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QUARENGHI

GIUSI QUARENGHI, IO SONO IL CIELO CHE NEVICA AZZURRO – TOPIPITTORI, MILANO 2011.

Chi è nato intorno agli anni 50 si riconoscerà in questi nove racconti della scrittrice bergamasca Giusi Quarenghi: cioè si riconoscerà nei dettagli comuni di una storia familiare e paesana, ma anche civile e collettiva tratteggiata dall’autrice con delicatezza e nostalgia, con ironia e lucidità .
Originaria della Val Taleggio, nata in una famiglia che gestiva una trattoria («la cucina dove si stava tutti, noi e anche i clienti»), con un grosso padre «sublime maestro del farniente» («una vita intensa, pur senza una goccia di sudore», appassionato giocatore di carte e di bocce, a suo modo filosofo e osservatore dei costumi contadini) e una madre che invece lavorava per tre (commoventi e ricche di interesse le pagine dedicate alla preparazione del bucato), Giusi Quarenghi non descrive la sua infanzia con un retorico amarcord . Semplicemente narra di un mondo in cui i tempi erano scanditi dal suono delle campane, dall’avvicendarsi dei giorni di festa, dalle cerimonie religiose e dalla cura degli animali, che vivevano allora in simbiosi con gli esseri umani. Ma di questo mondo racconta anche le ingiustizie, le ottusità e le superstizioni, prima fra tutte quella che riguardava la scarsa considerazione in cui veniva tenuto il sesso femminile. Una realtà condivisa da parenti e vicini, amici e signori che arrivavano in villeggiatura dalla città, e in cui la corsa al denaro e al successo non assorbiva i pensieri e le ambizioni di tutti come succede oggi. La narrazione induce a un sorriso intenerito soprattutto quando si sofferma sui particolari di un’educazione e di tradizioni in quell’epoca condivisi un po’ da ogni famiglia: la raccomandazione rivolta alle bambine di stare «composte», sedute con le ginocchia «unite e coperte»»; la vestizione per la Messa grande («calzette bianche e traforate e scarpe bianche con le fibbie»); i titoli dei temi assegnati dalle maestre; gli elastici «grogren»; le visite ai morti; le cacche delle mucche per strada. E la natura, la gente, la storia che avanza e cambia le abitudini e le coscienze…

Leggendaria” n. 94, luglio 2012

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QUINTAVALLA

MARIA PIA QUINTAVALLA,  I COMPIANTI – EFFIGIE, MILANO 2013

Nella postfazione al volume, Bianca Garavelli, elogiando la «voce composita, arcaica e dialettale, caleidoscopica» dell’autrice, ne sottolinea un elemento aggiuntivo ris petto a ciò che caratterizzava esiti precedenti della sua ricerca letteraria: «una dolcezza riflessiva» determinata quasi certamente dall’argomento trattato in questi versi. Il libro infatti è interamente dedicato alla figura del padre della poetessa, Piero Quintavalla, «Caro padre / dal cappello e cappotto infagottato, come un uomo dell’ultima guerra / che fu soldato, maestro povero, / poi deportato; infine fu salvato / e ritornato…». Vita e morte di un uomo molto amato e raccontato nelle tappe fondamentali della sua esistenza, e poi dell’agonia e della morte, in un compianto che mantiene lo stile classicheggiante (decisamente diverso dalle sperimentazioni linguistiche di prove poetiche passate, e scandito spesso in eleganti endecasillabi e novenari) di notissimi Compianti scultorei e pittorici del nostro Rinascimento. Le sette sezioni del volume, corredate da testimonianze scritte dal padre sulla sua esperienza di prigioniero in un lager austriaco e da numerose fotografie su luoghi e protagonisti descritti nei versi
(Parma e la campagna emiliana, la famiglia dell’autrice, il campo di Kaisersteinbruck e riproduzioni da Correggio e Mazzoni), prende le mosse dall’ambiente in cui Piero Quintavalla nacque e fu educato («Più in là del Po»: «I cascinali invece, i casolari / erano su sfondo antico, soleggiati»), per soffermarsi poi sul suo matrimonio («Sposò China, ebbe due figlie»), sui suoi studi e sulla guerra: ma descrivono con tenerezza anche i suoi tratti più peculiari («il naso lungo / le mani belle, il fisico da sano contadino»; «il gesto delle mani nelle tasche»), ricordando pure le naturali incomprensioni tra genitore e figlia, gli allontanamenti e le riconciliazioni («le ingiuriate abrasioni dei no!»; «ma l’edipo è una storia un po’ attempata…In braccio al suo babbino / la seduzione è lenta, stanca / non produce (più) battito cardiaco / ma dolenti note del ritiro, / stracche»). Soprattutto commuovendosi poi nel ripercorrere la malattia e la morte del padre, narrata con devota partecipazione ad un sofferto e crudele calvario («Io l’ho tenuto in braccio, / gorgogliava entro la testa il sangue»; «Al terzo giorno non resuscitasti, / ti portarono via, nessuno vide»).
All’asciutta disperazione provata durante una visita al cimitero-sepolcro («Ma di carta il tuo avello, o padre / nel cemento spalmato dai ragni, / su fiorami tra la polvere e il vetro / ti trovai, / allineato dal fondo e da stagioni, / sotto spessa carta già celato il nome, / mi chinai e non vidi») segue tuttavia la constatazione consolatoria, che chiude questo straziato compianto: «Padre che non sei mai partito affatto».

 

«Leggere Donna» n.163, aprile 2014

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QUINZIO

SERGIO QUINZIO, DALLA GOLA DEL LEONE – ADELPHI, MILANO 1980

Gli aforismi, le raccolte di massime, di riflessioni, di indicazioni in genere piacciono molto al pubblico. Mantengono un fascino che non può essere spiegato solo con il desiderio di una lettura impegnata ma breve, profonda ma non troppo coinvolgente: in questi moderni breviari laici si respira un po’ la stessa aria di mistero, di iniziazione alla saggezza e alla verità che troviamo leggendo gli antichi sapienti (da Eraclito in poi), o i mistici, o le raccolte rabbiniche. Siamo attratti da questi testi, nonostante la diffidenza che nasce dall’ aristocraticismo di gusto e di pensiero spesso manifestato dagli autori, dalla loro posizione politica talvolta conservatrice, dalle perentorietà dei toni (“ipse dixit”).
Da Adelphi è uscito nel 1980 (ed è ancora in catalogo!) Dalla gola del leone di Sergio Quinzio (1927-1996), libro in cui non si avverte un didascalismo così accentuato come in altri volumi di meditazioni e pensieri sparsi : «Non esistono più maestri, chi è nella condizione di dire qualcosa non può dire ormai che parole chiuse nell’orrore, non più parole d’insegnamento».

L’orrore che vive e ferisce in queste pagine è «lo scandalo del male, anche del male piccolo», che esiste ingiustificato e ingiustificabile, l’ingiustizia della morte (il male è la morte, e viceversa), il fallimento di Dio. Si tratta quindi di un libro religioso, scritto nell’unica maniera in cui si può scrivere oggi un libro religioso: nella disperazione, nel dubbio, nel rifiuto della logicità. E la proposta dell’autore è appunto a-logica, insostenibile: accettare la fede proprio perché inaccettabile, continuare a sperare perché la speranza è finora stata delusa, salvare un Dio che non sa salvare. Lontano dal cristianesimo odierno inteso come «rilancio mondano di ogni genere di trionfali sacralità»- un cristianesimo che mentendo anche a se stesso pubblicizza l’immagine di un Dio pietoso ma impotente nei confronti del dolore umano, battuto dal male che lui stesso ha creato. Un dio umiliato, fallito, che ha promesso per millenni una salvezza che non arriva mai, è un dio «che fa tenerezza», proprio perché l’altro Dio, quello trionfante, quello celebrato dalla Chiesa, offeso dal peccato e non dalla sofferenza umana, è incomprensibile, la sua presenza è ingiustificabile.
Quel Dio, creando il male e il dolore per i suoi fini imperscrutabili, si è condannato alla sconfitta. Non può pretendere di essere amato dagli uomini che ha condannato alla disperazione, all’attesa senza senso, al nulla. Quelli che soffrono non sono più vicini a Dio, come insegna la tradizione cristiana, ma se ne allontanano, incapaci si sperare, aridi; il dolore come mezzo in vista di un fine diventa un’empietà, e non esiste niente che possa spiegarne l’esistenza. Così la morte della moglie non ha mai potuto trovare per l’autore nessuna giustificazione teologica, né può essere consolata dall’attesa cristiana della resurrezione. «Le cose desiderate tardano a venire fino a quando lo stesso desiderio si spegne?»
Chi è colpito dalla scomparsa di una persona amata, deve lottare contro il sentimento di ingiustizia subita, contro il proprio desiderio di annullamento, ma anche contro l’involontaria ma inevitabile rassegnazione a questa morte, il lentissimo oblio che cancella gesti e voce: lotta, insomma, contro la morte e contro la vita insieme. Quello che Quinzio ha salvato «dalla gola del leone» non è tanto una qualsiasi speranza di salvezza, di riscatto o di vita oltre la morte, quanto questo senso di ribellione all’assurdo di un’esistenza destinata a scomparire, a non essere niente. In questa sfida al niente è il senso del libro, perché «i veri problemi sono quelli che non ammettono soluzioni».

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/Dalla-gola-del-leone-Sergio.html           2 novembre 2015

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QUINZIO

SERGIO QUINZIO, MYSTERIUM INIQUITATIS – ADELPHI, MILANO 1995

Pubblicando nel 1995 Mysterium iniquitatis, una raccolta di pagine “apocalittiche”, feroci e disperate, Sergio Quinzio (1927-1996) sperava che potessero interrogare, scuotere e sconcertare il “sempre più vago, timido, incerto, reticente annuncio cristiano nel mondo”. E nell’immaginare due encicliche (terribili e liquidatorie) firmate da un ipotetico ultimo papa Pietro II, si spingeva a profetizzare “la consumazione dell’orizzonte teologico cristiano”, la fine di una Chiesa ormai ridotta a un trionfale ruolo mondano, e la cancellazione dell’istituto pontificio con il suicidio sacrificale dello stesso Vicario di Cristo.
Le due encicliche trattano di argomenti spinosi e tormentanti, su cui la Chiesa da secoli non si interroga più, temendo le reazioni incredule e la commiserazione ironica della contemporaneità: da un parte la resurrezione dei morti “nella stessa carne nella quale hanno patito nel mondo”, e dall’altra l’affermazione del fallimento del cristianesimo a causa del male esistente all’interno della Chiesa stessa.
Se riguardo al primo argomento Sergio Quinzio si espresse sempre con l’esaltata convinzione di chi vuole credere “quia absurdum”, opponendosi a qualsiasi edulcorazione teologica del radicale annuncio evangelico, nella seconda enciclica dichiarava a gran voce la sua rabbia verso una Chiesa-istituzione che “ha ibernato verità che erano essenziali”, riducendosi laicamente a indicazioni puramente etiche, ma sostanzialmente dimentiche del messaggio di Cristo.
Consapevole che il suo prestare a un fantomatico ultimo papa il suo pensiero e le sue parole poteva definirsi un atto “non precisamente umile”, Quinzio nella postfazione precisava cosa l’avesse spinto a scrivere pagine tanto profeticamente esaltate e dure, e ribadiva il suo rifiuto a qualsiasi religione annacquata da esoterismi, ecumenismi, secolarizzazioni, ansie scientifiche, ipotesi ermeneutiche e demitizzazioni. Così radicale e impietoso da auspicare una Chiesa crocefissa nel mondo, morta nella storia, per poter risuscitare alla vita senza fine.

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Mysterium-iniquitatis-Quinzio.html     25 ottobre 2016

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RAFAIANI

MARIACHIARA RAFAIANI, L’ULTIMO MONDO – TLON, ROMA 2025 

 Mariachiara Rafaiani (Recanati, 1994) firma, con il suo primo volume di versi edito da Tlon, un visionario racconto apocalittico, in cui la desolazione ambientale e umana assume i contorni di un lucidissimo e implacabile incubo. L’ultimo mondo è suddiviso in tre Scenari e un Polittico conclusivo, che in un crescendo di figurazioni allarmate e allarmanti, predicono un futuro di dissoluzione non solo per il genere umano, ma per l’intero universo.

Così si apre la prima pagina: “Lo immagino disgregato sulle spiagge / come lacci e lembi strappati / da qualcuno in corsa, lo immagino / così il mondo”. Un mondo, quindi (l’ultimo!) che da subito appare disgregato, lacerato, marcio, in un susseguirsi di attributi più che negativi, addirittura ossessivamente terrifici e agghiaccianti. Altrettanto spaventevoli sono le immagini a cui la poeta affida il suo grido di allarme, insieme scandalizzato e impaurito, rabbioso e amaro: bambini ammutoliti, imposte sbattute, intonaci scrostati, topi, gusci vuoti, scheletri, automobili e case abbandonate, precipizi, pianeti di ghiaccio e territori infiammati, silenzio siderale.

Nulla appare più rilevante o degno di interesse e curiosità, in quello che sopravvive intorno o nelle azioni che si intraprendono, quando la fine si rivela ormai prossima e inevitabile perché “Ce ne andremo in fila. / Ce ne andremo tutti”.  Non c’è futuro, non c’è possibilità di proiettarsi in un altrove o in un domani di sopravvivenza, solo uno “scoordinato orrore umano “. Allora “i figli è meglio non farli / o non farli crescere mai”. Quindi, nessuna antica preghiera può aiutare, nessun esorcismo o magia, e nemmeno servirà a qualcosa studiare lo spazio cosmico, i buchi neri, i viaggi interspaziali: “Sappiamo che le stelle si allontanano / non come chiedergli di restare”.

Oltre a Milano, attraversata su un tram giallo “resistito alle epoche” per chiedere conforto a uno psicanalista o per ficcarsi in una libreria a scorrere libri e giornali ormai inutili, tornano alla mente altri luoghi visitati in passato: “Una foto di una città / dove sono stata o dove / vorrei essere”. Parigi, Venezia, Napoli, Ortigia, Procida, i diciassette anni slabbrati nella luce di Londra, vengono rivissuti nel ricordo però ormai sfumato, nemmeno più consolatorio, se il sentimento prevalente è la noia (“Cosa abbiamo combinato / in questa crudele noia?”).

Il bilancio dell’esistenza personale è decisamente negativo, anche nei rari momenti di un abbandono sentimentale, quando lo stesso corpo – il proprio o quello dell’amato –, si rivela solo una “condizione quantistica”, e le storie d’amore si ripresentano tutte uguali: “Riprendiamo sempre la stessa storia / dall’inizio, dietro le vetrate di un appartamento, / in una camera d’hotel, / o seduti al ristorante”.

Lo stile denotativo, puntuale, secco e conciso di queste poesie, lontano da ricerche sperimentali sul linguaggio, privo di ironia e invece consapevolmente, programmaticamente monocorde, è concepito e strutturato sull’esigenza di una voce monologante, che non attende né pretende risposte, non presuppone la possibilità di incontri o scontri con una qualsiasi alterità. L’io della poeta che parla a se stessa si riconosce come unica sostanziale realtà: “È la tua luce, / meglio di qualsiasi cosa”, quando traccia la separazione tra il tempo breve della sua vita e il tempo del mondo.

Un mondo che va alla deriva, non più recuperabile, nemmeno nella bellezza dell’arte (le tele di Bellini, Carpaccio, Bosch…), nemmeno nella solida consistenza degli oggetti (“Il legno ruvido di un tavolo, / il piede levigato di una statua”). In questa plumbea visione di un universo distopico, potrebbe infine illuminarsi una tenue possibilità di resistenza, magari da parte dei più giovani, capaci ancora di coltivare qualche speranza: “Però con le braccia scoperte / aggrappiamoci a un autobus qualsiasi, / andiamo ovunque a patto che sia qui, / fra le cose degli uomini”. Perché gli altri, i potenti, i maggiori responsabili del disastro verso cui l’umanità si dirige, rimangono inerti, come tristemente constata l’ultimo verso della raccolta: “Senza sapere andarsene. / Senza sapere restare”.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 26 gennaio 2025

 

 

 

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RAFFO

SILVIO RAFFO, AL FANTASTICO ABISSO – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2011

Il secondo volume dell’elegante collana che le edizioni Nomos dedicano alla poesia contemporanea propone ai lettori i versi classici e raffinati di Silvio Raffo, stimato e versatile autore, traduttore e critico. Secondo la prefatrice, Marisa Ferrario Denna, «l’uso colto e sapiente della rima, la sonorità calda e precisa dell’endecasillabo e dei settenari» evidenziano una dotta e cosciente abilità di alternare con uno stile tradizionalmente erudito e alto «testi di grazia quasi infantile a testi più marcatamente filosofici». I motivi fondamentali della raccolta sono già tratteggiati nei titoli assegnati alle tre sezioni: La magica angustia, Fiaba dell’intertempo, Al fantastico abisso. Senz’altro, infatti, il tono favoloso e sospeso di alcune composizioni riesce a rendere la particolare levità di un mondo innocente e perduto (lasciando che nel secondo capitolo irrompa la magia della fiaba con i suoi attori più consumati: il principe, il drago, la fanciulla, il bosco, il castello, lo specchio, «i luminosi paggi»), ma sono soprattutto due i temi che si stagliano prepotentemente dalle pagine di questo libro: appunto l’angustia, l’abisso della solitudine e il corteggiamento assiduo e per nulla tragico della morte.

«Il destino che abbiamo condiviso / con i grandi poeti è di durare / nella coscienza della solitudine», «Da poche ore eravamo / al grigio paese arrivati, / la mia solitudine ed io», «Svanire io voglio / come la rugiada / … goccia di fiume che lento discende / al fantastico abisso che l’attende», «Son solo e come sempre sorridente / Non aspetto nessuno – al mio passato, / all’amore e alla morte indifferente», «Ce ne andremo da veri signori / senza strepiti o clamori»

Un’accettazione tranquilla e saggiamente conscia della propria finitudine, dunque, e un accordo placido e rasserenante con il fluire magico e sacro della natura («Avvolgimi di te, nulla infinito», «Ieri, un millennio fa, sostava il Tempo / a una fermata d’autobus con me», «Nel tuo grembo m’immergo / notte – o notte»), insieme alla consapevolezza fiera della propria e vivida unicità di persona e di poeta, in un dialogo inesausto con un “tu” che è sì ricerca dell’altro, ma anche una ribadita sottolineatura della propria irriducibile grandezza: «Sono la fiamma errante / che divaga del sogno alla deriva», «Tu guardalo con l’occhio della lince / il tuo dolore, guglia d’alabastro- / … ma con lo stesso sguardo ammira il volo / della tua gioia, alata Durlindana». Ecco: la gioia, l’inscalfibile pietra preziosa che ogni poeta, interprete di una scintilla di assoluto, porta in sé, e che in Silvio Raffo è orgogliosamente declamata : «V’è una sorta di ebbrezza / nel più acuto dolore-», «Era il mio personale paradiso. / E dovevo tenerlo chiuso in me, / senza svelare del mio rango il segno?», «Quella gioia suprema / d’essere sempre te stesso».
Queste poesie così parche di punteggiatura, quasi a voler esibire un’aperta continuità di pensiero e di collegamento al tutto, a cui un po’ nuocciono, anche graficamente (ed è forse l’unico appunto da rilevare a questa squisita raccolta) la definizione pleonastica e rapsodica di date e luoghi di composizione nell’ultima parte del libro, hanno sempre una loro leggiadra compiutezza, una loro generosa offerta di gratuita verità, che talvolta le apparenta al tono lieve di Sandro Penna, come in questi riuscitissimi versi: «Dei treni in partenza in arrivo / del tutto ignaro, sostavo / nell’atrio, semplicemente / solo, con il mio niente / Ma a un tratto all’edicola antico / un libro prezioso scoprivo / da tanto invano cercato / Lieto poi, col mio dono / al cuore in subbuglio serrato / la soglia fumosa varcavo».

 

«incroci on line», 21 marzo 2013

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RAIMO

CHRISTIAN RAIMO, LE PERSONE, SOLTANTO LE PERSONE – MINIMUM FAX, ROMA 2014

Christian Raimo, tra i più noti narratori quarantenni contemporanei, e coordinatore del blog Minima&Moralia, ci dà in questi nove racconti una prova della sua elegante capacità affabulatoria e versatilità tematica. Il protagonista delle sue narrazioni è sempre una sorta di alter ego, talvolta addirittura esplicitamente biografico, più spesso invece modulato sulla sua vicenda esistenziale, che resta comunque paradigmatica di tutta una generazione. Maschio ma non macho, intellettuale ma non inserito, adulto ma non maturo, perennemente precario dal punto di vista economico e sentimentale, oscillante tra convivenze pseudo-matrimoniali e ritorni fallimentari nella casa dei genitori. Come fa dire a uno dei suoi personaggi: «…sapevo appena badare a malapena ai miei bisogni. Ero in un periodo di desertificazione finanziaria e di quello che definirei etere progettuale».

Se viaggia, rimane ancorato alle rassicuranti nostalgie domestiche, e continua a sentirsi impermeabile a nuove esplorazioni ambientali, diffidente verso le altre culture. Se ama lo fa senza mai lasciarsi sconvolgere visceralmente dai sentimenti: tradisce ed è tradito, si dedica quasi meccanicamente a una sessualità compulsiva e ansiosa nei riguardi delle sue prestazioni. Nel lavoro preferisce qualsiasi tipo di indipendenza intellettuale rispetto a ogni gratificazione carrieristica. Gli affetti familiari e le amicizie ruotano sempre intorno ai suoi bisogni e alle sue opache fantasie di pura sopravvivenza quotidiana. Raimo insomma offre al lettore uno specchio sconsolato, ironico e autoironico di come i suoi irrealizzati coetanei affrontano l’esistenza, un po’ depressi e molto scazzati, con una prosa riecheggiante i più noti modelli statunitensi, anche se l’ambientazione nell’ intellettualità piccolo-borghese romana potrebbe ricordare l’amaro sarcasmo de Il male oscuro di Giuseppe Berto, se pure con meno mordente e con qualche morbosità in più.
Il più originale (e surreale, e paradossale) dei racconti è quello che reinventa un Calvino rivoluzionario, paranoico e fumato che si scontra con un Pasolini integratissimo boss editoriale: beffardo stravolgimento delle due più importanti figure intellettuali del nostro dopoguerra.

 

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www.sololibri.net/Le-persone-soltanto-le-persone.html    12 novembre 2015

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RAIMONDI

EZIO RAIMONDI, LE VOCI DEI LIBRI – IL MULINO, BOLOGNA 2012

«Non sono mai stato e non sono un collezionista. Del collezionista mi mancano l’ossessione dell’ordine e quella del pezzo unico. Ciò che mi è sempre importato in un libro era che comunicasse delle idee», afferma nell’ultimo capitolo di questo interessante volume il Professor Ezio Raimondi, insigne critico e storico della letteratura. «Nel caos vivente della biblioteca» i suoi volumi sono affastellati in maniera disordinata e quasi misteriosa, a farne «luogo della stabilità e della metamorfosi, della protezione e del rischio»: ne sono testimonianza le fotografie che corredano queste pagine, e ne immortalano l’autore sommerso da migliaia di libri. Libri viventi, pulsanti, con una loro voce inconfondibile, che da sempre ha forgiato e ammaliato l’intelligenza inquieta, curiosa e appassionata dello studioso. Nato nel 1924 in una casa «dove non c’erano libri» e si parlava il dialetto, figlio di un calzolaio e di una donna di servizio, proprio dall’umiltà rispettosa della cultura della madre il bambino Ezio apprese la funzione «liberatrice, democratica della lettura». In questi otto capitoli viene raccontata tutta un’esistenza dedicata ai libri: dalle prime bibliotechine di classe delle elementari, alle lezioni studiate sul tavolo della cucina, «fra il piacere della scoperta intellettuale e l’odore di soffritto», agli incontri fondamentali segnati sempre dall’intreccio tra cultura e vita. Quindi l’amicizia con straordinarie personalità bolognesi degli anni bellici e del dopoguerra (Franco Serra e Giuseppe Guglielmi), le loro discussioni interminabili e i reciproci arricchimenti disciplinari, le lezioni di Roberto Longhi all’università: in un clima storico senz’altro stimolante, pur nelle difficoltà provocate dalla miseria economica e dai contrasti politici e ideologici dell’epoca. Ma soprattutto furono le letture esaltanti e sprovincializzanti dei grandi intellettuali stranieri (Heidegger, Marc Bloch, Curtius, Huizinga, Lucien Febvre) che venivano a innestarsi sulle fondamenta radicate nello studio di De Sanctis, Flora e Devoto, ad aprire nuovi orizzonti nella mente e nel cuore del giovane studioso. E in queste pagine si rincorrono i nomi di tanti altri autori che hanno segnato la crescita intellettuale di Raimondi, da Pasolini a Gadda, da Broch a Céline a Queneau, all’amato Bachtin. Come suggerisce nella sua attenta e affettuosa postfazione Paolo Ferratini, «l’ascolto delle voci degli scrittori è stata (ed è) un lungo esercizio di attenzione all’altro, … un percorso autoformativo durante il quale filologia e affetti, folgorazioni dell’intelligenza e moti del cuore hanno sempre congiurato all’edificazione del proprio profilo morale». Un grande studioso e un appassionato insegnante, quindi, Ezio Raimondi, che ha saputo ascoltare le voci dei libri rendendosene innamorato interprete, «in una relazione straordinaria, mai pacifica, mista di inquietudine e di ebbrezza».

 

«incroci on line», 9 maggio 2013

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RAIMONDI

STEFANO RAIMONDI, PORTATORI DI SILENZIO – MIMESIS, MILANO 2013

Chi sono, per il poeta e critico letterario milanese Stefano Raimondi (tra i fondatori dell’ Accademia del Silenzio), i «Portatori di silenzio»? I poeti, i filosofi, gli artisti, gli emotivi, gli scalfibili, gli ultimi, i vinti, i malati? Coloro che non fanno chiasso, che non si impongono, che non urtano imperiosamente gli spazi altrui: forse… Certamente, chi sa «concentrarsi maggiormente sull’eleganza e la grazia del proprio portarsi nella vita e nel proprio irrefutabile passare nel mondo della vita». Chi è «in grado di abitare per silenzio il mondo ammutolito e afasico dei rumori, della celaniana ‘chiacchiera comune’ che violenta, stupra e offende chiunque, mediante i suoi carichi di disattenzione, indifferenza coatta e berciante».

Nei tre brevi interventi che compongono questo libriccino, sospesi tra meditazione filosofica e poesia, prosa lirica e illuminazione, Raimondi affronta teoricamente senso e significato del silenzio, inteso come «luogo di rivelazione», forma concreta di attesa, attenzione, possibilità epifanica.

«Al silenzio si arriva per atteggiamento e propensione dunque! Si giunge concedendogli spazio e dignità: afferrandolo quasi per commozione!» Modo di essere, modo di porsi tra gli altri e per gli altri: «è la postura di un pensiero, è la deambulazione di un’insistenza incastonata nel proprio stile di vita… da qui, da questo punto di coincidenza di sé con sé, si riparte per iniziare altro, per diventare Altri». E forse silenzio per eccellenza è quello offerto dalla parola poetica, a cui «non si addice lo spreco e neppure la superficialità dell’uso»: il bianco «dicente» e silente dei versi appuntiti e contratti di Celan, di Ungaretti: «bianco… assoluto, rarefatto. Quel bianco della decifrazione, dell’ermeticità, del fraintendimento». Nel suo ultimo saggio, Raimondi suggerisce poeticamente di imparare il silenzio, coltivandolo «come si coltiva un orto», disponendosi ad ascoltarlo, finché diventi «orizzonte, realtà, deserto, oceano, isola, meta».

 

«Accademia del silenzio», 22 novembre 2013

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RAIMONDI

STEFANO RAIMONDI, IL CANE DI GIACOMETTI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2017

«L’oscillazione tra solitudine, miseria e armonia, tra luce, stella, tremore e senso d’abbandono, è forse davvero la cifra del nuovo libro di Stefano Raimondi… Esplorare l’abbandono, il senso d’abbandono, dentro le parole e dentro l’orizzonte urbano… ricercarne le costellazioni di immagini, le risonanze interiori, la voragine di un tombino che si spalanca e il viaggio che tuttavia si apre, in una luce incerta: ecco l’orizzonte di quest’opera…».

Così Fabio Pusterla nel risvolto di copertina del volume di versi Il cane di Giacometti del poeta Stefano Raimondi (Milano, 1964), che individua con precisione il leitmotiv che attraversa queste pagine, il senso acuto di impotenza e incomunicabilità, nostalgia e rimpianto, isolamento e timore. Facilmente rilevabili già da una prima, superficiale lettura, in cui riscontriamo da subito il reiterarsi di una stessa preposizione (“senza”, ripetuto una decina di volte), degli stessi verbi (tremare, finire, sparire), di aggettivi che paiono rincorrersi (spezzato, schiacciato, inutile, vuoto). Anche i nomi, sia quelli astratti (buio, paura, silenzio, abisso), sia quelli concreti (stortura, taglio, crepa) sottolineano continuamente l’idea di una ferita immedicabile, di un distacco doloroso, di un addio definitivo. E se nella descrizione degli interni (cucine e camere disadorne, fredde) si citano finestre, vetri, porte, le vediamo serrate od opache, mai in grado di segnalare un passaggio, un’apertura; mentre l’immagine che più caratterizza l’arredo urbano è quella del tombino, che grigio e gelido ha il compito di coprire i rifiuti della città.

«Devastati dalla fedeltà prendiamoci / carezze, spasimi, boccate, brani di fiato / ognuno dalla sua parte, disossata e accesa. / Sentire il peso dell’aria, l’abisso / dei tombini, stare nella cerchia buona / dell’ultima parola, tra una città / che cade tra sé e sé».

Una Milano disumana, quella raccontata da Stefano Raimondi, sfregiata da «scavi aperti», in cui la «vita rasoterra» si trascina per inerzia, tra muri sordi, cantine, ringhiere, parchi desolati, passanti «dormienti»: una metropoli malata, che non offre scampo o ancore di salvezza. «Ci si guarisce così nelle città: / aspettando».

In questo libro di prose che sembrano poesie, e di poesie cadenzate narrativamente, il cane solitario di una scultura che Alberto Giacometti descriveva all’amico Jean Genet è puro pretesto allusivo per Stefano Raimondi, essendo tutto interiore il cane che a lui rode il cuore e accerchia i pensieri: scodinzola, ringhia, minaccia, tiene a bada, morde, annusa, insegue. Impietoso come ogni solitudine dopo ogni abbandono.

 

© Riproduzione riservata          

www.sololibri.net/Il-cane-di-Giacometti-Raimondi.html      9 settembre 2017