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RECENSIONI

PICCINI

DANIELE PICCINI, INIZIO FINE – CROCETTI, MILANO 2013

Il titolo di questa raccolta poetica di Daniele Piccini (Città di Castello, 1972) ben riassume il tema unificante delle varie sezioni: una riflessione pacata, malinconica, di meditativa interrogazione sul significato dell’esistenza, nel suo sorgere e nel suo finire. La morte, quindi, «Solo la morte le contiene tutte / le infinite varianti delle storie», «Pensa: occuparsi solo della fine, / non ingannare o ingannarsi di dare / inizio ad altro che si finga nuovo», «Dopo la morte la vita è un immenso/ geroglifico opaco traversato/ da segni incomprensibili». Morte osservata in un cimitero di campagna o attraverso le finestre di un ospedale periferico, morte incomprensibile e sofferta di una persona amata («ma la morte che toglie via il più caro / è come un buco nella tela, o altro / che si può dire / così: niente è più uguale… // Niente è più uguale, il mondo / pullulante / non sarà più lo stesso senza quello / che non ha avuto il tempo / di darti un solo abbraccio andando via»): ma anche la constatazione della «vanitas vanitatum», del transeunte a cui nulla si sottrae («che cosa può durare? //… il fiore non fiorisce che è già gelo»). A questo destino di consunzione, di annullamento a cui non sfuggono nemmeno gli animali («Il non sapere nulla della morte / non salva gli animali dalla morte»), nemmeno le stelle e l’universo tutto («L’enorme solitudine delle stelle / somiglia forse a quella / d’uomini alla deriva», «stelle morte / che bussano alla porta. / Ascoltale, perdonale»), il poeta vorrebbe contrapporre, come unica ipotesi di salvezza, un ritorno all’origine, quasi uno scorporamento che ci disincarni dalla corruttibilità della materia: «Sempre la scelta è fra venire a riva / e perdersi nel gorgo, / rinunciare, non essere mai nati», «Deve sempre andare avanti lo show? / Fermatevi pianeti, / cessate lune e mondi di ruotare / davanti alla morte della creatura». Rinunciare, ritornare, sono termini ricorrenti in questi versi; l’aspirazione a una libertà che sollevi dal peso vincolante della riproduzione, della nascita e del disfacimento (l’eco dei Four Quartets eliotiani: “In my end is my beginning”…): «Un soffio nel creato, senza centro, / che non leghi più altri alla catena… // una bolla senza più genitura / che le accolga tutte quante le cose/ orfane e smenticate, che le medichi…». Allora l’espediente retorico più utilizzato a ribadire il proprio convincimento, nel desiderio forse inconscio di renderlo più sicuro e incontrovertibile, è la ripetizione: «nel sangue-con il sangue», «era scritto, scritto in cielo», «Guàrdali, guàrdali che si perdono!», «Fa’ che chiuda, fa’ che chiuda le mani». Daniele Piccini, critico letterario e filologo, studioso di poesia medievale e contemporanea, propone un uso consapevole e originale della tradizione, in particolare nella sezione più convincente del volume, Cellule, in cui una trentina di sonetti mascherati, privi di rime, ma aperti tutti da melodiosi endecasillabi, ripercorrono con raffinata eleganza e sospesa delicatezza i temi dell’intera raccolta, un dialogo assorto con la natura e il divino, con la scrittura e il pensiero, il corpo e lo spirito, l’inizio e la fine: «un andare verso, un terminare».

 

«Incroci» n.29, giugno 2014

RECENSIONI

PIGOZZI

ELENA PIGOZZI, LE SARTE DELLA VILLAREY – MONDADORI, MILANO 2025, pagine 212

L’ultimo romanzo di Elena Pigozzi, Le sarte della Villarey, edito da Mondadori, presenta una struttura meditata e compiuta sia nella parte storica che in quella di invenzione. Ambientato ad Ancona nel 1943, prende spunto da una vicenda realmente accaduta, che vide come eroica protagonista una sarta semianalfabeta, Alda Renzi Lausdei, la quale con la collaborazione di molti coraggiosi volontari, riuscì a mettere in salvo dalla deportazione nazista 400 soldati, tra gli oltre 3000 imprigionati nella caserma di Villorey.

L’autrice, basandosi su documenti d’archivio dell’epoca e su ricostruzioni saggistiche recenti, offre ai lettori un quadro ambientale molto particolareggiato nella descrizione paesaggistica e topografica della città marchigiana, come nel resoconto dei drammatici eventi bellici.

Sotto i nostri occhi riappare quindi la disposizione di piazze, strade, chiese, quartieri centrali e periferici (dal più povero e animato, il Pantano, coraggiosamente attivo nel sostegno reciproco tra vicini di casa) e la commossa raffigurazione del panorama naturale: “È lì che si trova il faro vecchio. Ed è da lì che il mare si spalanca, il garbino è una brezza tiepida che ristora, cespugli di capperi l’accolgono in un’esplosione di festa”, “L’odore di pesce fritto che si diffonde nelle strade. I panni che sventolano da un balcone all’altro, l’azzurro del cielo pulito dalle nuvole”.

Altrettanto puntuale è la presentazione dei protagonisti delle vicende narrate. Dal rabbino Elio Toaff, allora al suo primo incarico come guida della comunità ebraica locale, al Parroco Bernardino Piccinelli, successivamente divenuto Vescovo del capoluogo dorico e dichiarato beato nel 2006; dal Prefetto fascista Scassellati Sforzolini, così proditoriamente ostile alla popolazione civile, fino al Ministro degli Interni Ricci: insieme ad altri umili personaggi gravitanti intorno alla caserma assediata dai tedeschi.

A tutto tondo è soprattutto il ritratto di Alda, vedova cinquantenne e madre di quattro figlie, che giorno e notte si logora nelle mansioni sfiancanti di sarta, calzolaia e panettiera, animata sia da una fede ingenua e devota, sia da slanci altruistici verso chiunque si trovi in difficoltà. “Non ha mai un cedimento, una rinuncia o un rifiuto. Sempre avanti, a occuparsi in qualche faccenda. Sempre con le mani che lavorano”, “Non sa scrivere, ma sa leggere negli animi, e forse per questo sa cosa significhi la generosità, il darsi all’altro senza ricompensa, un gesto che è offerta fine a se stessa, niente in cambio, nemmeno un grazie”.

Il lavoro all’interno della caserma, in cui vengono impiegate donne “spazientite, arrabbiate, stanche di soprusi” provenienti dalle zone disagiate della città, consiste nel lavare, rammendare, stirare la biancheria e le divise dei soldati, affezionati in maniera filiale a queste figure femminili, e ricambiati con sentimenti di sollecita protezione materna. Tra le sarte si sviluppa un senso civico e collaborativo di resistenza nei riguardi del potere militare fascista, inaspritosi dopo l’armistizio dell’8 settembre, mentre Ancona sprofonda nel caos, tra fazioni politiche opposte, delazioni, rastrellamenti, razzie: “Ci sono pantaloni, giacche e camicie da imbastire, ma anche cerniere, bottoni e morsine da attaccare, la fatica nel capirci qualcosa. Che fare? Con chi stare? Se il fascismo è finito, allora chi ci comanda? Il re? I carabinieri?”

Quando i tedeschi occupano la città con carri armati, presidi militari, mitragliatrici appostate ovunque, torpediniere attraccate nel porto, e la caccia agli ebrei e agli oppositori politici si fa più feroce, la solidarietà tra i quartieri assediati diventa concreta e tangibile, perché “fare del bene è contagioso. Forse perché è fatto così, il bene: un rivolo che si allarga fino a diventare mare”.

Scatta nella popolazione la ribellione contro la violenza dei nazisti che ammassano nella caserma Villarey migliaia di soldati, con l’intenzione di deportarli nei campi di lavoro in Germania. A questo punto interviene il coraggio e l’iniziativa di Alda, a ideare un incredibile piano di evasione che porterà in salvo 400 giovani militari, con l’appoggio non solo delle lavoratrici interne, ma di tutti gli abitanti dei rioni limitrofi, pronti a rischiare in segreto cooperando nel progetto di soccorso.

Non mi sembra opportuno rivelare in cosa consistesse lo stratagemma ideato dalla protagonista per liberare i prigionieri, benché sia facile intuire dal titolo del romanzo, e soprattutto dal sottotitolo (“La Resistenza con ago e filo”), la sua connessione con il lavoro sartoriale.

Tra chi più si adopera nell’appoggiare Alda e le altre operaie nella loro straordinaria impresa, è la giovane Laura, “delicata quanto un vaso di cristallo”, figura di invenzione che Elena Pigozzi introduce con particolare empatia già nelle prime pagine del volume.

Laura, rimasta orfana dei genitori, vive con il fratellino undicenne Milo, a cui pure è riservato un ruolo attivo nello svolgimento della vicenda. Introdotta e addestrata ai lavori di cucito dall’amica anziana, si applica con dedizione agli incarichi che le vengono affidati, pur ritagliandosi spazi di tempo e riflessione dedicati alla lettura delle poesie di Rilke lasciatele in eredità dal padre insegnante, all’amicizia affettuosa con Pietro, un gentile soldato veneto invaghito di lei, e alla cura attenta del fratello. Laura, Milo, Pietro e altri personaggi sapientemente tratteggiati dall’autrice riusciranno a salvarsi dai bombardamenti aerei e navali con cui la città viene ridotta a un ammasso di polvere, “come un presepe schiacciato”, mentre Alda muore nell’abbattimento del rifugio di Santa Palazia, insieme a 700 concittadini. Il suo sacrificio e la sua abnegazione troveranno la giusta ricompensa nella memoria collettiva anconetana, e in quella particolare dei giovani militari messi in salvo dal suo ingegnoso stratagemma.

Questa pagina poco conosciuta della storia della Resistenza, riportata alla luce e giustamente celebrata dalla scrittura piana ed elegante di Elena Pigozzi, rimane come un luminoso esempio di valorosa audacia femminile, e della capacità di resilienza di tutta una comunità nei momenti più duri della storia.

 

«La Poesia e lo Spirito», 12 agosto 2025

 

 

 

 

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PIJI

PIJI, S’I’ FOSSE WHISKY – MORELLINI, MILANO 2022

S’i’ fosse whisky, pubblicato dall’editore Morellini nella collana “Improvvisazioni”, è una selezione di versi tratti dai quaderni di appunti di Piji, cantautore, giornalista, performer, conduttore radiofonico e organizzatore di eventi. Nato a Roma nel 1978, Piji è attivo da diversi anni sulla scena italiana pop/jazz e canzone d’autore/indie, e di questo substrato musicale e culturale sono nutrite le pagine poetiche qui raccolte. Una “valanga di roba” tirata fuori da “un mucchio di quaderni abbandonati… diari segretissimi” che due editori curiosi hanno voluto dapprima leggere, quindi pubblicare.

Con modestia e sincerità, l’autore confessa nell’introduzione la consapevolezza di aver composto non tanto poesie, quanto “popsìe, jazztacci e canzoni senza musica”: pensieri, emozioni, dediche amorose, riflessioni sociali e politiche scritte di getto, senza rielaborazione, un po’ ubriache perché “parole alcoliche e quasi sempre notturne”, in cui l’whisky ha la carica ispiratrice ed esplosiva del fuoco divino che animava Cecco Angiolieri.

Whisky, appunto, come protagonista di queste popsie, “goccia bruna, densa di bourbon / no, meglio di scotch single malt”. Ma insieme al bicchiere, tanta musica, jazz soprattutto (“Una donna bellissima che parla francese”), e spruzzate di sentimento amoroso (“lei, / dai capelli al cioccolato, / con una fretta pratica costante / e un’esplosione di colore dietro al viso”), ritratti autobiografici (“Per quelli come me, / cialtroni dell’esistere, / la vita è già difficile / com’è. / Per quelli come me, / cicale malinconiche, / precisi con le nuvole, / penosi più vai a scendere…”)), e ancora riflessioni sul mondo in cui viviamo, con l’utopia di cambiarlo: “Buttiamo insieme giù questa parete. / Di un muro mai nessuno può andar fiero. / Qualcosa sta cambiando per davvero. / Se un po’ si aggiusta il mondo, sorridete”).

L’amore rincorso è quello intravisto e sperato, che illude all’inizio e viene combattuto giorno dopo giorno, con caparbietà e rabbia, dedizione e rassegnazione: “cercavo / cercavo / cercavo / l’amore perfetto // … Era lì che sbagliavo, lo ammetto. / Il verbo del cuore è un modo imperfetto”. Ma esiste anche un’altra specie di amore, quello dei profeti di pace, dei generosi che aiutano gli altri immolandosi per un ideale di giustizia, come Gino Strada: “In un mondo così lordo di cattivi, / i buoni sono quelli che non sporcano, / ma i santi sono quelli che puliscono”.

Costante è l’omaggio al lavoro del musicista, alla sua faticosa preparazione professionale, al suo perpetuo girovagare tra città, sale di incisione, concerti, sigarette e caffè, accanto alla consapevolezza della collaborazione non sempre facile con altri artisti, dei sacrifici materiali che comportano tanta solitudine e la rinuncia a una stabilità affettiva, allo scopo di ottenere infine l’applauso del pubblico per l’impegno messo al servizio della propria arte.

Tutti questi molteplici temi che si rincorrono, proponendo ambienti domestici o esotici, incontri originali o deludenti, sensazioni contrastanti, note sincopate e audaci arrangiamenti, costituiscono gli ingredienti di un’unica ricetta compositiva: “7 quintali di musica / 80 chili di libertà / 2 parti di whisky, / 1 attimo di magia”, per arrivare a concludere “Ma quant’è bella la vita”, nelle sue mille sfaccettature, colte al volo in POPSIE improvvisate, “testo pretesto per suonare qualcosa, / bella scusa, / camminare nel bordo del mondo / con in mano soltanto / una rosa”.

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22 novembre 2022

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PIOVENE

GUIDO PIOVENE, LE STELLE FREDDE – BOMPIANI, MILANO 2017

Di Guido Piovene (1907-1974), intellettuale a tutto tondo (romanziere, giornalista, critico, grande viaggiatore) Bompiani ripubblica in una nuova edizione il romanzo più famoso e premiato: Le stelle fredde, con una prefazione –  che in realtà è un vero e proprio, coltissimo ed entusiastico, saggio – di Andrea Zanzotto. Il protagonista, di cui non viene mai fatto il nome, narra in prima persona una sua tragica discesa negli inferi nebulosi della depressione: un male oscuro di totale inappartenenza, di volontaria latitanza da se stesso. Sordo a qualsiasi richiamo di vitale fisicità (non per niente il libro si apre su una visita specialistica per il controllo dell’udito), afasico e indifferente al parlare altrui, il quarantenne, abbandonato dalla compagna Ida, decide di troncare ogni rapporto con la sua vita sociale e lavorativa, e di andarsene. Via, lontano dalla città e dalla casa in cui abitava, dall’azienda aeronautica in cui occupava il ruolo di stimato pubblicitario, da qualsiasi abitudine precedente. Si rifugia in una vecchia villa di sua proprietà, occupata dal padre settantenne con cui non ha mai avuto buoni rapporti, in un ambiente rurale umido e ostile: celandosi agli altri e al proprio io, senza conoscerne appieno la ragione.

«Ho detto che tutti i motivi per cui mi ero nascosto, dagli ultimi ai più lontani, si erano distrutti nell’altro che cresceva dentro di me, e non ne aveva più nozione. L’unica impazienza in me era di sentirmi troppo somigliante a me stesso, non ancora abbastanza l’altro, tanto che potevo ancora accorgermi d’essere in due, come uno che veda salire una forma dal proprio ventre. Quell’essere bellissimo si chinava su me come ci si china sui morti, e mi sentivo morto, non ancora però abbastanza, senza avere provato un attimo di dolore. Volevo esserlo di più, sempre più intento a progredire nel mio nuovo stato».

Vittima inconsapevole di questa bipolarità, passa da momenti di «stranissima e larvale» felicità e irragionevole allegria ad altri di disperazione, dall’aggressività alla paura, dall’abulia alla tensione più eccitata. L’unica realtà in cui trova pace è quella dell’osservazione estatica dell’esterno (la campagna magica e spettrale, il cielo solcato da uccelli silenziosi, la palude fangosa, il ciliegio nel cortile con la sua nuvola di fiori bianchi), o degli oggetti umili e usurati della sua abitazione. Facce, gesti, sguardi, parole umane gli fanno ribrezzo: «i caratteri, i personaggi, i morali, i fanatici, i missionari, i predicanti, i passionali, i credenti, i sinceri. Orribilmente falsi. Orribilmente ebeti. Orribilmente spettri. Disgustosamente parlanti. Mi ripugnano e io ripugno a loro».

Eppure, da questo suo totale rifiuto di apertura al mondo e agli altri, finisce quasi per contrappasso per essere risucchiato in una vicenda torbida di violenza, morte, sospetti, indagini di polizia, che lo vedono insieme accusatore e accusato. Un «giallo metafisico», come lo definisce Zanzotto, in cui le persone concrete diventano fantasmi, e i fantasmi si incarnano in essere viventi. L’incubo assorbe la realtà, il paesaggio da terrestre si trasforma in cosmico o abissale, i ricordi svaniscono nei sogni. Così improvvisamente si materializzano davanti al protagonista nei panni di stranianti interlocutori un poliziotto con la vocazione dello psicanalista-confessore, oppure Fiodor Dostoevskij, mito letterario e grillo parlante fuoriuscito da un oltretomba più kafkiano che dantesco. Il romanzo di Guido Piovene coniuga sapientemente realismo e visionarietà, confezionati in uno stile elegante dai molteplici livelli espressivi: ironici, allegorici, moraleggianti, risentiti, ideologici, teologici. In uno spietato scandaglio dell’animo umano, del mondo di quaggiù e di quello di lassù, tutti accomunati in una farsa o in una tragedia senza senso.

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/Le-stelle-fredde-Guido-Piovene.html       20 settembre 2017

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PIRANDELLO

LUIGI PIRANDELLO, LA MIA ARTE SEI TU – L’ORMA, ROMA 2013

In una raffinata e originale veste tipografica, l’editore romano L’Orma propone a un prezzo assai conveniente dei libriccini di autori classici, contenuti in una sovraccoperta trasformabile in busta pronta ad essere affrancata e spedita. Idee regalo, quindi, preziose e molto curate. Come questa scelta di lettere scritte da Luigi Pirandello alla giovane attrice Marta Abba tra il 1925 e il 1936, anno della morte del drammaturgo. Testimoniano l’amore «squilibrato» (come lo definisce il curatore del volume, Massimiliano Borelli), ma anche devoto, incondizionato e totalizzante che lo scrittore sessantenne nutrì per la sua bellissima musa e interprete teatrale, che mai corrispose del tutto al suo sentimento, pur nutrendo per il suo Maestro un’altissima considerazione intellettuale e un profondo affetto filiale. Pirandello si rivolge a Marta sempre usando il pronome maiuscolo (Tu, Te, Tua), incoraggiandola a lusingandola come artista, sottoponendole i suoi lavori, chiedendole addirittura consigli e proponendole collaborazioni professionali molto allettanti: «Il Tuo posto, per ora, nell’arte italiana, può essere vuoto, perché Tu non reciti, ma non può essere preso d’altra attrice, mai, perché nessuna t’arriva al ginocchio; e Tu sei Tu, inconfondibile, insopprimibile, insostituibile»; «Sto scrivendo per Te. Non potrei più andare avanti d’una parola, se la Tua divina Immagine ispiratrice m’abbandonasse per un istante»; «Ho tutta la mia vita in Te, la mia arte sei Tu; senza il Tuo respiro muore»; «Il mio teatro non deve vivere che nella luce del Tuo nome; e poi si spegnerà con Te, per modo che il mio nome resti inseparabile dal Tuo, che gli avrà dato la sua vera vita; e sarà gloria Tua, nel mondo»; «Sei l’unica sola Attrice di domani, e tutti lo sanno e lo proclamano – l’Attrice moderna per eccellenza».

L’Accademico d’Italia, il Premio Nobel supplica la giovane ispiratrice di seguirlo sui palcoscenici di tutto il mondo, a Berlino, a Parigi, in America: le promette di fondare con lei e per lei una compagnia teatrale, assicurandole successo e denaro. Si inginocchia e si umilia, implora, minaccia il suicidio, in una frenesia passionale che non conosce censure o pudori.«Tu sei una scrittrice nata. Ma tu sei anche TUTTO, Marta mia…io sarei un gran medico per Te, Marta mia; ma bisognerebbe che tu fossi solo affidata alle mie cure»; «Tu non devi aver bisogno d’altri, che di me, e di me vuol dire come di Te stessa, perché io non sono altro che Tu, non posso più considerarmi altrimenti, e neanche Tu devi considerarti altrimenti: io, per noi, vuol dire Tu»; «Il Tuo vero padre sono io, sono io, e Tu sei la creatura mia, la creatura mia, la creatura mia di cui tutto il mio spirito vive con la potenza stessa della mia creazione, tanto che è diventata cosa Tua e tutta la mia vita sei Tu. E la verità vera è che io non sono vecchio, ma giovine, il più giovine di tutti, così nella mente, come nel cuore; così nell’arte, come nel sangue, nei muscoli e nei nervi»; «Ajutami, ajutami, per carità, Marta mia, non mi lasciare, non m’abbandonare, sono gli ultimi miei momenti: ho tanto bisogno di Te, di sentirti uguale e vicina».

Pochi mesi prima di morire, sentendo la fine ormai vicina, e consapevole dell’allontanamento ormai definitivo della sua musa, Pirandello le scrisse queste ultime, strazianti parole: «Ho perduto con Te la mia luce. Non vedo più nulla. Non so perché seguito a vivere. Non c’è più nulla che m’interessi o m’attiri….Addio, Marta mia! E sentiti sempre, tutta, nel bene senza fine che Ti vuole il Tuo Maestro». Due anni dopo Marta Abba sposò un americano, e andò con lui a vivere nell’Ohio, ritirandosi dalle scene.

 

«succedeoggi», 12 marzo 2015

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PISTOSO

GIULIANA PISTOSO, STORIE INQUIETE E DISORIENTATE – LUCIANA TUFANI EDITRICE, FERRARA 1996

C’è una memoria storica, pubblica, collettiva, che appartiene ai libri, ai film, ai documenti; e c’è una memoria privata, personale, che si riscopre nei diari, negli album fotografici, nelle conversazioni tra amici. A volte capita che le due memorie si intreccino, si accavallino, una apparendo più veritiera dell’altra, una sconfessando l’altra, o stranamente coincidendo.

Nel caso di Giuliana Pistoso (Verona, 1923-2005), scrittrice ed editrice veronese, i fili della memoria, politica e individuale, hanno creato un ordito compatto, in cui il privato si fa pubblico, la voce singola assume l’incisività e il peso del coro. Le sue Storie inquiete e disorientate si aprono con un’epigrafe di Gary Taylor: “Noi siamo quello che ricordiamo”, a ribadire appunto la reciproca compenetrazione tra passato e presente, il fatto che veniamo stratigrafati dai nostri ricordi. Nella prima sezione, A proposito di memoria storica, cinque racconti non nascondono l’ambizione di farsi voce collettiva nel cantare gli anni difficili dell’Italia del fascismo, della resistenza, del dopoguerra, e di un Veneto quanto mai periferico, lontano dai riflettori odierni che lo fanno protagonista attivo del miracolo economico.

Si parte con un iniziale, esilarante e amaro, Mini-dizionario veneto, in cui l’autrice si sofferma sul destino disgraziatissimo delle ragazze nate negli anni ’20, vissute tra emarginazione e omertà, pregiudizi e ignoranza, schiacciate dagli eventi bellici e da un’educazione che tendeva a farne in eterno delle minorate sotto tutela. Ecco quindi il vocabolarietto, divertente e irritato, dei luoghi comuni, dall’Avvenire (“Stai attenta a non rovinarti l’Avvenire”), a “Bellezza”, a “Intelligenza”, a “Pantaloni”; insomma di tutto un po’ quello che si addiceva o no a una ragazza perbene. Si parte da qui, dunque, per arrivare magari a scoprire che, in provincia, le cose non sono poi cambiate di molto, nel corso dei decenni. Altri racconti di questa prima sezione hanno uno spessore autobiografico più evidente, lasciando intuire una sofferenza non del tutto sedimentata. Uomini e donne in guerra, famiglie squassate da casi imprevedibili, una quotidianità messa a soqquadro da malattie, perquisizioni, violenze di ogni tipo. E una ferita (quella profonda, storica, di un conflitto che ha martoriato milioni di innocenti senza una giustificazione credibile), una ferita che diventa marchio perenne, incurabile (“E capì finalmente che era in guerra, che una parte di lei lo sarebbe stata per sempre, che non avrebbe dimenticato, davvero, non avrebbe dimenticato mai”).La seconda parte del volume (Cose così) racconta il tentativo di recuperare una normalità a lungo inibita: gli studi di giurisprudenza, contestati dall’ambiente retrogrado; la collaborazione ai periodici Rizzoli, con le invidie e i ricatti che un impegno del genere poteva destare in un ambiente ristretto e maschilista; il matrimonio e le amicizie in una città di provincia. La penna di Giuliana Pistoso sa farsi leggera e ironica nel descrivere una disinfestazione dalle pulci, o il rapporto problematico con un’ingenua donna di servizio di montagna; sa dimenticare per un attimo lo sdegno civile e i dolori di una comunità per farsi interprete di momenti ovvi, domestici, capaci di sorriso indulgente. Lo fa con il tratto che le è peculiare, un’asciuttezza e vivacità di stile che rende tutte le pagine del volume, dalle più risentite alle più pacificate, piacevoli ed eleganti. La Pistoso, oltre ad avere fondato la prima casa editrice femminista italiana, Essedue, e la rivista SEL, – importante magazine internazionale di studi epigrafici e linguistici del Vicino Oriente Antico -, è stata romanziera e traduttrice,  autrice di importanti biografie storiche (su Robespierre, in particolare) e di saggi di storia delle religioni.

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https://www.sololibri.net/Storie-inquiete-disorientate-Pistoso.html       24 marzo 2020

 

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PITTALUGA

LORENZO PITTALUGA, SONO LA FOCE E LA SORGENTE – ITALIC PEQUOD, ANCONA 2015

La casa editrice marchigiana Italic Pequod ha meritatamente pubblicato, Sono la foce e la sorgente, un’antologia poetica di Lorenzo Pittaluga, che comprende versi editi, inediti e postumi scritti da questo sfortunato e visionario poeta tra il 1984 e il 1995, anno in cui si uccise gettandosi dal decimo piano dell’Ospedale San Martino di Genova.
Nei dintorni della città ligure Lorenzo era nato nel 1967, segnato precocemente dalle stimmate di una sensibilità ulcerata, da una sostanziale incapacità di adattarsi al reale, dal desiderio ossessivo di confrontarsi con la parola scritta, sperando di trarre da essa un più sicuro ancoraggio alla vita.

Marco Ercolani, che gli è stato vicino come amico, psichiatra e mentore per oltre un decennio, e lo conosceva dall’adolescenza, ha scritto un’affettuosa prefazione al volume, in cui così lo descrive: «Assorbiva parole da ogni stimolo esterno, da ogni sensazione, come se non avesse potuto far altro che questo: immergersi nella loro materia, nella sintassi in cui combinava, articolava, disarticolava il linguaggio. Come se, non essendo facile vivere, si potesse sostituire la vita con l’incantesimo di una parola ’liberata’ dai vincoli del significato». Il rapporto di Lorenzo con la parola era quindi totalizzante, febbrile, euforico: di essa si nutriva e in essa cercava di assemblare i confini del suo pensiero che riconosceva dolorante, piagato: «Diverrò vocale tersa, sillaba / alabastrina, parola che giunge / all’inganno dell’amore;Io non resisto ai princìpi / senza vera sostanza, presento / un resto, un ritardo fra gli uomini; Più del pane risolve il nominare; Movimento dell’arto destro / che muove il lapis e presto / cancella il mondo manifesto; Sono / l’unico poeta uscito dalla / placenta della terra desolata». Addirittura usava toni divertiti, surreali e beffardi nel descrivere il farsi della sua poesia: «Ma io la poesia me la parlo, me la porto a letto, ci faccio / la frittata, un pollo, una romanza, / un tè a due o un vino dolce solo per me, ma io la poesia / mica… mica la considero / più bassa della torre Eiffel, ma io il mio prestigio, il mio prestito, / questa poesia pantera questa poesia / balera. E basta»

Troppo facile forse accostare al destino di Lorenzo e alla sua sofferenza psichica, quella di tanti poeti che come lui hanno scelto la morte volontaria (Georg Trakl, Sergej Esenin, Marina Cvetaeva, Paul Celan, Hart Crane, Sylvia Plath, Giuseppe Piccoli, Amelia Rosselli, Beppe Salvia, Remo Pagnanelli, Nadia Campana). Certo è che Lorenzo Pittaluga aveva consapevolezza della sua malattia, e secondo quanto ancora scrive Ercolani, viveva «una doppia incandescenza: quella del suo dolore personale e quella della vocazione poetica». Leggiamo infatti alcuni versi che rivelano non solo lo spasimo convulso della sua mente, ma anche il tragico e ineluttabile presagio della sua morte: «Le scritture, le mie, naturalmente / nate postume, celano la forma / del riposo, del denso incantamento //… Leggimi di notte come io scrivo, / fallo pietosamente, con indulgenza, / perché, lo sai, sono nato sfinito; Stai fra te / decidendo la tua sorte: / imprevista verrà a modo, / fortuito inganno / della rosa che medica; Ti incupisci di vedere / la foglia – senza amore – / accartocciarsi. / così è il tuo cuore / senza soffio; Eppure qualcosa, è certo, non deve giungere / a un fine; Su questa mia scrittura testamentaria / ti giungesse come un barbaglio / o un fuoco minimale e accorto. / Io transiterei verso una / seconda morte cercata, disvelata / nell’etere che assorbe spoglia; Ma io sono in un mondo / migliore, sono la foce / e la sorgente: sono Lorenzo; Ho un vuoto da comunicare //… Io bevo il gesto, frantumo / l’esile ordito della familiarità. / Sono asceta e sono angelo //… Mi rinchiudo poi, solo, nella stanza / buia e compio il tempo. / Il delirio, la sua virulenza di bestia / ctonia e fra i diversi amori un muro».

Fino all’ultimo, toccante e profetico, scritto:«Fuggo da un mondo distante / dal pubblico pagante, / dal mio corpo volante. / Fiaccola nella tenebra / celebra l’inchiostro». Alla tormentata ricerca formale, al deragliamento dell’io e all’identità franante di Lorenzo Pittaluga sono dedicati, nell’antologia Sono la foce e la sorgente, approfonditi interventi critici di diversi commentatori, e affettuose testimonianze personali, che ne ripercorrono la sofferta, disarmata nudità davanti a un vivere quotidiano banale, impoetico, che non seppe aiutarlo, e che lui decise di rifiutare.

 

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www.sololibri.net/Sono-foce-sorgente-Pittaluga.html         2 maggio 2016

 

RECENSIONI

PLUTARCO

PLUTARCO, L’ARTE DI ASCOLTARE – GARZANTI, MILANO 2018

“Dicono che la natura ci abbia fornito un paio di orecchie, ma una lingua soltanto, per costringerci ad ascoltare di più e parlare di meno”. Così Plutarco (46-127 d.C.) al giovane Nicandro, in una epistola esortativa tratta dai Moralia, miscellanea di interventi vari, a carattere etico-filosofico. Il primo brano, dedicato a L’arte di ascoltare, parte da considerazioni generiche sull’importanza dell’udito, il più discreto e sottovalutato dei sensi: quello che più ci dispone all’attenzione e al rispetto verso gli altri, ma che necessita di essere educato, per filtrare con oculatezza le parole che lo raggiungono, spesso inutili, fuorvianti, dannose. Soprattutto i giovani devono concentrarsi sull’ascolto silenzioso e meditativo dell’insegnamento di interlocutori saggi, evitando la presunzione e la polemica a cui spesso l’impulsività li induce. “Nell’eloquio si annidano inganni tutte quelle volte che lo si applichi ai fatti in maniera abbondante e carezzevole, non scevro di una certa alterigia e affettazione”.

Fondamentale è un corretto allenamento all’oratoria e al dibattito, non inteso come un gareggiare nell’abilità espositiva, ma come capacità di arricchire il prossimo attraverso un’argomentazione ponderata ed essenziale, priva sia di adulazione e falsità, sia di provocazione aggressiva. Il giovane che partecipi a un dibattito, dovrebbe evitare di porre troppe domande, di chiedere precisazioni e o di intervenire con petulanza, ma disporsi a un ascolto educato, senza eccedere nell’assenso entusiastico o nella critica malevola. In che atteggiamento, quindi, è opportuno ascoltare? “Schiena dritta e postura composta, occhi rivolti a chi parla e atteggiamento vivamente interessato, viso che abbia un’espressione chiara, da cui non traspaiano soltanto supponenza o fastidio, ma anche pensieri e occupazioni di altra natura”.

Nel secondo intervento, L’arte di tacere, Plutarco mette in guardia dai fanfaroni, dai logorroici, che vanno evitati perché producono noia e perdita di tempo, sono futili, vanesi e irriflessivi. “Il silenzio è qualcosa di profondo e religioso, qualcosa di sobrio… Non c’è parola detta che abbia giovato quanto le molte taciute: c’è sempre modo, infatti, di dire ciò che si è taciuto, ma non di tacere ciò che si è detto e che ormai è già fuoriuscito e va diffondendosi”.

Sono numerosi gli esempi che Plutarco trae dalla storia romana e greca, o dalla vita di uomini celebri, per indicare quanto la chiacchiera e i pettegolezzi possano nuocere a livello personale e politico; altrettanto frequenti le citazioni e gli aforismi riportati, alcuni illuminanti e saggi, altri decisamente comici. Sul valore del silenzio si sono scritte molte pagine, dalla Sacre Scritture (Pr 10,19; Is 30, 15; Mt 12,36…) ai poeti contemporanei. Forse basta ricordare l’epigrafe che Salvator Rosa incise alla base del suo famoso autoritratto: “Aut tace, aut loquere meliora silentio”, lapidaria e ironica nella sua severa ammonizione.

 

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https://www.sololibri.net/L-arte-di-ascoltare-Plutarco.html        6 agosto 2018

RECENSIONI

POCH

JOHN POCH, CANTIAMO, PRENDIAMO IL COLTELLO – ENSEMBLE, ROMA 2022

Con testo inglese a fronte, e traduzione di Pietro Federico, le edizioni Ensemble hanno pubblicato Cantiamo, prendiamo il coltello, del poeta americano John Poch.

Poch, nato in Pennsylvania nel 1966, dal 2001 insegna scrittura creativa presso la Texas Tech University, occupandosi anche di critica letteraria. L’antologia appena uscita, dal titolo curioso (in realtà, il coltello citato è quasi innocuo: serve per tagliare una malinconica torta di compleanno…) raccoglie componimenti provenienti da diverse raccolte, eterogenei nei contenuti, ma coerenti nello stile colloquiale e pacato, elegantemente composto e privo di azzardi sperimentali, pur nell’evidente adesione al parlato.

I temi ricorrenti sono gli affetti amicali e familiari, con qualche effusione romantica che mai arriva a esplicitare passione o sensualità. Quindi il viaggio, inteso come vacanza, distrazione ma soprattutto come curiosità e interesse culturale: numerose poesie hanno per sfondo stazioni ferroviarie, aeroporti, traghetti, frequentati sia da presenze fisiche concrete sia da personaggi storici e mitologici ricreati nel presente. Infine, fondamentale è il tributo che il poeta presta alla bellezza, nell’esplosione vitalistica della natura e nella nobile raffinatezza dell’arte.

Per entrare più nello specifico di questi tre assi contenutistici portanti, l’amore si indirizza verso la moglie e le due figliolette, oltreché verso una seducente e ambigua figura che appare e scompare lasciando dietro a sé una traccia dolorosa di rimpianto e inquietudine, in “una resa dei conti non senza sangue”.

Il viaggio – scoperta del nuovo e recupero del passato – si situa tra il disamore per l’America (“paese muto”, violento, malato e parossistico, lontano da qualsiasi umanesimo) e il richiamo irresistibile della mediterraneità: Portogallo, Marocco, Spagna, Grecia e Italia. Tanta Italia visitata ovunque, Bologna, Ravenna, Assisi, Spoleto, Ischia e Roma: specialmente Roma, percorsa dalla Stazione Termini alle catacombe, dai monasteri alle basiliche, con riferimenti costanti alla storia cristiana (San Paolo e San Francesco).

Il poeta riconosce la propria mediocrità individuale, rispetto all’armonia e alla solennità di tutto quello che nello spazio e nel tempo gli viene offerto, consapevole che l’appiglio alla sola parola non assicura alcuna salvezza o immortalità: “Dio sa che la legge della vita è la morte”. Dunque anche la poesia si presenta come una delle tante risposte disponibili per chi cerca di dare un significato alla propria esistenza, senza però celebrarla in fasti eccessivi: “La poesia la trovi in solitudine, vola più bassa di quanto immagini”.

La bellezza invece, la grande bellezza della natura, va onorata nel tripudio dei suoi colori, piante e fiori, insetti e uccelli, nel profumo dell’oceano, nella pesca in fiumi vorticosi, e addirittura nella spietata caccia ai cinghiali che riporta l’uomo alla sua indomabile ferinità. Mentre il fascino che emana dall’arte, classica e sacra, purifica dalle scorie stratificate nella coscienza dei cittadini delle metropoli occidentali, nevrotici e infiacchiti: “Con facce bianche come pillole, ci imbottiamo di pillole”.

Le ultime pagine del volume, dedicate a una vacanza in Campania, comunicano l’entusiasmo del poeta, in veste di frastornato turista, davanti a “lo sciabordio del bagnasciuga… le secche sabbiose… le pareti bianche delle case…  l’azzurro dei tonni pescati di fresco”, di fronte agli “anziani strinati dal sole / che aspettano anziane sul molo”, alla vista “degli oleandri e dei gerani che non fanno che fiorire”, finché “le paste napoletane saranno / ancora croccanti a mezzogiorno”, e “quando / i fuochi d’artificio esplodono sull’acqua” si assaggiano “queste orecchiette ai gamberetti viola, / dopo le quali la tua vita non è più la stessa” …

John Poch, giunto da una lontana “città universitaria del Texas”, ci rammenta in versi estasiati da quanta immeritata grandezza siamo attorniati nel nostro Paese.

 

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RECENSIONI

POESIA – MENSILE DI CULTURA POETICA

POESIA, MENSILE DI CULTURA POETICA – Anno I, numero 1- CROCETTI; MILANO 1988

Quasi tutte le riviste italiane di un certo livello culturale (da Alfabeta a Il piccolo Hans a Linea d’ombra) riservano uno spazio limitato, ma di prestigio, a quel genere particolare di comunicazione letteraria che è la poesia. Come a dire che al pubblico che legge versi – sempre più striminzito ed esigente, agguerrito anche se in via d’estinzione – va riconosciuto il diritto all’esistenza che ormai non si nega nemmeno agli esemplari animali più rari, ancorché patetici e talvolta bruttini. Poiché insomma la poesia non serve a niente, e tuttavia non fa male, la cultura ufficiale assume nei suoi riguardi atteggiamenti spesso protettivi e paternalistici, come con certi placebo, e con certi partitini ambientalistici: ben attenta però a non concederle più di tanto, che non si sa mai… Stando così le cose, suscita curiosità e ammirazione la decisione temeraria di pubblicare una rivista per addetti e appassionati, dilettanti e professionisti, che si intitola semplicemente Poesia, e chiarisce il suo scopo nel definirsi «mensile di cultura poetica». Edita da Crocetti (raffinato traduttore dal greco moderno, e diffusore benemerito di eleganti volumi di versi), diretta da una delle voci più originali della giovane poesia (Patrizia Valduga), questa rivista si rivela subito ambiziosa e nuovissima, decisa nel voler informare e formare insieme lettori più sensibili al discorso poetico. Ricca di rubriche graffianti («Plagi», ad esempio, che in questo numero uno dà a Rebora quello che è di Rebora, appannando un poco gli Ossi montaliani…), di interviste meno calibrate e diplomatiche di quelle solitamente in uso tra accademici (incide, il critico Pier Vincenzo Mengaldo, arguto anche nella foto), mi sembra offra il meglio di se stessa nel porgere ampi spazi alla poesia da scoprire. Molti gli stranieri antologizzati (tutti, rigorosamente, con testo a fronte; anche l’indiano Shahryar, che non so quanti siano riusciti a leggere nell’originale. Io, comunque, ho imparato come si scrive “amici” in lingua Devnagri…). E poi la poesia in dialetto, molto ben rappresentata da Raffaello Baldini, poeta e critico di se stesso. Numerose pagine sono riservate poi al rapporto poesia/musica e poesia/traduzione. Di taglio limpidamente giornalistico i servizi fotografici, con i vari poeti finalmente e più volte immortalati, messi a confronto: allucinati e rabbiosi (Attila Jözsef – Gunnar Ekelöf), ispirati (Held – Atencia), professorali (Baldini). La rivista si apre e si chiude con due interventi filosofici, dello psicanalista Ignacio Matte Blanco, che definisce poco originalmente la poesia come «pensiero imbevuto di sonorità musicale», e di Platone, che nel libro X della Repubblica metteva in guardia dagli effetti nefasti che deriverebbero alla società dal praticare poesia e poeti…

«Agorà» (Svizzera), 9 marzo 1988

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