MARIA PIA QUINTAVALLA,  I COMPIANTI – EFFIGIE, MILANO 2013

Nella postfazione al volume, Bianca Garavelli, elogiando la «voce composita, arcaica e dialettale, caleidoscopica» dell’autrice, ne sottolinea un elemento aggiuntivo ris petto a ciò che caratterizzava esiti precedenti della sua ricerca letteraria: «una dolcezza riflessiva» determinata quasi certamente dall’argomento trattato in questi versi. Il libro infatti è interamente dedicato alla figura del padre della poetessa, Piero Quintavalla, «Caro padre / dal cappello e cappotto infagottato, come un uomo dell’ultima guerra / che fu soldato, maestro povero, / poi deportato; infine fu salvato / e ritornato…». Vita e morte di un uomo molto amato e raccontato nelle tappe fondamentali della sua esistenza, e poi dell’agonia e della morte, in un compianto che mantiene lo stile classicheggiante (decisamente diverso dalle sperimentazioni linguistiche di prove poetiche passate, e scandito spesso in eleganti endecasillabi e novenari) di notissimi Compianti scultorei e pittorici del nostro Rinascimento. Le sette sezioni del volume, corredate da testimonianze scritte dal padre sulla sua esperienza di prigioniero in un lager austriaco e da numerose fotografie su luoghi e protagonisti descritti nei versi
(Parma e la campagna emiliana, la famiglia dell’autrice, il campo di Kaisersteinbruck e riproduzioni da Correggio e Mazzoni), prende le mosse dall’ambiente in cui Piero Quintavalla nacque e fu educato («Più in là del Po»: «I cascinali invece, i casolari / erano su sfondo antico, soleggiati»), per soffermarsi poi sul suo matrimonio («Sposò China, ebbe due figlie»), sui suoi studi e sulla guerra: ma descrivono con tenerezza anche i suoi tratti più peculiari («il naso lungo / le mani belle, il fisico da sano contadino»; «il gesto delle mani nelle tasche»), ricordando pure le naturali incomprensioni tra genitore e figlia, gli allontanamenti e le riconciliazioni («le ingiuriate abrasioni dei no!»; «ma l’edipo è una storia un po’ attempata…In braccio al suo babbino / la seduzione è lenta, stanca / non produce (più) battito cardiaco / ma dolenti note del ritiro, / stracche»). Soprattutto commuovendosi poi nel ripercorrere la malattia e la morte del padre, narrata con devota partecipazione ad un sofferto e crudele calvario («Io l’ho tenuto in braccio, / gorgogliava entro la testa il sangue»; «Al terzo giorno non resuscitasti, / ti portarono via, nessuno vide»).
All’asciutta disperazione provata durante una visita al cimitero-sepolcro («Ma di carta il tuo avello, o padre / nel cemento spalmato dai ragni, / su fiorami tra la polvere e il vetro / ti trovai, / allineato dal fondo e da stagioni, / sotto spessa carta già celato il nome, / mi chinai e non vidi») segue tuttavia la constatazione consolatoria, che chiude questo straziato compianto: «Padre che non sei mai partito affatto».

 

«Leggere Donna» n.163, aprile 2014