Una Roma violenta e viva, che nei luoghi deputati dello sport «sapeva di tabacco, di cessi, di segatura umida, di piscio pieno di emazie», di botte tra tifoserie contrarie, di nomi urlati negli stadi e nelle palestre, nei campetti di calcio e nei bar col biliardo (Giorgio Chinaglia, Re Cecconi, Nino Benvenuti). Che negli ospedali vedeva sfilare una dolorosa umanità proletaria, rachitica e rassegnata. Che si nutriva di musica popolare (Franco Califano, Antonello Venditti, Riccardo Fogli) o prendeva d’assalto i primi concerti rock, e si divertiva con i film di Franchi e Ingrassia. Nel passato di «quando Roma era Roma», e non ancora quella odierna che cresce e muore assediata da burocrazia e arrivismo, Aurelio Picca indaga le facce dei «macellari», delle portinaie e dei pescivendoli del mercato, dei «pederasti che fumavano col bocchino», dei papponi e dei pizzicagnoli, delle «signoracce con le unghie rosse mangiucchiate, la tinta fatta in cucina, il rossetto sbavato». Ne celebra criminali e artisti, che «sono una cosa sola. Feroci, spietati, nudi, estremi, senza paura, pronti a morire per cercare l’assoluto…Uccidevano perché contro il mondo. Scrivevano e dipingevano per lo stesso motivo». Gli artisti di allora si chiamavano Pasolini, Schifano, Angeli, Festa. I malavitosi erano armati di bombe a mano, fucili a canne mozze e mitra; erano rapinatori, terroristi, sequestratori, assassini, stupratori: la banda della Magliana, il clan dei Marsigliesi, i Cimino, Laudovino De Santis. «Adesso Roma è piena di criminali in pantofole, inciviliti: tipi che, se devono fare il lavoro sporco, lo fanno fare addirittura ai politici. Sono identici ai preti pedofili».

Città plebea e pagana, coloratissima e vociante di giorno; minacciosa, tossica e blasfema di notte. L’autore ne rimpiange i nights, le discoteche dall’«atmosfera di carne cotta e solitudine», le gare rocambolesche con le auto, gli eccessi fisici e comportamentali. «Roma ha bisogno dell’orgoglio, delle sfide, di fasti cesarei e papali. Qui bisogna riprendere a sfottere il Mondo». Picca, che tra diario e leggenda ha sempre spavaldamente esibito la sua vita spericolata, le sue amicizie sbandate, la sensualità più trasgressiva e azzardate dipendenze, in una continua sfida al perbenismo, in questo romanzo alterna sapientemente il freddo resoconto cronachistico a termini coloriti, dialettali e addirittura triviali, il gusto per il macabro ai riferimenti mitologici, il lirismo descrittivo all’imprecazione, l’autobiografia nostalgica allo scherno più arrogante, offrendoci una singolare rassegna di personaggi insoliti. L’adolescente Lilly timorosa e vogliosa di perdere la verginità, la novizia pentita e transfuga, due signorine straniere di facili costumi e languide carezze, il sor Paolo grossolano d’animo e di corpo. Figure ai margini, non marginali, di una Roma carnale, arcana e gaglioffa.

 

© Riproduzione riservata                   «Il Pickwick», 12 luglio 2018

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PICCINI

DANIELE PICCINI, INIZIO FINE – CROCETTI, MILANO 2013

Il titolo di questa raccolta poetica di Daniele Piccini (Città di Castello, 1972) ben riassume il tema unificante delle varie sezioni: una riflessione pacata, malinconica, di meditativa interrogazione sul significato dell’esistenza, nel suo sorgere e nel suo finire. La morte, quindi, «Solo la morte le contiene tutte / le infinite varianti delle storie», «Pensa: occuparsi solo della fine, / non ingannare o ingannarsi di dare / inizio ad altro che si finga nuovo», «Dopo la morte la vita è un immenso/ geroglifico opaco traversato/ da segni incomprensibili». Morte osservata in un cimitero di campagna o attraverso le finestre di un ospedale periferico, morte incomprensibile e sofferta di una persona amata («ma la morte che toglie via il più caro / è come un buco nella tela, o altro / che si può dire / così: niente è più uguale… // Niente è più uguale, il mondo / pullulante / non sarà più lo stesso senza quello / che non ha avuto il tempo / di darti un solo abbraccio andando via»): ma anche la constatazione della «vanitas vanitatum», del transeunte a cui nulla si sottrae («che cosa può durare? //… il fiore non fiorisce che è già gelo»). A questo destino di consunzione, di annullamento a cui non sfuggono nemmeno gli animali («Il non sapere nulla della morte / non salva gli animali dalla morte»), nemmeno le stelle e l’universo tutto («L’enorme solitudine delle stelle / somiglia forse a quella / d’uomini alla deriva», «stelle morte / che bussano alla porta. / Ascoltale, perdonale»), il poeta vorrebbe contrapporre, come unica ipotesi di salvezza, un ritorno all’origine, quasi uno scorporamento che ci disincarni dalla corruttibilità della materia: «Sempre la scelta è fra venire a riva / e perdersi nel gorgo, / rinunciare, non essere mai nati», «Deve sempre andare avanti lo show? / Fermatevi pianeti, / cessate lune e mondi di ruotare / davanti alla morte della creatura». Rinunciare, ritornare, sono termini ricorrenti in questi versi; l’aspirazione a una libertà che sollevi dal peso vincolante della riproduzione, della nascita e del disfacimento (l’eco dei Four Quartets eliotiani: “In my end is my beginning”…): «Un soffio nel creato, senza centro, / che non leghi più altri alla catena… // una bolla senza più genitura / che le accolga tutte quante le cose/ orfane e smenticate, che le medichi…». Allora l’espediente retorico più utilizzato a ribadire il proprio convincimento, nel desiderio forse inconscio di renderlo più sicuro e incontrovertibile, è la ripetizione: «nel sangue-con il sangue», «era scritto, scritto in cielo», «Guàrdali, guàrdali che si perdono!», «Fa’ che chiuda, fa’ che chiuda le mani». Daniele Piccini, critico letterario e filologo, studioso di poesia medievale e contemporanea, propone un uso consapevole e originale della tradizione, in particolare nella sezione più convincente del volume, Cellule, in cui una trentina di sonetti mascherati, privi di rime, ma aperti tutti da melodiosi endecasillabi, ripercorrono con raffinata eleganza e sospesa delicatezza i temi dell’intera raccolta, un dialogo assorto con la natura e il divino, con la scrittura e il pensiero, il corpo e lo spirito, l’inizio e la fine: «un andare verso, un terminare».

 

«Incroci» n.29, giugno 2014

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PIJI

PIJI, S’I’ FOSSE WHISKY – MORELLINI, MILANO 2022

S’i’ fosse whisky, pubblicato dall’editore Morellini nella collana “Improvvisazioni”, è una selezione di versi tratti dai quaderni di appunti di Piji, cantautore, giornalista, performer, conduttore radiofonico e organizzatore di eventi. Nato a Roma nel 1978, Piji è attivo da diversi anni sulla scena italiana pop/jazz e canzone d’autore/indie, e di questo substrato musicale e culturale sono nutrite le pagine poetiche qui raccolte. Una “valanga di roba” tirata fuori da “un mucchio di quaderni abbandonati… diari segretissimi” che due editori curiosi hanno voluto dapprima leggere, quindi pubblicare.

Con modestia e sincerità, l’autore confessa nell’introduzione la consapevolezza di aver composto non tanto poesie, quanto “popsìe, jazztacci e canzoni senza musica”: pensieri, emozioni, dediche amorose, riflessioni sociali e politiche scritte di getto, senza rielaborazione, un po’ ubriache perché “parole alcoliche e quasi sempre notturne”, in cui l’whisky ha la carica ispiratrice ed esplosiva del fuoco divino che animava Cecco Angiolieri.

Whisky, appunto, come protagonista di queste popsie, “goccia bruna, densa di bourbon / no, meglio di scotch single malt”. Ma insieme al bicchiere, tanta musica, jazz soprattutto (“Una donna bellissima che parla francese”), e spruzzate di sentimento amoroso (“lei, / dai capelli al cioccolato, / con una fretta pratica costante / e un’esplosione di colore dietro al viso”), ritratti autobiografici (“Per quelli come me, / cialtroni dell’esistere, / la vita è già difficile / com’è. / Per quelli come me, / cicale malinconiche, / precisi con le nuvole, / penosi più vai a scendere…”)), e ancora riflessioni sul mondo in cui viviamo, con l’utopia di cambiarlo: “Buttiamo insieme giù questa parete. / Di un muro mai nessuno può andar fiero. / Qualcosa sta cambiando per davvero. / Se un po’ si aggiusta il mondo, sorridete”).

L’amore rincorso è quello intravisto e sperato, che illude all’inizio e viene combattuto giorno dopo giorno, con caparbietà e rabbia, dedizione e rassegnazione: “cercavo / cercavo / cercavo / l’amore perfetto // … Era lì che sbagliavo, lo ammetto. / Il verbo del cuore è un modo imperfetto”. Ma esiste anche un’altra specie di amore, quello dei profeti di pace, dei generosi che aiutano gli altri immolandosi per un ideale di giustizia, come Gino Strada: “In un mondo così lordo di cattivi, / i buoni sono quelli che non sporcano, / ma i santi sono quelli che puliscono”.

Costante è l’omaggio al lavoro del musicista, alla sua faticosa preparazione professionale, al suo perpetuo girovagare tra città, sale di incisione, concerti, sigarette e caffè, accanto alla consapevolezza della collaborazione non sempre facile con altri artisti, dei sacrifici materiali che comportano tanta solitudine e la rinuncia a una stabilità affettiva, allo scopo di ottenere infine l’applauso del pubblico per l’impegno messo al servizio della propria arte.

Tutti questi molteplici temi che si rincorrono, proponendo ambienti domestici o esotici, incontri originali o deludenti, sensazioni contrastanti, note sincopate e audaci arrangiamenti, costituiscono gli ingredienti di un’unica ricetta compositiva: “7 quintali di musica / 80 chili di libertà / 2 parti di whisky, / 1 attimo di magia”, per arrivare a concludere “Ma quant’è bella la vita”, nelle sue mille sfaccettature, colte al volo in POPSIE improvvisate, “testo pretesto per suonare qualcosa, / bella scusa, / camminare nel bordo del mondo / con in mano soltanto / una rosa”.

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22 novembre 2022

RECENSIONI

PIOVENE

GUIDO PIOVENE, LE STELLE FREDDE – BOMPIANI, MILANO 2017

Di Guido Piovene (1907-1974), intellettuale a tutto tondo (romanziere, giornalista, critico, grande viaggiatore) Bompiani ripubblica in una nuova edizione il romanzo più famoso e premiato: Le stelle fredde, con una prefazione –  che in realtà è un vero e proprio, coltissimo ed entusiastico, saggio – di Andrea Zanzotto. Il protagonista, di cui non viene mai fatto il nome, narra in prima persona una sua tragica discesa negli inferi nebulosi della depressione: un male oscuro di totale inappartenenza, di volontaria latitanza da se stesso. Sordo a qualsiasi richiamo di vitale fisicità (non per niente il libro si apre su una visita specialistica per il controllo dell’udito), afasico e indifferente al parlare altrui, il quarantenne, abbandonato dalla compagna Ida, decide di troncare ogni rapporto con la sua vita sociale e lavorativa, e di andarsene. Via, lontano dalla città e dalla casa in cui abitava, dall’azienda aeronautica in cui occupava il ruolo di stimato pubblicitario, da qualsiasi abitudine precedente. Si rifugia in una vecchia villa di sua proprietà, occupata dal padre settantenne con cui non ha mai avuto buoni rapporti, in un ambiente rurale umido e ostile: celandosi agli altri e al proprio io, senza conoscerne appieno la ragione.

«Ho detto che tutti i motivi per cui mi ero nascosto, dagli ultimi ai più lontani, si erano distrutti nell’altro che cresceva dentro di me, e non ne aveva più nozione. L’unica impazienza in me era di sentirmi troppo somigliante a me stesso, non ancora abbastanza l’altro, tanto che potevo ancora accorgermi d’essere in due, come uno che veda salire una forma dal proprio ventre. Quell’essere bellissimo si chinava su me come ci si china sui morti, e mi sentivo morto, non ancora però abbastanza, senza avere provato un attimo di dolore. Volevo esserlo di più, sempre più intento a progredire nel mio nuovo stato».

Vittima inconsapevole di questa bipolarità, passa da momenti di «stranissima e larvale» felicità e irragionevole allegria ad altri di disperazione, dall’aggressività alla paura, dall’abulia alla tensione più eccitata. L’unica realtà in cui trova pace è quella dell’osservazione estatica dell’esterno (la campagna magica e spettrale, il cielo solcato da uccelli silenziosi, la palude fangosa, il ciliegio nel cortile con la sua nuvola di fiori bianchi), o degli oggetti umili e usurati della sua abitazione. Facce, gesti, sguardi, parole umane gli fanno ribrezzo: «i caratteri, i personaggi, i morali, i fanatici, i missionari, i predicanti, i passionali, i credenti, i sinceri. Orribilmente falsi. Orribilmente ebeti. Orribilmente spettri. Disgustosamente parlanti. Mi ripugnano e io ripugno a loro».

Eppure, da questo suo totale rifiuto di apertura al mondo e agli altri, finisce quasi per contrappasso per essere risucchiato in una vicenda torbida di violenza, morte, sospetti, indagini di polizia, che lo vedono insieme accusatore e accusato. Un «giallo metafisico», come lo definisce Zanzotto, in cui le persone concrete diventano fantasmi, e i fantasmi si incarnano in essere viventi. L’incubo assorbe la realtà, il paesaggio da terrestre si trasforma in cosmico o abissale, i ricordi svaniscono nei sogni. Così improvvisamente si materializzano davanti al protagonista nei panni di stranianti interlocutori un poliziotto con la vocazione dello psicanalista-confessore, oppure Fiodor Dostoevskij, mito letterario e grillo parlante fuoriuscito da un oltretomba più kafkiano che dantesco. Il romanzo di Guido Piovene coniuga sapientemente realismo e visionarietà, confezionati in uno stile elegante dai molteplici livelli espressivi: ironici, allegorici, moraleggianti, risentiti, ideologici, teologici. In uno spietato scandaglio dell’animo umano, del mondo di quaggiù e di quello di lassù, tutti accomunati in una farsa o in una tragedia senza senso.

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/Le-stelle-fredde-Guido-Piovene.html       20 settembre 2017

RECENSIONI

PIRANDELLO

LUIGI PIRANDELLO, LA MIA ARTE SEI TU – L’ORMA, ROMA 2013

In una raffinata e originale veste tipografica, l’editore romano L’Orma propone a un prezzo assai conveniente dei libriccini di autori classici, contenuti in una sovraccoperta trasformabile in busta pronta ad essere affrancata e spedita. Idee regalo, quindi, preziose e molto curate. Come questa scelta di lettere scritte da Luigi Pirandello alla giovane attrice Marta Abba tra il 1925 e il 1936, anno della morte del drammaturgo. Testimoniano l’amore «squilibrato» (come lo definisce il curatore del volume, Massimiliano Borelli), ma anche devoto, incondizionato e totalizzante che lo scrittore sessantenne nutrì per la sua bellissima musa e interprete teatrale, che mai corrispose del tutto al suo sentimento, pur nutrendo per il suo Maestro un’altissima considerazione intellettuale e un profondo affetto filiale. Pirandello si rivolge a Marta sempre usando il pronome maiuscolo (Tu, Te, Tua), incoraggiandola a lusingandola come artista, sottoponendole i suoi lavori, chiedendole addirittura consigli e proponendole collaborazioni professionali molto allettanti: «Il Tuo posto, per ora, nell’arte italiana, può essere vuoto, perché Tu non reciti, ma non può essere preso d’altra attrice, mai, perché nessuna t’arriva al ginocchio; e Tu sei Tu, inconfondibile, insopprimibile, insostituibile»; «Sto scrivendo per Te. Non potrei più andare avanti d’una parola, se la Tua divina Immagine ispiratrice m’abbandonasse per un istante»; «Ho tutta la mia vita in Te, la mia arte sei Tu; senza il Tuo respiro muore»; «Il mio teatro non deve vivere che nella luce del Tuo nome; e poi si spegnerà con Te, per modo che il mio nome resti inseparabile dal Tuo, che gli avrà dato la sua vera vita; e sarà gloria Tua, nel mondo»; «Sei l’unica sola Attrice di domani, e tutti lo sanno e lo proclamano – l’Attrice moderna per eccellenza».

L’Accademico d’Italia, il Premio Nobel supplica la giovane ispiratrice di seguirlo sui palcoscenici di tutto il mondo, a Berlino, a Parigi, in America: le promette di fondare con lei e per lei una compagnia teatrale, assicurandole successo e denaro. Si inginocchia e si umilia, implora, minaccia il suicidio, in una frenesia passionale che non conosce censure o pudori.«Tu sei una scrittrice nata. Ma tu sei anche TUTTO, Marta mia…io sarei un gran medico per Te, Marta mia; ma bisognerebbe che tu fossi solo affidata alle mie cure»; «Tu non devi aver bisogno d’altri, che di me, e di me vuol dire come di Te stessa, perché io non sono altro che Tu, non posso più considerarmi altrimenti, e neanche Tu devi considerarti altrimenti: io, per noi, vuol dire Tu»; «Il Tuo vero padre sono io, sono io, e Tu sei la creatura mia, la creatura mia, la creatura mia di cui tutto il mio spirito vive con la potenza stessa della mia creazione, tanto che è diventata cosa Tua e tutta la mia vita sei Tu. E la verità vera è che io non sono vecchio, ma giovine, il più giovine di tutti, così nella mente, come nel cuore; così nell’arte, come nel sangue, nei muscoli e nei nervi»; «Ajutami, ajutami, per carità, Marta mia, non mi lasciare, non m’abbandonare, sono gli ultimi miei momenti: ho tanto bisogno di Te, di sentirti uguale e vicina».

Pochi mesi prima di morire, sentendo la fine ormai vicina, e consapevole dell’allontanamento ormai definitivo della sua musa, Pirandello le scrisse queste ultime, strazianti parole: «Ho perduto con Te la mia luce. Non vedo più nulla. Non so perché seguito a vivere. Non c’è più nulla che m’interessi o m’attiri….Addio, Marta mia! E sentiti sempre, tutta, nel bene senza fine che Ti vuole il Tuo Maestro». Due anni dopo Marta Abba sposò un americano, e andò con lui a vivere nell’Ohio, ritirandosi dalle scene.

 

«succedeoggi», 12 marzo 2015

RECENSIONI

PISTOSO

GIULIANA PISTOSO, STORIE INQUIETE E DISORIENTATE – LUCIANA TUFANI EDITRICE, FERRARA 1996

C’è una memoria storica, pubblica, collettiva, che appartiene ai libri, ai film, ai documenti; e c’è una memoria privata, personale, che si riscopre nei diari, negli album fotografici, nelle conversazioni tra amici. A volte capita che le due memorie si intreccino, si accavallino, una apparendo più veritiera dell’altra, una sconfessando l’altra, o stranamente coincidendo.

Nel caso di Giuliana Pistoso (Verona, 1923-2005), scrittrice ed editrice veronese, i fili della memoria, politica e individuale, hanno creato un ordito compatto, in cui il privato si fa pubblico, la voce singola assume l’incisività e il peso del coro. Le sue Storie inquiete e disorientate si aprono con un’epigrafe di Gary Taylor: “Noi siamo quello che ricordiamo”, a ribadire appunto la reciproca compenetrazione tra passato e presente, il fatto che veniamo stratigrafati dai nostri ricordi. Nella prima sezione, A proposito di memoria storica, cinque racconti non nascondono l’ambizione di farsi voce collettiva nel cantare gli anni difficili dell’Italia del fascismo, della resistenza, del dopoguerra, e di un Veneto quanto mai periferico, lontano dai riflettori odierni che lo fanno protagonista attivo del miracolo economico.

Si parte con un iniziale, esilarante e amaro, Mini-dizionario veneto, in cui l’autrice si sofferma sul destino disgraziatissimo delle ragazze nate negli anni ’20, vissute tra emarginazione e omertà, pregiudizi e ignoranza, schiacciate dagli eventi bellici e da un’educazione che tendeva a farne in eterno delle minorate sotto tutela. Ecco quindi il vocabolarietto, divertente e irritato, dei luoghi comuni, dall’Avvenire (“Stai attenta a non rovinarti l’Avvenire”), a “Bellezza”, a “Intelligenza”, a “Pantaloni”; insomma di tutto un po’ quello che si addiceva o no a una ragazza perbene. Si parte da qui, dunque, per arrivare magari a scoprire che, in provincia, le cose non sono poi cambiate di molto, nel corso dei decenni. Altri racconti di questa prima sezione hanno uno spessore autobiografico più evidente, lasciando intuire una sofferenza non del tutto sedimentata. Uomini e donne in guerra, famiglie squassate da casi imprevedibili, una quotidianità messa a soqquadro da malattie, perquisizioni, violenze di ogni tipo. E una ferita (quella profonda, storica, di un conflitto che ha martoriato milioni di innocenti senza una giustificazione credibile), una ferita che diventa marchio perenne, incurabile (“E capì finalmente che era in guerra, che una parte di lei lo sarebbe stata per sempre, che non avrebbe dimenticato, davvero, non avrebbe dimenticato mai”).La seconda parte del volume (Cose così) racconta il tentativo di recuperare una normalità a lungo inibita: gli studi di giurisprudenza, contestati dall’ambiente retrogrado; la collaborazione ai periodici Rizzoli, con le invidie e i ricatti che un impegno del genere poteva destare in un ambiente ristretto e maschilista; il matrimonio e le amicizie in una città di provincia. La penna di Giuliana Pistoso sa farsi leggera e ironica nel descrivere una disinfestazione dalle pulci, o il rapporto problematico con un’ingenua donna di servizio di montagna; sa dimenticare per un attimo lo sdegno civile e i dolori di una comunità per farsi interprete di momenti ovvi, domestici, capaci di sorriso indulgente. Lo fa con il tratto che le è peculiare, un’asciuttezza e vivacità di stile che rende tutte le pagine del volume, dalle più risentite alle più pacificate, piacevoli ed eleganti. La Pistoso, oltre ad avere fondato la prima casa editrice femminista italiana, Essedue, e la rivista SEL, – importante magazine internazionale di studi epigrafici e linguistici del Vicino Oriente Antico -, è stata romanziera e traduttrice,  autrice di importanti biografie storiche (su Robespierre, in particolare) e di saggi di storia delle religioni.

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https://www.sololibri.net/Storie-inquiete-disorientate-Pistoso.html       24 marzo 2020

 

RECENSIONI

PITTALUGA

LORENZO PITTALUGA, SONO LA FOCE E LA SORGENTE – ITALIC PEQUOD, ANCONA 2015

La casa editrice marchigiana Italic Pequod ha meritatamente pubblicato, Sono la foce e la sorgente, un’antologia poetica di Lorenzo Pittaluga, che comprende versi editi, inediti e postumi scritti da questo sfortunato e visionario poeta tra il 1984 e il 1995, anno in cui si uccise gettandosi dal decimo piano dell’Ospedale San Martino di Genova.
Nei dintorni della città ligure Lorenzo era nato nel 1967, segnato precocemente dalle stimmate di una sensibilità ulcerata, da una sostanziale incapacità di adattarsi al reale, dal desiderio ossessivo di confrontarsi con la parola scritta, sperando di trarre da essa un più sicuro ancoraggio alla vita.

Marco Ercolani, che gli è stato vicino come amico, psichiatra e mentore per oltre un decennio, e lo conosceva dall’adolescenza, ha scritto un’affettuosa prefazione al volume, in cui così lo descrive: «Assorbiva parole da ogni stimolo esterno, da ogni sensazione, come se non avesse potuto far altro che questo: immergersi nella loro materia, nella sintassi in cui combinava, articolava, disarticolava il linguaggio. Come se, non essendo facile vivere, si potesse sostituire la vita con l’incantesimo di una parola ’liberata’ dai vincoli del significato». Il rapporto di Lorenzo con la parola era quindi totalizzante, febbrile, euforico: di essa si nutriva e in essa cercava di assemblare i confini del suo pensiero che riconosceva dolorante, piagato: «Diverrò vocale tersa, sillaba / alabastrina, parola che giunge / all’inganno dell’amore;Io non resisto ai princìpi / senza vera sostanza, presento / un resto, un ritardo fra gli uomini; Più del pane risolve il nominare; Movimento dell’arto destro / che muove il lapis e presto / cancella il mondo manifesto; Sono / l’unico poeta uscito dalla / placenta della terra desolata». Addirittura usava toni divertiti, surreali e beffardi nel descrivere il farsi della sua poesia: «Ma io la poesia me la parlo, me la porto a letto, ci faccio / la frittata, un pollo, una romanza, / un tè a due o un vino dolce solo per me, ma io la poesia / mica… mica la considero / più bassa della torre Eiffel, ma io il mio prestigio, il mio prestito, / questa poesia pantera questa poesia / balera. E basta»

Troppo facile forse accostare al destino di Lorenzo e alla sua sofferenza psichica, quella di tanti poeti che come lui hanno scelto la morte volontaria (Georg Trakl, Sergej Esenin, Marina Cvetaeva, Paul Celan, Hart Crane, Sylvia Plath, Giuseppe Piccoli, Amelia Rosselli, Beppe Salvia, Remo Pagnanelli, Nadia Campana). Certo è che Lorenzo Pittaluga aveva consapevolezza della sua malattia, e secondo quanto ancora scrive Ercolani, viveva «una doppia incandescenza: quella del suo dolore personale e quella della vocazione poetica». Leggiamo infatti alcuni versi che rivelano non solo lo spasimo convulso della sua mente, ma anche il tragico e ineluttabile presagio della sua morte: «Le scritture, le mie, naturalmente / nate postume, celano la forma / del riposo, del denso incantamento //… Leggimi di notte come io scrivo, / fallo pietosamente, con indulgenza, / perché, lo sai, sono nato sfinito; Stai fra te / decidendo la tua sorte: / imprevista verrà a modo, / fortuito inganno / della rosa che medica; Ti incupisci di vedere / la foglia – senza amore – / accartocciarsi. / così è il tuo cuore / senza soffio; Eppure qualcosa, è certo, non deve giungere / a un fine; Su questa mia scrittura testamentaria / ti giungesse come un barbaglio / o un fuoco minimale e accorto. / Io transiterei verso una / seconda morte cercata, disvelata / nell’etere che assorbe spoglia; Ma io sono in un mondo / migliore, sono la foce / e la sorgente: sono Lorenzo; Ho un vuoto da comunicare //… Io bevo il gesto, frantumo / l’esile ordito della familiarità. / Sono asceta e sono angelo //… Mi rinchiudo poi, solo, nella stanza / buia e compio il tempo. / Il delirio, la sua virulenza di bestia / ctonia e fra i diversi amori un muro».

Fino all’ultimo, toccante e profetico, scritto:«Fuggo da un mondo distante / dal pubblico pagante, / dal mio corpo volante. / Fiaccola nella tenebra / celebra l’inchiostro». Alla tormentata ricerca formale, al deragliamento dell’io e all’identità franante di Lorenzo Pittaluga sono dedicati, nell’antologia Sono la foce e la sorgente, approfonditi interventi critici di diversi commentatori, e affettuose testimonianze personali, che ne ripercorrono la sofferta, disarmata nudità davanti a un vivere quotidiano banale, impoetico, che non seppe aiutarlo, e che lui decise di rifiutare.

 

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www.sololibri.net/Sono-foce-sorgente-Pittaluga.html         2 maggio 2016