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RECENSIONI

RAMAT

SILVIO RAMAT, UNA FONTE – CROCETTI, MILANO 1988

Queste cinquanta poesie di Una fonte, pubblicate nel 1988, sono state scritte da Silvio Ramat nell’arco di sei mesi, dal gennaio al luglio dell’81. Solo due di queste liriche sono state composte nello stesso giorno (il I aprile), molte invece in giornate contigue: infatti l’autore chiarisce, nella postfazione, di aver creduto “nel valore traente, nell’energia aggregante e autogenerativa che ha l’idea forma del poema”.

L’essere stati prodotti in un periodo di tempo circoscritto, e il fare parte di un unico flusso poetico, fa s^ che questi versi abbiano tutti uno sfondo ambientale comune: un’unica stagione dominante (l’inverno), un’ora prediletta (l’alba che sfora nel mattino), un colore ricorrente (il grigio, nelle sue varie sfumature dal bianco al nero), un paesaggio urbano e nordico, con o senza fiume (“Il fiume che manca a questa città / duole di mattina come il frammento / dell’arto reciso”).

Scritte quasi in stato di trance, o comunque “imposte” da un’inconscia pressione coercitiva (“Dettando / a me stesso invasato invischiato / in una dettatura d’abisso o / alla mia altezza”, “Questi versi paiono tradotti da altro / e magari lo sono, il testo-base / è in una lingua sospesa, la parlavano / qualcuno la parla tuttora in qualche terra sospesa”), le poesie alludono cripticamente a un messaggio di salvezza, o forse indicano con foga millenarista nella loro stessa possibilità d’espressione l’unica alternativa alla condanna del silenzio.

Il poeta è di nuovo vate, profeta, vox clamans: a lui è demandata la comprensione ultima del significato reale dell’esistenza e la rivelazione finale della sua verità agli altri. Ne è un chiaro esempio la poesia XXXIII (un’allusione agli anni di Cristo?): “Ma – fuori tema, fuori poema oggi / tocca al poeta, a chiunque s’accerti / nei suoi panni sensitivi segnato / consegnato alla febbre intempestiva – // misurare in minuti / dove i più leggono anni lo scempio / lo sbriciolarsi dell’ostia”. Il poeta è “tardivo come ogni divinante”, “demonico”, “erede / sensitivo non del fuoco, del fumo”. E ancora in XXII: “I poeti dicono la verità. / Una parte di essa duole in altri / ed è quella che dura”.

Il libro, secondo l’autore, “stringe l’essenziale dei suoi nuclei nella stessa parola-titolo”. Una fonte è infatti parole-chiave nel volume: fonte come origine, sorgente lustrale, ma anche come eredità culturale, o sollievo nel cammino, oasi nel deserto: in quest’ultimo caso collegata all’idea di palma (“Un’isola di capogiro / … una palma, una fonte”, “la fonte occulta / verso il cuore occulto della palma?”). L’albero (più spesso, appunto, individuato come palma, segno di pace, di festa, ma anche segno inquieto, interrogativo) è un altro simbolo ricorrente, come la briciola, l’animula, il sole, la caverna. In un crescendo di spessore culturale, di tradizione filosofica a sottolineare quanto più la poesia diventi messaggio, idea.

Molteplici nodi concettuali e morali vengono toccati: la partecipazione politica (“Sali – mi cercano – alla nostra corte. / Siamo dalla parte della storia ‒. / Mi danno in mano la carta più facile / per il labirinto, nessun’ombra da scansare”), la polemica letteraria (“Adesso incontrerò / qualche Innamorato della Parola, / qualche Parola che per Amore si fa / Società di Poesia”), l’esserci nella storia (“Persi, persi di vista, / slittati in punta d’ali giù dai margini / bassi del quadro, i committenti umiliati – // … chi sta in campo nessuno lo cancella”), il rifiuto dei maîtres à penser, gli “immortali” delle ultime pagine. Qui la vis polemica rasenta lo sdegno, la poesia si fa civile riuscendo a elevarsi in versi molto intensi: “Gli immortali tramontano. / Qualcuno aveva mentito, / se non loro gli agiografi, i servi”, “Il tacere, il tacere oltre il tempo / non meno che nel tempo, questa dote / inflessibile hanno gl’immortali / in vincoli. Non potrò amarli mai, / neanche se le apparenze mi trasportano / con loro, in una stessa caverna”, Il teatrino / dei dotti – pentole con strani coperchi / nel cui brodo non voglio mescolarmi – / sto fuori scena, un’altra la mia scena”.

Il rifiuto dell’apparenza, che talvolta ricalca moduli espressivi montaliani, assume qua e là echi evangelici, lascia affiorare ricordi di versetti di Marco (XLVI) e Matteo (XXXIII), parabole rovesciate (XVI), termini di indubbia risonanza (vigna, samaritana, Damasco), nell’ipotesi di un nuovo Getsemani, ma senza salvezza, senza riscatto finale (“Che cosa è in ritardo, / quanto di previsto non sta accadendoci?”)

Un libro non facile, questo di Silvio Ramat, carico di suggestioni, denso di chiavi di lettura diverse, “Un libro da avverare in mille rami”, e che merita tutto il tempo che il lettore gli deve dedicare per penetrarlo almeno in alcuni dei suoi sensi.

 

© Riproduzione riservata              10 aprile 2020

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RECENSIONI

RAMEY MOLLENKOTT

VIRGINIA RAMEY MOLLENKOTT, DIO FEMMINILE – MESSAGGERO, PADOVA 1995

L’autrice è una teologa protestante americana molto nota per la sua competenza di biblista e per il suo impegnato femminismo. In questo libro, partendo dalla tesi, tanto dibattuta quanto ormai scontata, che l’origine del sessismo e della dominazione maschile si possano situare nel linguaggio, prodotto da un inconscio marchiato dalla cultura patriarcale, propone con forte vis polemica un’operazione difficile e senz’altro anticonformista, quale quella di «cambiare il linguaggio liturgico», adattando alle nostre espressioni religiose tradizionali il «linguaggio inclusivo».
Così viene definito in area anglosassone quel modo di esprimersi che non fa riferimento a un sesso specifico, o li include entrambi, con lo scopo di poter parlare di un ente supremo che trascenda da caratteristiche sessuali peculiari: non più God=Dio (termine che rimanda in modo marcato a un immaginario maschile), ma preferibilmente Divinità, Deità, Essere, Uno. O, ancora, l’uso di pronomi neutri (quali l’inglese “it”) e di particolari circonlocuzioni onde evitare la meccanica associazione a caratteri virili della divinità.
Virginia Mollenkott distrugge stereotipi per proporre una divinità tenera, materna, che dà vita e nutre; perché davvero Bibbia e Vangelo presentano frequentemente immagini femminili applicate a Dio: dio padre e madre, dio partoriente, dio che allatta e levatrice, dio donna di casa e dio simile a tanti animali al femminile (aquila, chioccia, orsa, pellicano femmina), dalla Genesi all’Apocalisse, passando soprattutto attraverso i profeti, ma non trascurando i Vangeli.
Molto toccanti sono le pagine sul pellicano femmina, che restituisce alla vita i piccoli trucidati dal padre spargendo su di loro il suo sangue, e assurgendo così a simbolo (fin dai bestiari medievali) del sacrificio di Cristo. Altrettanto coinvolgente risulta il capitolo sulla creazione della donna, definita in ebraico “Ezer”, aiuto, sostegno per l’uomo. Tale termine viene attribuito solo a due entità: a Dio e a Eva, entrambi chiamati a un servizio che deve essere reciproco tra uomo e donna, tra Creatore e creature.
Scrive la Mollenkott : «Sì, io credo che anche Dio debba servire gli uomini. La nomina di Adamo ed Eva da parte di Dio fu sicuramente un atto di sottomissione di Dio, un atto con cui Dio volutamente faceva un passo indietro e tracciava dei limiti al suo io, per divenire dipendente dalle sue creature».

E ancora Dio-aquila, che insegna agli aquilotti a volare e a essere autosufficienti, è un dio che sta cercando di creare esseri uguali, capaci di non sfruttarsi unilateralmente, ma semmai di scoprire una nuova vicendevole solidarietà. Le immagini bibliche di Dio l femminile costituiscono, secondo l’autrice, una specie di «resoconto minore», a fianco dell’immaginario maschile (spesso addirittura bellicoso, violento) predominante: eppure ad esse dovremo saper ricorrere se vogliamo favorire la crescita di una coscienza religiosa che sia fondata sull’uguaglianza e la reciprocità dei sessi.
In un breve excursus storico all’inizio del volume, La Mollenkott suggerisce l’ipotesi che le chiese occidentali (frequentate ormai quasi esclusivamente da fedeli donne) siano così disertate dagli uomini perché essi sarebbero «inconsciamente respinti dall’idea di essere chiamati a un’intimità con un Dio esclusivamente maschile». Ostacolo che nei secoli è stato superato dal clero maschile con un escamotage non solo linguistico: la Chiesa è diventata madre, l’anima del sacerdote sposa di Cristo.
Culturalmente, quindi, alle soglie del duemila, si impone di imparare a parlare di Dio in termini inclusivi sia per il maschile sia per il femminile: l’Essere perfetta/o nell’unità, della cui natura divina ogni creatura è chiamata a partecipare.

 

«Leggere Donna» n.57, luglio 1995

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RAPINO

REMO RAPINO, SULLE SIGNIFICANZE DELLE PERIFERIE – BORDEAUX, ROMA 2020

Remo Rapino (1951), vincitore dell’ultimo Premio Campiello con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, in un breve pamphlet recentemente pubblicato da Bordeaux, Sulle significanze delle periferie, recupera il protagonista del suo romanzo per offrire ai lettori una stimolante riflessione sull’importanza della letteratura e del linguaggio come pratica di intervento sociale.

Nel romanzo di Rapino, Liborio Bonfiglio esprime la lotta per la sopravvivenza combattuta da un emarginato, che per tutta la sua “svalvolata” esistenza paga, tra lutti familiari, carcere, manicomio, la condanna alla marginalità e all’ininfluenza in un contesto culturale discriminante. Liborio assume su di sé il ruolo di figura simbolica dei senza storia, “barboni, contestatori, vagabondi, menti incomprese… idioti esemplari…filosofi del quotidiano”: a questi personaggi Remo Rapino demanda l’unica possibilità di ribellione “a un mondo soffocato sempre più dal crisma della normalità”, resistendo ai processi livellanti di assimilazione culturale.

I rifiutati, gli esclusi indicano “nicchie di salvezza, atti di libertà” che trovano il loro regno nella periferia, nella strada, nella piazza. Chi abita la piazza? “Vagabondi, prostitute, ladri, quanti vivono di espedienti, abitatori di margini al contempo fisici, sociali e mentali, non inquadrabili in alcuna classe…Figure che, se ben fotografate, danno alla letteratura la capacità di affrescare un’immagine complessa e stratificata del Paese reale”.

In che modo comunica il suo rifiuto Liborio, e con lui tutti “gli ultimi” nella scala sociale? Attraverso un linguaggio spontaneo (gergale, meticciato, sdrucito, stralunato, deformante), che lo scrittore utilizza osservando di sguincio nelle crepe di una realtà rimossa, imbavagliata, e documentandolo sulla pagina.  Ecco che allora “la parola letteraria – …che non assolve mai, e solo, la funzione di un meccanico rispecchiamento della realtà – …può porsi come strumento di conoscenza e di trasformazione del mondo”. Con la volontà di recuperare i valori di fratellanza, solidarietà, accettazione dell’altro, contestando il mito imperante del successo, del narcisismo, dell’obbedienza servile. Gli eroi letterari indicati da Rapino sono dunque i non allineati, gli idioti inutilizzabili: il Principe Myškin di Dostoevskij, Don Chisciotte, Bouvard e Pecuchet, Mattio Lovat di Sebastiano Vassalli, Lennie Small di Uomini e topi, Frank Drummer di Edgar Lee Masters, Macario di Juan Rulfo, Gimpel l’idiota di Isaac I. Singer. Tutta una galleria di eroi bizzarri, sognatori, solitari, incompresi, voci sommesse di un’antologia dell’invisibile che, frantumando rigidi schemi mentali, instillano dubbi nelle nostre presunte verità e rassicuranti certezze.

Questo testo di Remo Rapino deriva dalla registrazione di una lezione tenuta lo scorso ottobre per il #RIF Museo delle Periferie, progetto di Roma Capitale inteso ad approfondire la conoscenza delle metropoli del terzo millennio, contribuendo a realizzare, tramite pratiche artistiche e relazionali, una città più equa, partecipata, inclusiva.

© Riproduzione riservata            8 gennaio 2021

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RASY

ELISABETTA RASY, FIGURE DELLA MALINCONIA– SKIRA, MILANO 2012

Le otto riflessioni che Elisabetta Rasy raccoglie in questo volume sono state pubblicate su Il Foglio  tra il 2010 e il 2011, in occasione di importanti mostre di pittura avvenute in diverse città italiane ed europee. Partendo da considerazioni estetiche (la natura della luce, l’importanza del paesaggio, lo scorrere inesorabile del tempo nelle espressioni dei volti, il rilievo politico della ritrattistica… E ancora: la malinconia, l’abbandono, l’ordine e il disordine…), l’autrice compie degli excursus culturali che abbracciano sapientemente letteratura e filosofia, storia e psicanalisi, in una scrittura insieme lieve e profonda, elegante e allusiva. Così le considerazioni sull’uso della luce in Turner e Goya trovano un loro puntuale contrappunto in rimandi e citazioni che spaziano da Rousseau a Poe, da Bachelard a Adorno, senza che la pagina risulti appesantita da un eccesso di esibizionismo nozionistico. Il paesaggio di Cima da Conegliano, quasi attonito e invariato («ogni cosa, se pure è soggetta al tempo, ha diritto alla sua intemporalità, ogni cosa vuole essere se stessa nel tempo immobile e interminabile della creazione»), viene commentato da passaggi tratti da Goethe e Zola, e attraverso i severi richiami critici di Cesare Brandi. La vecchia  di Giorgione offre lo spunto per una meditazione sulla vanitas come caducità e morte; i ritratti risorgimentali di Garibaldi suggeriscono riflessioni sullo sguardo e la tristezza. Ma è soprattutto nel capitolo dedicato ai gatti che l’ intelligente acutezza di Elisabetta Rasy manifesta una particolare seduzione: partendo da un ricordo infantile (i felini domestici della bisnonna, e il “pappone” di pesce che si preparava per loro quotidianamente), la scrittrice passa a illustrare il chiostro di Santa Chiara a Napoli, con i suoi colori lussureggianti e le scene profane animate dai personaggi più vari e, appunto, da gatti; per poi commentare l’annunciazione di Lorenzo Lotto e finire con la drammatica descrizione delle stragi di animali nella Mosca stalinista raccontata da Šalomov.

 

«Leggere Donna» n. 166, gennaio 2015

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RASY

ELISABETTA RASY, SCRIVIMI – NOTTETEMPO, ROMA  2011

Le edizioni Nottetempo pubblicano nella collana  I sassi  libriccini di narrativa, saggistica, poesia limitati alla quarantina di pagine. Non si tratta di capolavori, non propongono idee nuove o sconvolgenti, non provocano né alimentano dibattiti e polemiche. Ma offrono una lettura generalmente piacevole, in uno stile dignitoso ed elegante: con i tempi che corrono, non è poco.
Così questo racconto di Elisabetta Rasy, che ho letto in treno passando un quarto d’ora di distesa non-concentrazione. Un avvocato di Roma narra in prima persona la fine dello zio materno, novantenne malato di vecchiaia, stanchezza e forse di Alzheimer. Il nipote vorrebbe fare in modo di trattenere il «soffio dell’esistenza in quel corpo che andava trasformandosi in un pesante fantasma di carne stanca e muscoli infiacchiti». Ovviamente lo zio non era sempre stato così, malandato e inebetito; bancario di ««radicale e altera energia», lo zio Enrico era stato «possente atletico e indecifrabile come un cavallo di razza … formale e austero, lesinava i gesti espansivi e le parole». Aveva avuto anche una moglie, sudamericana dolce e bellissima, che però l’aveva lasciato dopo solo un anno di matrimonio: quindi un’esistenza solitaria e orgogliosa, silenziosa e dedita esclusivamente allo sport e al lavoro. Poi la malattia, e il nipote da lui aiutato e seguito per tutta la vita gli cerca delle badanti che lo assistano giorno e notte, anzi, che divengano quasi angeli custodi, amorevoli e fedeli. La custode delle notti malate del vecchio è una giovane cilena, Isabel, che allevia l’immobilità incosciente di lui facendogli ascoltare sempre lo stesso disco, un tango intitolato Scrivimi, che gli aveva regalato decenni prima la moglie sudamericana. E mentre assiste il vegliardo, la giovane Isabel scrive lunghe lettere d’amore al fidanzato cileno, che non le risponderà mai. Quando il vecchio muore, la ragazza chiede al nipote come regalo d’addio proprio quel disco: e il racconto finisce in sordina, quasi con l’imbarazzo di trovare un finale adeguato a una storia che non dice molto. E così, anche il finale rimane sospeso, e non dice molto.

 

«Leggere Donna» n.156, luglio 2012

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RAVASI

GIANFRANCO RAVASI, SIAMO QUEL CHE MANGIAMO? – EMI, BOLOGNA 2015

Sua Eminenza il Cardinale Gianfranco Ravasi, che l’anno scorso ha inaugurato il padiglione della Santa Sede all’Expo di Milano, ha pubblicato con evidente cognizione di causa Siamo quel che mangiamo?, un interessante libricino sul rapporto che intercorre tra cibo e Sacre Scritture.
Eruditissimo, fitto di citazioni e rimandi linguistici dal greco e dall’ebraico, riprende nel titolo l’affermazione di Feuerbach (“Der Mensch ist was er isst”) per ribadire che sì, ovviamente, siamo quel che mangiamo (quello di cui la nostra cultura, tradizione ed economia ci esorta a nutrirci), ma siamo soprattutto altro. Cibo come alimento, quindi, ma che deve mantenere una sua dimensione simbolica e spirituale.

Il saggio è suddiviso in tre sezioni: quella finale riporta un essenziale lessico biblico di termini alimentari ricorrenti nei testi sacri; quella centrale analizza due modalità inerenti all’assunzione del cibo, il digiuno e il vizio della gola. La parte iniziale è forse la più stimolante e istruttiva.
In essa, Gianfranco Ravasi illustra il rilievo che nelle Scritture hanno avuto tre archetipi dell’alimentazione: pane, vino e acqua. Il pane, nominato cento volte nel Nuovo Testamento, conosce il suo momento topico nell’istituzione dell’Eucarestia, e nella preghiera del Padre Nostro. Il vino, che rimanda a vissuti di festa partecipata, può assumere anche una valenza negativa e tentatrice, come nell’episodio dell’ubriacatura di Noè. Ma è l’acqua l’elemento che riveste nei testi sacri un’importanza simbolica ancora più evidente: disseta e purifica, lava e battezza. “Proprio perché è al centro dell’esistenza fisica, l’acqua diventa un simbolo dei valori assoluti, della vita anche nella sua dimensione spirituale, della stessa trascendenza”.

Pane, vino, acqua nutrono e devono essere condivisi: la religione cristiana non va vissuta solo come emozione interiore e ascesi, ma è “una fede legata ai corpi, alla storia, all’esistenza… per questo ritornare alla civiltà e alla simbologia del cibo ha un valore culturale e spirituale”.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Siamo-quel-mangiamo-Ravasi.html      31 luglio 2016

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RAVASI

GIANFRANCO RAVASI, GRAMMATICA DEL PERDONO – EDB, BOLOGNA 2015

Sua Eminenza il Cardinale Gianfranco Ravasi, biblista di fama internazionale e Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, si confronta in questo libriccino (uno delle dieci pubblicazioni date alle stampe solo nel corso del 2015) con il complesso tema del perdono. E lo fa con il consueto sfoggio di erudizione, che spazia dalle Scritture alla filosofia contemporanea, non disdegnando però proverbi, citazioni e aforismi (come quello, celeberrimo, di A. Pope: “errare è umano, perdonare è divino”. O l’altro di La Fontaine; “Perdoniamo tutto a noi stessi e nulla agli altri”). Arcinote sono le raccomandazione evangeliche di Luca (“perdonate e sarete perdonati”) e di Matteo (“perdonare fino a settanta volte sette”), meno conosciute le esortazioni dei profeti dell’Antico Testamento, dei Salmi, e della sapienza rabbinica. Secondo Ravasi, il perdono è “un atto trascendente la pura e semplice etica razionale… è una potenzialità che fa varcare il ristretto circuito ell’ego… fa sì che dal semplice meccanismo della giustizia si possa passare gratuitamente al regime dell’amore”. Non è detto che per arrivare al perdono si debba obbligatoriamente dimenticare o cancellare il male ricevuto, anzi la vera virtù consiste nel saper perdonare proprio ricordando, consapevoli della propria sofferenza, dell’ingiustizia immeritatamente subita. Ma dovremmo essere capaci di cauterizzare la nostra ferita liberandoci dall’incubo di una memoria sofferta, sgravandoci del peso soffocante che ci inibisce pensieri e azioni, e ci rinchiude nel cerchio angoscioso della volontà di rivalsa, o addirittura di vendetta: “il perdono spezza la catena rigida del dare-avere e introduce la logica della donazione libera e generosa”. Chissà però se anche i cardinali più illustri hanno l’umiltà di chiedere perdono a chi hanno offeso, infangato pubblicamente, calunniato dall’alto di un pulpito o dalle colonne di prestigiosi giornali, seguendo coerentemente le loro stesse indicazioni di carità fraterna e cristiana.

IBS, 25 settembre 2015

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RAVASI

GIANFRANCO RAVASI, LA BIBBIA SECONDO BORGES – EDB, BOLOGNA 2017

In un volumetto pubblicato quest’anno dalle edizioni Dehoniane di Bologna, il Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, introduce i lettori al confronto con alcuni temi narrativi e poetici di Jorge Luis Borges, forse meno noti della sua produzione comunemente definita fantastica: spunti di riflessione riguardanti la teologia ebraica e cristiana, che percorrono tutta la sua scrittura, affiorando come correnti carsiche dal fertile terreno della sua enciclopedica cultura. Borges si è a più riprese qualificato agnostico, quando non del tutto ateo (Leonardo Sciascia lo definì «il più grande teologo ateo del nostro tempo»), ma fu sempre molto interessato ai fenomeni religiosi, e coltivò rapporti durevoli con esponenti del clero cattolico. Tra di essi, conobbe personalmente Papa Francesco, che ‒ trentenne insegnante di lettere in un collegio di Santa Fe ‒, lo aveva invitato nel 1965 a tenere un corso residenziale di scrittura ai suoi allievi liceali. Tra i due Jorge correvano circa una quarantina d’anni di differenza, ma si stabilì un rapporto di stima e confidenza reciproca, che per quanto riguarda Francesco, si concretizzò poi in una conoscenza approfondita di tutte le opere del Maestro di Buenos Aires.

Ecco quindi che Gianfranco Ravasi delinea in La Bibbia secondo Borges «una mappa a maglie larghe e incomplete» del filone «religioso, spirituale e persino mistico» individuabile nell’opera di questo autore da lui massimamente apprezzato. Così descrive la personalità dello scrittore: «Una fisionomia segnata dalla mobilità di un ecclettismo nobile, erede della curiositas insonne della classicità latina». Agendo tra storia e mito, leggenda e cronaca, verità e finzione, Borges assorbiva dal reale un labirintico universo di fantasie mobili, ramificate e fluide; reinterpretando Matteo 7,24, infatti, così esortava: «Nulla si edifica sulla pietra, tutto sulla sabbia, ma dobbiamo edificare come se la sabbia fosse pietra».

Il suo avvicinamento alla Bibbia, determinato più da interesse culturale che dalla fede, fu incoraggiato dalla nonna, inglese e anglicana, che conosceva le Sacre Scritture a memoria. Attraverso le parole di lei cominciò ad apprezzare le narrazioni epiche del testo biblico, le parabole e le massime sapienziali, i personaggi dal tragico e umanissimo spessore (da Caino e Abele, da Giobbe a Giuda), la poesia dell’Ecclesiaste, intuendo pur nel suo scetticismo di non credente la grandezza del mistero, e quella di un eventuale progetto divino che potesse offrire una giustificazione all’esistenza del dolore e del male, e una proposta di perdono e salvezza. Da Cardinale della Chiesa Cattolica, Sua Eminenza Gianfranco Ravasi mette in luce ovviamente il fascino inquieto che la figura di Cristo e la sua crocifissione esercitarono su Borges, così come la grande ammirazione da lui provata di fronte al monumentale edificio teologico costruito da Dante nella Divina Commedia. Ma tace della preferenza più volte dichiarata dallo scrittore argentino per la storia e la letteratura ebraica (e addirittura per la cabbala), considerate fucina di tutto il sapere occidentale. E della sua pungente ironia verso molti atteggiamenti e dogmi cristiani, che in Elogio dell’ombra lo indussero a riscrivere in maniera quasi beffarda le Beatitudini, circoscrivendole in una morale del tutto umana, accessibile a chiunque: «Beati quelli che non hanno fame di giustizia, perché sanno che la nostra sorte, avversa o benevola, è opera del caso, che è imperscrutabile…».

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/La-Bibbia-secondo-Borges-Ravasi.html       14 dicembre 2017

 

 

 

 

 

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RAVASI

GIANFRANCO RAVASI, LA VOCE DEL SILENZIO – EDB, BOLOGNA 2018

Partendo da una rivisitazione di alcune pagine bibliche, il Cardinale Gianfranco Ravasi ci offre una riflessione in sei brevi capitoli sul significato e l’importanza morale e culturale della parola. L’Antico Testamento è la sorgente ispiratrice (orizzonte, punto di riferimento, codice) di tutta la cultura occidentale, nella letteratura e nelle arti: lo è stato per scrittori, filosofi e intellettuali di ogni epoca e credo, se è vero che, come scrisse Blaise Pascal, «La Scrittura sacra ha passi atti a consolare tutte le condizioni, ma ha passi adatti anche a inquietare tutte le condizioni». Fonte di conforto e di tormento, quindi, ma anche di altissima poesia, se si leggono le pagine dei Salmi, del Libro di Giobbe, del Cantico dei Cantici, del Qoèlet. Eppure, questa miniera di sapienza e di poesia della Bibbia è racchiusa in un vocabolario limitato, formato soltanto «da 5.750 parole ebraiche, compresi gli avverbi, i segni dell’accusativo e alcuni segni marginali». Un lessico ristretto, formulato «in lingua pietrosa come il deserto da cui proveniva, una lingua di pastori, espressione di una civiltà nomadica», che tuttavia riesce a comunicare la trascendenza, l’infinito, l’eternità e il mistero.

Privilegiando più la parola che l’immagine, la cultura ebraico-cristiana è riuscita ad esaltare la potenza del linguaggio: è il verbo di Dio (“Dio disse”) che dà inizio alla creazione. Ma il Logos divino per farsi comprendere si deve affidare alla voce umana, fioca, esile, simile a un bisbiglìo (Isaia 29,4). È talmente fragile e inadeguata, la parola degli uomini, che nell’Antico Testamento non può nemmeno proferire il nome del Signore, scritto in quattro impronunciabili consonanti: YHWH. Il nome di Dio per il popolo ebraico va taciuto. Il primo dei profeti biblici, Elia, quando – perseguitato e in fuga, anche da se stesso – teme di avere perso la protezione del cielo, sul Sinai si illude di trovare Dio in una rivelazione prodigiosa, violenta, sensazionale, come nel fulmine incandescente, nel terremoto, nella tempesta: lo trova invece in «una voce di silenzio sottile» (1Re 19,12).

Partendo da questo ossimoro, La voce del silenzio di Gianfranco Ravasi si interroga sul rapporto misterioso e fecondo che lega la parola al tacere, quando la comunicazione più intima e arricchente non necessita d verbalizzazione. È probabilmente la poesia la forma letteraria che, attraverso il suo simbolismo e la sua musicalità, con le sue pause, i ritmi e gli spazi bianchi del verso, meglio riesce a rendere l’enorme potenzialità espressiva della parola, donandoci un’esperienza sensoriale che mette in relazione silenzio e significato, come nella musicalità del Cantico dei Cantici che esprime la tenerezza del dono reciproco dell’amore tra due giovani amanti. Anche la pittura, nell’arco dei secoli, ha sempre innalzato l’osservatore alla trascendenza, spesso utilizzando il repertorio della narrazione biblica, come nel quadro di Paul Gauguin riprodotto nella copertina del volume di cui parliamo, La visione dopo il sermone, del 1888. Marc Chagall scriveva: «La Bibbia è l’alfabeto colorato della speranza, nel quale hanno intinto il loro pennello per secoli i pittori». Arte figurativa, musica, saggistica traggono tutte ispirazione dal sontuoso immaginario biblico, attraverso le modalità dell’attualizzazione, della degenerazione, della trasfigurazione. Ravasi elogia quindi la potenzialità dell’espressione umana, per quanto essa sia labile e manchevole, quando in ogni ambito sappia esaltare la spiritualità, superando «i territori della superficialità, della banalità, della volgarità» della comunicazione contemporanea. Forse da lui e dal titolo del suo libro ci saremmo aspettati un più esplicito elogio del valore del silenzio, così come viene sottolineato da molte splendide pagine bibliche (Pr 10,19; Is 30,15; Mt 5,37-6,7-12,36…): voce sottile che si oppone alla forza del tuono, in una resistenza discretamente attiva.

 

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https://www.sololibri.net/La-voce-del-silenzio-Ravasi.html            8 ottobre 2018

 

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REA

ERMANNO REA, LA COMUNISTA – GIUNTI, FIRENZE 2012

Nei due racconti di cui si compone questo libro dello scrittore partenopeo Ermanno Rea, da poco scomparso, Napoli entra per così dire di sbieco: non nell’intelaiatura linguistica, che è classicamente tersa, lontana da sperimentalismi e da espressioni vernacolari; nemmeno concretamente nella trama – anche se nel primo è evocata in alcuni quartieri, chiese, e nei problemi legati allo smaltimento dei rifiuti, e nel secondo incombe minaccioso ma dormiente il profilo del Vesuvio su Torre del Greco. E forse neanche nel carattere dei personaggi, per quanto Ermanno Rea faccia spesso riferimento al fatalismo e all’indolenza dei suoi concittadini. Sono racconti che potrebbero essere ambientati anche altrove, e si snodano pacati nella tranquilla narrazione, scevra di sorprese o soprassalti, di due incontri fuori dall’ordinario.

La comunista del primo racconto è il fantasma di una donna, un tempo amata dallo scrittore e descritta in un suo contestato romanzo di successo (“Francesca era una disubbidiente nata, un’irregolare per scelta ideologica prima ancora che per indole”) che gli appare improvvisamente una sera piovosa, e lo accompagna in un suo percorso mentale e materiale attraverso la città scoraggiata e delusa, invitandolo a una presa di coscienza più utopisticamente ottimista, nella speranza di un riscatto sociale di tutta la realtà meridionale.

Il secondo racconto ci presenta un anziano professore, vedovo e ricco, “affetto da bibliomania devastante”, che vive con una domestica in una splendida e trascurata villa, assediato dalle presenza di ventimila volumi preziosi. L’incontro che viene a cambiargli la vita è quello con un immigrato polacco “dalle mani d’oro”. Tadeusz in breve tempo gli ristruttura la casa, e gli costruisce una grandiosa libreria, ricavandone in cambio denaro, amicizia e lezioni di italiano. Poi scompare, con il suo linguaggio troppo forbito e la sua inquietudine: il professore muore, casa e libri vanno in rovina, e il lettore rimane un po’ sconcertato.

 

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www.sololibri.net/La-comunista-Ermanno-Rea.html      19 settembre 2016