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RECENSIONI

RICCA

PAOLO RICCA, EVANGELO DI GIOVANNI – MORCELLIANA, BRESCIA 2005

Questo volume propone ai lettori la trascrizione di una serie di conversazioni del Pastore Valdese Paolo Ricca dedicate al Vangelo giovanneo nella trasmissione di Radio 3 Rai “Uomini e profeti” (inverno 2001). L’autore approfondisce la sua interpretazione del testo, scandendolo in tre nuclei principali: i dialoghi di Gesù, i suoi segni e le sue auto-rivelazioni. Nella prima parte, Paolo Ricca riesce egregiamente a dare nuovo spessore a figure che abbiamo imparato a conoscere in maniera abbastanza scontata e superficiale: ecco invece che Nicodemo, Maria Maddalena, la Samaritana, Pilato assumono un rilievo fondamentale di testimonianza, talvolta profetica. I segni del Messia, come preferisce definirli Giovanni (piuttosto che con il termine abusato e fuorviante di “miracoli”), manifestano nella lettura che ne dà Ricca la portata rivelatrice, più che prodigiosa, dell’evento narrato, additandone la realtà nascosta che lo trascende. Quindi Cana, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, la risurrezione di Lazzaro indicano l’universalizzazione del messaggio cristiano con il suo invito alla condivisione, e alla rinascita dall’incredulità alla fede. Infine, la ribadita affermazione “Io sono” che Giovanni pone in bocca a Gesù sta a sottolineare questa sua volontà di manifestarsi come figlio di Dio, rivendicando a sé stesso sia l’umanità che la divinità. Nello storicizzare il Vangelo di Giovanni, e incardinandolo nel suo concreto comporsi alla fine del I secolo, segnato già dal primo formarsi della Chiesa come istituzione, Paolo Ricca ne esplicita con meditata sapienza soprattutto l’estrema originalità rispetto ai sinottici, evidenziandone le caratteristiche principali: l’insistenza sul presente come reale tempo di Dio; l’incontro attraverso la parola; la polemica contro il potere e la gerarchia; il dovere di de-clericalizzare Dio; il richiamo deciso all’amore, alla fede, al servizio umile e al dono di sé; l’importanza della luce, della gioia, dell’intimità amicale.

IBS, 7 settembre 2013

RECENSIONI

RICCA

PAOLO RICCA, IL CRISTIANO DAVANTI ALLA MORTE – CLAUDIANA, TORINO 2005

I tre capitoli che compongono questo volumetto (pubblicato per la prima volta nel 1978) indagano la relazione tra la morte e la società, Dio, la fede. Se la riflessione filosofica e sociologica degli ultimi decenni si è spesso soffermata sugli aspetti sociali della morte (quindi sulla sua definizione scientifica e medica, sulla sua laicizzazione e privatizzazione, sulla sua rimozione culturale), il Pastore Valdese e teologo Paolo Ricca ne propone qui un’ottica attenta soprattutto alla dimensione religiosa. La morte come problema teologico viene affrontata alla luce di quanto se ne afferma nell’Antico e nel Nuovo Testamento; nel primo la risurrezione è del tutto marginale, mentre è centrale nel secondo. Ma è certo che “la Bibbia, nel suo insieme, pensa più a Dio al di qua della linea della vita che al di là del confine della morte… Insomma, nella Bibbia il discorso su Dio non è collegato alla paura di morire ma alla responsabilità di vivere”. Risurrezione per il cristiano significa “l’apparire della nuova creazione”, quindi vivere una nuova esistenza, più giusta, più buona, più pura, più generosa. Il messaggio di Gesù, per Ricca, ha capovolto ogni prospettiva, invitando a superare la morte in nome della vita: “non più la vita alle spalle e la morte davanti, ma la morte alla spalle e la vita davanti”. Il compito del cristiano è quindi quello di lottare contro la morte intesa come violenza, ingiustizia, disuguaglianza, “in modo che ridiventi epilogo e non distruzione della vita”: la morte si combatte intessendo un’esistenza relazionale, e umanizzando il momento del trapasso (coraggiosamente l’autore afferma che l’eutanasia, “intesa non come diritto di uccidere ma come diritto di morire” dovrebbe essere resa legalmente possibile). Allora la risurrezione non va pensata in funzione di se stessi o dei propri cari, ma in termini collettivi: non con la speranza di rimanere eterni individualmente, ma con la volontà di una salvezza che riguardi tutta l’umanità.

IBS, 23 agosto 2013

RECENSIONI

RICCARDI

ANTONIO RICCARDI, IL PROFITTO DOMESTICO – IL SAGGIATORE, MILANO 2015

Il Saggiatore ripropone, in una versione riveduta dall’autore, il primo libro di versi di Antonio Riccardi, Il profitto domestico, pubblicato da Mondadori nel 1996: opera che già vent’anni fa aveva riscosso positivi commenti da parte dei critici. A ribadire nei lettori l’impressione di allora, sono ancora gli stessi versi radicati in una geografia e in una storia assolutamente personali (anzi, familiari), che ambiscono però a farsi portavoce di una sensibilità collettiva.
Scandito in dieci sezioni, a loro volta suddivise in sottosezioni, il volume abbraccia un orizzonte del tutto naturalistico, immerso in un paesaggio padano profondamente vegetale: bosco, erba, foglie sono i termini più presenti, nella loro lussureggiante e umida frescura, insieme all’acqua di fiumiciattoli, a sentieri che si inerpicano, a sassi e improvvise radure. La stagione che domina è quella estiva, non bruciante, ma viva di «luce aperta», di «ore calme».
E in questa campagna dell’Appennino parmense, da cui Riccardi proviene, l’economia è stabilmente domestica, rurale, concretizzata in abitudini contadine («i soldi nella latta dei dolci», le veglie, il risparmio, le raccomandazioni dei vecchi: «Se succede qualcosa restate / e non vendete», le giaculatorie: «Me ne vado a letto / Con Domine perfetto / con Domine maggiore / con Cristo Salvatore»).
Il compito del poeta è quello di un recupero archeologico e di una testimonianza morale; giustamente Alberto Casadei, nella sua approfondita postfazione, parla di «componente etica» della raccolta: «Il dovere può essere accostato alla «conoscenza domestica», all’intima pietas del custodire-salvare le vicende biografiche e le reliquie, per costruire un profitto più autentico, per dare un ordine al vuoto».

E la ricerca delle radici si attua in una ricomposizione di ritratti-medaglioni familiari, come quelli che si appendevano nelle vecchie cascine di campagna, fotografie in biancoenero in cornici ovali di legno: sono gli avi, i parenti nati tutti nell’800, e tutti destinati a una sorte fallimentare di perdenti, di esclusi, di vinti. Il sacerdote Antonio Riccardi, la cui vita è stata segnata da una colpa forse inconfessabile: ma condanna e salvezza, peccato e perdono si rincorrono sempre («Una colpa ci trapassa per salvarci»). L’epilettico Dositeo Riccardi, che «Ha tenuto una chiave sotto la lingua / per guarigione». Il soldato Antonio Riccardi, combattente in trincea nella I guerra mondiale, e il possidente Odet Riccardi che inseguiva «facoltà, bene, felicità». Generazioni che si sono succedute nella conquista, nel mantenimento e poi nel lento decadere del podere di famiglia a Cattabiano, in perenni rincorse di un «profitto domestico»: «Avevamo fiducia e abitudini dolci. / Ora, qui sulla terra / che non è più nostra / la rovina orla la nostra vita».

Non è un caso, forse, che gli aggettivi più ricorrenti nei versi di Riccardi siano «questo» e «ogni», quasi a voler continuamente ribadire una radicalizzazione nella concretezza della storia personale dell’autore, un «qui e ora» che rimangono pur nel susseguirsi degli anni, in un passato che permane e si vivifica nel presente. Così come anche il lontano più immaginifico (la terrificante spedizione artica di Greely nel 1881, l’esplorazione africana di Bottego) dei sogni o degli incubi adolescenziali del poeta si confondono con la sua realtà attuale dell’abitare nei grigi confini industrializzati di Sesto San Giovanni. D ove riesce comunque a recuperare il filo della poesia: «Abbiamo visto nell’aria Milano / un chiarore salire curvato / oltre il piano degli alberi sul fiume. / Saremo felici della nostra fortuna».

 

«Poesia» n. 311, gennaio 2016

RECENSIONI

RICO

EUGENIA RICO, STORIA DEL SILENZIO – ELLIOT, ROMA 2020 (ebook)

Eugenia Rico, nata a Oviedo nel 1972, vive oggi a Venezia col marito e la figlia. Definita da Luis Sepúlveda una delle voci più originali della narrativa spagnola, ha ricevuto numerosi riconoscimenti
internazionali e la sua opera è stata tradotta in molte lingue. In Italia i suoi romanzi, pubblicati da Elliot, narrano soprattutto di relazioni familiari e sentimentali tormentate, con un’attenzione particolare anche all’ambientazione sociale e storica.

In questa Storia del silenzio, finora uscito solo in formato digitale, Eugenia Rico si confronta con il doloroso incubo che stiamo vivendo in tutto il mondo, assediati dal virus del Covid. Incubo che, per la città in cui l’autrice abita attualmente, Venezia, è iniziato il 23 febbraio manifestandosi in una San Marco dapprima festosa e affollata, poi improvvisamente ammutolita: “Di colpo la piazza si è fermata, la folla in silenzio ha cominciato a guardare i cellulari, come la scena di un film in cui tutti eravamo comparse: il Carnevale di Venezia è stato cancellato, che è un po’ come chiudere la vita”.

Da quella data Eugenia Rico registra quotidianamente, scandendo l’implacabile e lento trascorrere di giornate tutte uguali, il diario malinconico della quarantena, nel suo imporsi a macchia d’olio dalla Cina all’Italia del Nord, alla Spagna e a tutta l’Europa, e infine a livello planetario. Uno scenario di guerra, con isolamento e coprifuoco, maschere protettive e tende ospedaliere, terrore e povertà, allarmismi e sfide provocatorie. La paura ha immobilizzato tutti, pietrificato i rapporti sociali, alzato muri di diffidenza e litigiosità: “Prima hanno chiuso le scuole, poi hanno chiuso i negozi, i bar aprivano fino alle sei di pomeriggio, i bar non aprivano, fino a quando è stato chiuso tutto. E anche noi ci siamo chiusi. La società si è trasformata in una rete sociale”. E, in questo scenario di silenzio e solitudine coatta, “Sappiamo come siamo entrati, non sappiamo quando usciremo né come”. Certo diversi, come è successo all’umanità dopo ogni cataclisma, ogni evento bellico, ogni epidemia. Migliori o peggiori, è comunque da vedersi. Senz’altro il Coronavirus ha minato dalle fondamenta i rapporti di convivenza, la fiducia negli altri, l’economia e la salute mentale, oltre ad aver ucciso persone e seminato dolore e spavento.

Le considerazioni dell’autrice sono quelle che leggiamo da mesi sui giornali, che ascoltiamo alla radio e alla televisione, che ci scambiamo in famiglia, tra amici o sui social. Diciamo e pensiamo tutti le stesse cose: anche l’originalità, la fantasia, l’ironia hanno ceduto il passo alla stanchezza, al pessimismo, all’intolleranza, ai pregiudizi.

Venezia resiste, è quasi più felice, senza turisti e trolley cigolanti: l’acqua dei canali è cristallina e si vedono saltare i pesci, nuotare anatre e cigni, i pochi residenti fissi sono diventati più amabili e solidali tra di loro… Fino a quando, però? Cosa succederà se alberghi, ristoranti, bar, le varie attività commerciali non riusciranno più a riaprire, dovranno licenziare il personale, dichiarare fallimento?

Eugenia Rico nella sua analisi alterna ottimismo e scoraggiamento, esaltazioni improvvise e prolungate depressioni, barcamenandosi nella quotidianità tra i propri impegni di moglie-madre-cittadina, e le proprie riflessioni di scrittrice intellettuale. Con l’ansia comune a tutti noi, di riprendere al più presto l’esistenza attiva del pre-virus, e la speranza in una rinascita personale e collettiva, conclude ogni pagina di diario sempre con le stesse parole: “Vi voglio bene”.

© Riproduzione riservata              26 maggio 2020

https://www.sololibri.net/Storia-del-silenzio-Rico.html

RECENSIONI

RICOEUR

PAUL RICOEUR, KIERKEGAARD – MORCELLIANA, BRESIA 1995

In queste due conferenze tenute nel 1963, Paul Ricoeur si confronta con uno dei suoi filosofi di riferimento, da lui definito “un’eccezione… fuori dalla filosofia e dalla teologia… coincidenza inaudita di ironia, malinconia, purezza del cuore, retorica corrosiva…”. A questo inedito ritratto di Kierkegaard ritiene di dover aggiungere “una punta di buffoneria, ed infine coronare il tutto con l’identità di estetismo religioso e di martirio”. Nessuna sottovalutazione, ovviamente, del pensatore danese: semmai una rivendicazione ammirata della sua originalità assolutamente lontana dagli schemi e dalla tradizione filosofica classica. Assurdo definire quella kierkegaardiana una non-filosofia, semmai – suggerisce Ricoeur – una “iper-filosofia”, di cui si devono accettare anche “gli aspetti propriamente irrazionali”, al punto che ci si dovrebbe interrogare su “come sia possibile filosofare dopo Kierkegaard”. I due saggi esaminati da Ricoeur sono Il concetto dell’angoscia e La malattia mortale, del 1844 e del 1849: di entrambi viene analizzato il confrontarsi del filosofo danese con il problema del male, inteso come questione centrale (“assurda, scandalosa, senza diritto e senza ragione”) del rapporto tra l’uomo e Dio. Il cristianesimo di Kierkegaard era più un cristianesimo della croce che della Pasqua, della sofferenza e della colpa più che del perdono e della gloria: in esso il peso del peccato, dell’angoscia e della disperazione assunse sempre un rilievo fondamentale. E in questi due scritti lo affrontò non tanto “da metafisico, o da moralista, o da predicatore”: quanto invece, secondo Ricoeur, da un punto di vista psicologico. “Il peccato non è il contrario della virtù, ma della fede… è il nostro modo ordinario di essere davanti a Dio”, e si esprime nella sua forma estrema come disperazione, imperdonabile malattia mortale che rispecchia “la mancanza d’infinito, la ristrettezza di una vita mediocre, la perdita d’orizzonte”.

IBS, 5 aprile 2014

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RIFKA

FUAD RIFKA, L’ULTIMA PAROLA SUL PANE – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2022

Fuad Rifka, nato nel 1930 in un piccolo villaggio della Siria ed emigrato in gioventù a Beirut, per anni ha insegnato filosofia alla Lebanese American University. Profondo conoscitore della poesia tedesca, ha tradotto in arabo Goethe, Novalis, Hölderlin, Rilke, Trakl. È morto a Beirut nel 2011.

Nel volume L’ultima parola sul pane, pubblicato recentemente dalle edizioni pugliesi AnimaMundi, viene suggerita con levità e dolcezza la necessità di camminare con il mondo e insieme oltre il mondo, lontano da ogni brama di possesso e di successo, nella contemplazione serenamente meditativa dell’essere. Sempre in attesa di una rivelazione che porti pace e salvezza, di un respiro capace di promettere, anche solo per un attimo, sospensione e sollievo da angoscia e paura (“Arriva all’improvviso, / quest’ospite divino e / poi va via dietro una curva ignota”), Rifka fa riferimento a un aldilà sovrasensibile che non sa e non può essere detto, ma solo intuito nella sua ineffabilità.

Ciò su cui insistono nei loro commenti il prefatore Tomaso Tiddia, i postfatori Paolo Ruffilli, Rossana Abis che l’ha incontrato e Ottavio Rossani che l’ha intervistato nel 2008, è l’intensità del suo sguardo contemplativo, l’assoluta trasparenza della sua scrittura, “depurata da ogni ideologia e cultura”: invito a dimenticare e a dimenticarsi, in un oblio del bene e del male che riesca a sanare qualsiasi ferita. Diario: “Che tu veda il giorno, o no, / comunque lo rimpiangerai. / Che tu ti faccia grande, o no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu conosca l’amore, oppure no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu possa invecchiare, o no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu giunga a morire, o no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu rimpianga, o no, comunque lo rimpiangerai”.

Questa “poesia di raffinata povertà” ci avvicina alle dottrine spirituali dell’Oriente, non solo arabe, proprie della meditazione sufista fino a Rumi, ma anche dei maestri zen cinesi e giapponesi. Ritroviamo l’annullamento dell’io indicato da Li Po (“Sediamo insieme, la montagna e io, finché solo la montagna rimane”) nella descrizione fatta in La Capanna del Sufi: “Sta seduto immobile, / in un posto coperto tutto di muschio. / Mai stanco di stare lì seduto / resta in silenzio. // Due pietre: lui e la roccia”. La rinuncia, come strada maestra verso l’essenzialità e la purificazione, era già stata predicata da Plotino (Aphele panta, elimina tutto), poi da Marco Aurelio, dai mistici renani, dal monachesimo cristiano, fino a Nietzsche (“Divina è l’arte del dimenticare”). Niente permane, tutto finisce ed è destinato a sparire; persino la poesia (soffio di vento, ombra) non ha e non deve avere una vita duratura: solo l’eternità merita se stessa, nel silenzio. Il poeta, sacerdote dell’invisibile, diventa tale quando “i suoi occhi vedono la luce … dimenticando la poesia”, anch’essa serva della parola scritta ed enunciata, pertanto deperibile.

Fuad Rifka divide la vita dell’uomo in tre fasi: la fanciullezza, che è sogno, ingenuità, abbandono fiducioso all’accadere; la maturità, con le sue ansie di conoscenza, amore, avventura; la vecchiaia, nel rassegnato ripiegamento interiore, in attesa della fine liberatrice (Percorso: “Nella nostra infanzia / apriamo la porta e dormiamo / come riposa la preghiera / tra le foglie di Dio. // A mezzogiorno / chiudiamo la porta e poi partiamo / nei venti rossi di sabbia, dentro la bufera, / dietro alle tracce del diluvio e del miraggio. // La sera infine / l’ombra si accorcia e si cancella / come un giorno d’estate nel cuore dell’inverno”). Nella materialità delle giornate quotidiane, ci ritroviamo “le mani piene / di fumo e di paura, / e i visi spenti”, perché siamo “una ferita, / e siamo dei torrenti / senza letto e foce, / siamo campane al transito del tempo”. Rassegnati alla nostra finitezza fisica “Finiremo così, naturalmente, / come un fiore di campo, / come un fiore che dice: / “È già tempo di neve, amico mio, / e le stagioni prossime a finire”.

La parola poetica, semplice e sacra come il pane, nonostante la sua fragilità può agire come una liturgia rituale e profetica, lontana da qualsiasi confessionalismo, trasformando il nostro vissuto concreto in aspirazione all’assoluto, connettendoci con l’infinito, senza la presunzione di comprendere il mistero che ci fa esistere.

© Riproduzione riservata                  «Gli Stati Generali», 31 agosto 2022

 

 

RECENSIONI

RIGONI

MARIO ANDREA RIGONI, COLLOQUI CON IL MIO DEMONE – ELLIOT, ROMA 2021

Mario Andrea Rigoni (Asiago, 1948), Professore emerito di Letteratura italiana dell’Università di Padova, studioso di Leopardi, collaboratore del «Corriere della Sera», saggista, critico, autore di racconti e di aforismi, ha pubblicato presso Elliot il suo primo volume di versi, Colloqui con il mio demone, con prefazione di Francesco Zambon. Si tratta di un libro originale, nel panorama della nostra poesia, non solo dal punto di vista formale (utilizza infatti uno stile di impianto prosastico e colloquiale, ma intessuto di stratagemmi fonetici che lo rendono musicalmente ritmico e facilmente memorizzabile), ma anche nelle scelte tematiche, sospese tra autobiografia, memoria storica, meditazione metafisica, interesse scientifico e critica sociale.

Chiarezza, esibita semplicità, amara ironia, pungente risentimento etico, compiaciuto distacco dalle mode letterarie attuali, sono gli ingredienti distintivi di questa prova di Rigoni, che in essa fa tesoro della sua decennale e riconosciuta abilità aforistica, come della profonda conoscenza dei testi dilanianti di Emile Cioran, di cui è stato traduttore e amico. A queste non comuni caratteristiche si aggiunge la riflessione malinconicamente consapevole della transitorietà del vivere, della tragica inessenzialità umana nello scorrere dei millenni e negli sconfinati abissi del cosmo. Quindi sono molte le composizioni che si interrogano sugli aspetti materiali dell’esistenza, dalla meteorologia (il vento, la nebbia) alla mineralogia (il granello di sabbia, il ciottolo, il lapislazzulo) alla storia, con una rivisitazione di personaggi illustri, antichi e moderni (Ponzio Pilato, Giulio Cesare, Marco Aurelio, Giordano Bruno, Stalin).

Se non sono dimenticati luoghi e oggetti, piante e animali (il tarassaco, merli e avvoltoi), gli amici e gli affetti più cari, la cifra caratterizzante la raccolta sembra essere la valutazione caustica e sapienziale del senso dello stare al mondo. In queste composizioni si alternano infatti il sarcasmo come arma di difesa dalla paura del niente, e la pietosa e indulgente considerazione della propria vanità, nella lotta eterna tra cielo e terra, salvezza e perdizione, speranza e delusione. La morte, soprattutto, viene citata come cieca e implacabile giustiziera, che riduce ogni individualità alla sua insignificanza: “l’addio alla carne, per andare / in un luogo da dove non puoi / chiamare più nessuno, dove nessuno / può chiamarti più, dove forse balugina / ancora qualcosa, luce di polvere / o soffio di nebbia, ma non c’è altro / e, comunque, tu non sei più tu”, “E sempre torniamo al nostro niente / rivestito di carne ora gioiosa ora dolente”.

Il demone che ci possiede non va né temuto né combattuto, piuttosto deve essere corteggiato, ammansito con intelligenza, e sopportato con saggezza: solo così lo si piò disarmare. “Ho parlato poco al mio demone / e lui a me. Ma so troppo bene che c’è. / È un furfante silenzioso quanto pericoloso”, “Stamattina, mio demone, non ti sento / e non mi stai dettando niente”.

La vita è di per sé contraddittoria, e pare dipendere più dal caso che dalla necessità: l’autore ne accetta stoicamente le conseguenze, con un laicismo scettico e sconfortato, capace comunque di una strana e briosa serenità. Di questa svagata leggerezza, accentuata dalla facilità delle rime e dalla convenzionalità del lessico, troviamo nelle pagine numerosi esempi: “Il Diavolo mi ha detto: / non ti posso risparmiare, / in compenso ti lascio cantare”, “Mi sono convertito alla vita, / adesso che è finita”, “Vivendo in estenuanti languori / non conosco che isolati furori”, “All’improvviso, voglia di ballare. / C’è poco da fare: nel bel mezzo / della disperazione, la vita / ti riprende con la sua illusione”.

Nella sua affettuosa e penetrante postfazione, Francesco Zambon rileva come la filosofia sottesa alle poesie di Rigoni abbia un’impronta stoico-gnostica, e rispecchi “la visione di un mondo e di una storia dominati da un male irriducibile e senza via d’uscita, governati da un dio perverso o indifferente”: tale demone è affrontato nei colloqui poetici  dell’autore con la “la fermezza di uno sguardo che non teme di fissare coraggiosamente il male e il dolore”.

© Riproduzione riservata        2 novembre 2021

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RECENSIONI

RIGOTTI

FRANCESCA RIGOTTI, METAFORE DEL SILENZIO – MIMESIS, MILANO 2013

Questo volumetto pubblicato nella collana dell’Accademia del Silenzio dalla filosofa Francesca Rigotti, docente all’Università della Svizzera Italiana, è diviso in due parti, la prima delle quali indaga il senso delle metafore del silenzio, mentre la seconda si interroga sul rapporto che collega silenzio e parola allo spazio e al tempo. Entrambe le sezioni esplicitano le loro tesi basandosi su robuste argomentazioni teoriche, radicate in tutta la riflessione filosofica novecentesca. I nomi più citati – e talvolta contestati – sono quelli di Nietzsche,Wittgenstein, Heidegger, Levinas, Derrida, Foucault, Bachelard, Bauman. Vengono menzionate anche due pensatrici donne: Julia Kristeva e la nostra Rosi Braidotti; è risaputo che le donne, contrariamente a quello che si tramanda, parlano meno degli uomini, e scrivono meno. Proprio partendo da un assunto ideologico femminista, Francesca Rigotti espone la sua originale teoria sull’esistenza di due tipi diversi di silenzio: un silenzio di ghiaccio e di pietra (solido, massiccio, fermo e chiuso in se stesso) e un silenzio liquido-magmatico (marino, profondo, mobile, contenitore). Il primo è maschile, duro e razionale; il secondo è femminile, morbido e soffuso. La parola interviene su entrambi, spezzando il primo con la violenza di un’arma appuntita o pesante, emergendo dagli abissi del secondo come lava galleggiante. L’autrice corrobora questa sua intuizione con dotti riferimenti letterari e musicali (Händel, Bach, Boulez, Cicerone, Ovidio, Pirandello, Rabelais, Vercors, Byatt), ma anche rifacendosi ad acute osservazioni linguistiche ed etimologiche. La seconda parte del libro mette a confronto invece i due tanto discussi concetti di tempo e spazio, ancora sfruttando le categorie del maschile e del femminile: qui però quasi capovolgendoli, perché al maschile viene attribuita la mobilità fagocitante del tempo, mentre si riserva al femminile la statica resistenza dello spazio. Uno spazio silenzioso e un tempo parlante.

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

RIGOTTI

FRANCESCA RIGOTTI, DE SENECTUTE – EINAUDI, TORINO 2018

«La percezione e l’interpretazione della vecchiaia hanno un andamento ondivago e oscillante: talvolta prevale l’immagine negativa, talvolta quella positiva, talvolta esse convivono nello stesso lasso di tempo e di spazio». La filosofa Francesca Rigotti esplora in questo saggio, prendendo in prestito il titolo del famoso dialogo di Cicerone De Senectute, quali e quanti siano dall’antichità gli stereotipi con cui la cultura ha classificato l’età senile. Lo fa ripercorrendo in un rapido excursus storico-concettuale mitologia e letteratura, pregiudizi e ostracismi, tradizioni e comportamenti sedimentati negli usi, nei costumi e nelle ideologie universali riguardo all’invecchiamento. Quindi, se Platone e Cicerone nelle loro opere tramandarono un’idea di anzianità non del tutto negativa, rivalutando la saggezza, il bagaglio di esperienza, l’affrancamento dai desideri fisici e la conseguente maggiore disponibilità verso la meditazione delle persone attempate (riferendosi però quasi esclusivamente al genere maschile), in epoca posteriore la condanna della vecchiaia divenne più esplicita e generalizzata. Tra i contemporanei che ne hanno dato una rappresentazione negativa, Francesca Rigotti segnala Jean Améry, Simone de Beauvoir, Norberto Bobbio, che nelle loro opere hanno sottolineato soprattutto l’incapacità di adeguarsi ai ritmi veloci imposti dalla società tecnologica. Mentre altri intellettuali, quali James Hillman, Oliver Sacks e Marc Augé ne hanno promosso una visione edulcorata e consolatrice (i nonni! affettuosi e sempre disponibili…).

I tratti negativi che caratterizzano la senescenza sono ovviamente l’espulsione dal mercato del lavoro, il decadimento fisico e mentale, la minore elasticità di pensiero, la ridotta attività sessuale, la solitudine, la celebrazione del passato, il conservatorismo. Specialmente oggi, nell’«orgia di giovanilismo» che invade economia, medicina, pubblicità, tempo libero e spettacolo, diventare vecchi è considerato un problema, addirittura una colpa, qualcosa da nascondere: in particolare se si è donna. L’indagine dell’autrice si sofferma con attenzione sulla senescenza femminile, che paga lo scotto di una maledizione antica e superstiziosa, ribadita già dalle Sacre Scritture, e poi dalla mitologia greca, da Orazio, Ovidio, Erasmo da Rotterdam, fino a Montaigne, Schopenhauer e Nietzsche. La donna anziana (ci si congratula di fronte a un bel vecchio, mai davanti a una bella vecchia!) viene dileggiata, descritta come repellente, viziosa, maligna, poco pulita, sciatta: una sorta di strega, insomma, che rimanda all’immagine funerea e crudele della morte. Si salva solo quando viene circoscritta in un ruolo materno e protettivo, se accudisce i nipotini e racconta loro le fiabe: non a caso, dal decadimento fisico (caduta di denti, capelli e peli, secchezza della pelle, indebolimento degli arti, perdita della memoria) si recupera solamente la voce, deputata alla narrazione, al canto, alla parola consolatrice. La ghettizzazione della femmina in età menopausale deriva dall’eccessiva considerazione che si è sempre data alla maternità, unico valore universalmente riconosciuto alle donne: allorché vengono a mancare fecondità e capacità riproduttiva, la condizione sterile diventa sinonimo di indesiderabilità e inutilità sociale e sessuale. «La donna non più mestruata e quindi priva dello spurgo mensile, conserva dentro di sé tutti gli umori e i sentimenti cattivi e diventa naturalmente tossica, amara, maligna».

Persiste poi una sorta di derisione o fastidio, anche se non accentuato come in passato, per la donna agée che rivendichi il suo diritto all’amore e alla sessualità, cosa che invece non si nega al maschio, che mantiene intatte le sue doti procreative e il suo il diritto alla paternità anche in età molto avanzata. Come rifiutare, uomini e donne insieme, i pregiudizi e gli stereotipi culturali che condannano gli anziani a un isolamento mortificante, proprio quando la maggioranza della popolazione mondiale si avvia a un progressivo e inarrestabile invecchiamento? Francesca Rigotti invita a riscoprire la propria creatività e capacità di rapportarsi affettivamente agli altri, a progettare un futuro «basato non sul ricordare, ma sul dimenticare», rifiutando «lagne e piagnistei», inutili malinconie, ricatti ed egoismi parentali e sociali. Come ricordava Seneca «I frutti più gustosi sono quelli più maturi, che vanno fuori stagione; l’ultimo bicchiere quello che dà più gioia…».

 

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/De-senectute-Francesca-Rigotti.html     23 febbraio 2018

 

 

 

 

 

RECENSIONI

RIGOTTI

FRANCESCA RIGOTTI, UNA VITA DA EXPAT – RAFFAELLO CORTINA, MILANO 2019

Migranti economici, migranti politici, migranti intellettuali, migranti turistici. O Migranti per caso, secondo l’ammiccante titolo dell’ultimo libro della filosofa Francesca Rigotti, che coniuga ‒ con leggerezza e sapienza ‒ riflessione teorica e autobiografia, definendo sé stessa “expat”, con un neologismo risultante dall’abbreviazione dell’inglese expatriate, derivato dal verbo latino ex-patriare: uscire, allontanarsi dalla patria. Il termine, utilizzato soprattutto nei paesi anglofoni, significava originariamente persona in esilio; oggi, persona che vive per scelta in un paese straniero.

Nata e cresciuta a Milano da genitori di origine pugliese, Francesca Rigotti si è laureata in Filosofia all’Università Statale di Milano, ha conseguito il dottorato in Scienze Sociali a all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole e la libera docenza in Scienze politiche a Göttingen, in Germania. Dal 1996 insegna alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università della Svizzera Italiana di Lugano. È, quindi, a tutti gli effetti una expat. Ma così si interroga: “Sono un’expat o sono una migrante? Sono europea, bianca e istruita. Ma sono anche evidentemente emigrata e immigrata”.

Utilizziamo diversi vocaboli per indicare chi lascia il paese nativo: “migranti, emigranti, emigrati, immigrati, profughi, rifugiati, esiliati/esuli, nomadi, transumanti, pendolari”. Tutta una varia umanità in movimento, di persone singole o famiglie intere: affamati e semianalfabeti, oppure qualificati e richiestissimi manager, tecnocrati, creativi. Rigotti osserva il fenomeno migratorio dall’esterno, con interesse scientifico e partecipazione di studiosa; ma lo esamina anche dall’interno, con la competenza che le viene dal suo stesso percorso esistenziale. Perciò intercala nel volume pagine descrittive e riflessive di analisi con brani narrativi di stampo diaristico, distinguendo le due diverse esposizioni anche nei caratteri tipografici, e alternando la prima alla terza persona.

Non è detto che espatriare partendo da una condizione privilegiata per arrivare a occupare un ruolo economicamente e professionalmente più redditizio non comporti anche sacrifici, rimorsi, rancori, malinconie o pentimenti. Mogli e figli di professionisti che si trasferiscono all’estero patiscono spesso un senso di esclusione e di disorientamento, costretti come sono a una “emigrazione da matrimonio” in cui il soggetto più debole è tenuto a adeguarsi alle esigenze o alle aspirazioni professionali del capofamiglia maschio, rinunciando a una realizzazione personale. Mogli-Penelope, allontanate dall’ambiente d’origine, dai parenti e dagli amici per un obbligo di fedeltà e dedizione al proprio marito. In parte così è stata la non sempre facile vita dell’autrice, che ha scelto di seguire il suo compagno tedesco a Göttingen, scontrandosi con difficoltà linguistiche e di adattamento locale, con fatiche domestiche e materne (quattro figli in pochi anni), con un’affermazione lavorativa e intellettuale tenacemente perseguita ma irta di ostacoli. Attuando una sorta di resistenza passiva, di “non rinuncia nella rinuncia” è riuscita comunque a conquistare una posizione di rilievo in ambito accademico, firmando numerose e importanti pubblicazioni, e ottenendo riconoscimenti e premi internazionali.

I sacrifici che il suo stato di expat ha comportato sono paragonabili alle sofferenze di un migrante che fugge la povertà o la guerra, che si imbarca su un gommone, che viene imprigionato in un campo profughi, picchiato o violentato, privato dei documenti e della dignità di essere umano? Chiaramente si tratta di condizioni non paragonabili: ma l’uguale destino di allontanamento dalla propria terra (forzato o volontario che sia), di dislocamento in un altrove estraneo, rende la testimonianza di Francesca Rigotti particolarmente preziosa.

“Ho deciso di aggiungere la mia voce al coro che parla di migrazione e anche di filosofia della migrazione, perché questo è un problema urgente, e io sento l’impellenza di farlo. E lo faccio mischiando la storia grande con la piccola, la mia migrazione e quella di tantissime altre persone, in realtà per cercare, più che soluzioni, conforto e senso, per me e per loro. Lo faccio anche applicando al fenomeno della migrazione e dell’espatrio le mie competenze metaforologiche, ovvero di studio delle immagini, delle analogie e delle metafore con le quali descriviamo tali fenomeni”.

Il volume collega infatti i ricordi e le considerazioni personali a riferimenti filosofici, sociologici, linguistici, documentati da opportune citazioni letterarie, che puntualmente avvalorano le intuizioni dell’autrice. Oltremodo interessante risulta per il lettore l’analisi delle metafore associate al fenomeno migratorio: l’acqua (inondazione, fiume, diluvio, corrente, flusso, tsunami, naufragio), il muro (argine, chiusa, diga, barriera), il confine (frontiera, difesa, controllo, sorveglianza, respingimento), le radici (identità, origine, terreno, rizoma). Termini che l’autrice riconduce all’indagine dell’inconscio, utilizzando l’interpretazione psicanalitica di Freud, Bachelard, Blumenberg, Deleuze, Guattari, Jullien. “Il concetto dell’acqua, elemento femminile per eccellenza, è carico di valori e simbologie affini alla valenza negativa della donna: la fluidità corrisponde allora a debolezza, inferiorità, disgregazione. L’elemento cui l’acqua si contrappone in questo schema interpretativo è ovviamente la terra: vediamo quindi nella correlazione solido/fluido, maschile/femminile una ripartizione di attributi e competenze che pone dalla parte del solido e del maschile sovranità, attività, forza, protezione, permanenza, stabilità, e dalla parte del fluido e del femminile debolezza, bisogno di protezione, passività, dipendenza e instabilità”.

A chi ritenga i migranti una minaccia (per cui “è meglio per loro e per tutti che se ne stiano sul loro suolo natìo”), Rigotti oppone il convincimento che “viviamo in una società pluralizzata, dalla quale non c’è via di ritorno al passato e alla sua reale o inventata purezza e omogeneità. Nella società pluralizzata… le migrazioni avvenute e in corso modificano, senza particolari intenzioni ma unicamente con la loro presenza, tutti quanti, anche gli aborigeni, i nostri”. Pertanto la contrapposizione noi/loro (“Prima i nostri!”), la discussione che da Cicerone a Kant tenta di dirimere la questione tra diritto di visita e di movimento e obbligo di ospitalità, finisce per non avere più alcun senso, alla luce di quanto sancisce la Carta di Lampedusa del 1° febbraio 2014, riconoscendo che noi tutti esseri umani abitiamo “la terra come spazio condiviso e che tale appartenenza comune debba essere rispettata”.

Sia per i rifugiati sia per gli expat la migrazione è una situazione ambivalente, “dolorosa e creativa”, perdita e insieme guadagno di esperienza, se si ha il coraggio di mettere in discussione i concetti costrittivi e limitanti di identità nazionale, di appartenenza patriottica, di tradizione. L’arricchimento culturale e linguistico che deriva dall’uscire dal guscio protettivo del cerchio familiare e amicale, dall’istituire confronti, dal modificare abitudini e conformismi, può risultare un atto di libertà e di crescita: dando vita all’elaborazione di una terza cultura, diversa da quella originaria e da quella di accoglienza, più personale e senz’altro sofferta, ma orgogliosa di sé e delle proprie conquiste.

© Riproduzione riservata                    «Il Pickwick», 23 luglio 2019