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RECENSIONI

RILKE

RAINER M. RILKE, LETTERE INTORNO A UN GIARDINO – ARCHINTO, MILANO 2014

In una ventina di lettere scritte tra il 1924 e il 1926 alla giovane ginevrina Antoinette de Boinstetten, Rainer Maria Rilke, che viveva solitario e malato nel Castello di Muzot (in realtà, poco più che un villino turrito nel Vallese), chiede consigli all’amica, istitutrice-infermiera-botanica, su come arredare le stanze e coltivare il giardino. Poco più che un pretesto, sembrano le informazioni pratiche scambiate tra i due, per giustificare un reciproco interesse umano, basato su una sensibilità comune e sull’amore per la natura, i libri, la poesia. La vegetazione esiste come sfondo e richiamo, in queste missive: anemoni, rose, tulipani, primule, glicine, lillà, erbe aromatiche diffondono i loro delicati profumi tra le righe, così come i voli di allodole, merli e cince si intrecciano allo scampanio della “chiesa maldesta” nella vallata. La “Signorina” – come viene chiamata dal suo corrispondente – ha scelto “il mestiere della carità attiva”, Rilke quello del poeta, dello studioso, dell’esteta. I due non si scambiano opinioni solo sui fiori “semplici e devoti”, ma anche sugli scritti di Valéry, di Gide, su volumi d’arte e di geografia. Cosa spinge il genio a confrontarsi con l’anima delicata di Antoinette? “E’ sicuro, d’altronde, che in fondo a ogni slancio verso gli altri urge una profonda inquietudine rispetto a noi stessi, se non addirittura una segreta disperazione di sopportarci… ci allontaniamo da noi stessi, per accostarci a un essere sconosciuto che, a suo modo, anch’egli si sfugge; e speriamo vagamente di capire l’altro… perché, forse, ci aiuterà a guadagnare una certa comprensione di noi stessi”. Per gratitudine e affetto, il grande poeta regala alla ragazza frasi come questa: “Piove maldestramente, e il cielo scrive quelle poche righe nell’aria, senza piacere, come uno scolaretto che avesse le dita gelate e irrigidite. E dopo qualche giorno, quando riappare, il sole ordina brutalmente dei fiori, e li tira fuori dalla terra per i capelli quasi senza accarezzarli!”

IBS, 10 maggio 2014

RECENSIONI

RILKE

RAINER MARIA RILKE, LA VITA COMINCIA OGNI GIORNO – L’ORMA, ROMA 2017

Nell’originale collana “I Pacchetti” delle edizioni romane L’Orma, che offrono assaggi di epistolari famosi, confezionati in una busta pronta da affrancare e spedire, è stato pubblicato un libriccino prezioso, che chiunque ami la poesia di Rainer Maria Rilke dovrebbe conservare nella sua biblioteca, o inviare per posta ad amici.  La vita comincia ogni giorno, ammoniva nelle sue lettere il poeta praghese (1875-1926), regalando ai molti corrispondenti (letterati, aspiranti scrittori, ammiratrici e amanti estasiate dalla sua delicata sensibilità e dalla finezza della sua poesia) perle «di saggezza e commozione», come recita il sottotitolo della raccolta.

Introdotte da una attenta prefazione di Marco Federici Solari, che ne ha curato anche il commento e la traduzione, i sedici brani qui proposti – quasi tutti inediti –  sono tratti da missive inviate tra il 1901 e il 1923 a tre uomini e a tredici donne; contengono esortazioni, riflessioni, immagini oniriche, e un richiamo insistito ad accogliere l’esistenza nel miracolo quotidiano del suo accadere. Il volumetto si apre con un vibrante appello del poeta ventiseienne al direttore del settimanale tedesco Die Zukunft perché venga considerato con maggiore clemenza e rispetto il caso giudiziario di un operaio colpevole di aver ucciso e occultato il cadavere del suo bambino: Rilke manifesta tutta la sua solidale empatia e pietà per il padre, rivelando come sempre il tratto più evidente della sua natura ricettiva e partecipe del dolore altrui. Anche in altre lettere si fa testimone complice ed emozionato di un’umanità sofferente per un lutto o una tragedia familiare: «Nell’istante in cui si stringono nel mondo visibile, i rapporti umani si rinsaldano con forza e intensità ancora maggiori in quello invisibile, nelle abissali profondità dove il nostro essere si conserva come oro nella roccia, e dura più delle stelle».

Numerosi sono gli incitamenti a cercare «la gioia anche lì dove non c’è», scoprendo la bellezza offerta per esempio da tre umilissimi fili d’erba che restituiscono l’odore della brughiera e il soffio del vento. Altrettanto frequenti le ammonizioni a mantenersi rigorosi nei propri comportamenti, nello studio e nella professione, nei sentimenti, nei rapporti con gli altri: «Ci si deve sempre attenere a ciò che è più difficile; perché quella è la parte che davvero ci appartiene… Dobbiamo sprofondare nella vita in modo che essa gravi su di noi e ci diventi un peso: non dobbiamo circondarci di piaceri, bensì di vita… Perché è nella difficoltà che risiedono le forze benevole, le mani capaci di lavorarci, di rifinire il nostro essere», «Credo nella vecchiaia, amico caro, nel lavorare e nell’invecchiare: è il compito che la vita ci assegna», «Nessuna felicità è più grande di quella che proviene dal lavoro, e l’amore, che è la più estrema delle felicità, non può essere altro che lavoro. Chi ama quindi deve cercare di comportarsi come se si apprestasse ad affrontare una grande impresa: deve passare molto tempo da solo e addentrarsi nel proprio intimo, contenersi, trattenersi; deve lavorare, deve divenire qualcosa!» Rilke ammette con onestà anche le sue mancanze, le disattenzioni, i rimpianti: «Ci si affaccia sul presente sempre incompiuti, incapaci, distratti», «Io non ho finestre che si affaccino sull’umanità e non le avrò mai. L’unico modo che conosco per accogliere gli altri è trasformarli in parole dentro di me». Inflessibile e severo verso se stesso e la sua missione di poeta, Rilke rivela tutta la sua dolcezza quando si genuflette davanti alla sofferenza del prossimo, o quando riconoscente per i doni della creazione, semplicemente e umilmente ringrazia.

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/vita-comincia-ogni-giorno-Rilke.html      13 novembre 2017

 

 

 

 

 

 

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RILKE

RAINER MARIA RILKE, SILENZIO E TEMPESTA – MARCO SAYA EDIZIONI, MILANO 2019

 

Tra le innumerevoli pubblicazioni in italiano dell’opera di Rainer Maria Rilke (Praga 1875-Montreux 1926), l’ultima in ordine di apparizione è un’antologia che propone, con testo a fronte, un centinaio di poesie d’amore tratte da varie raccolte composte tra il 1897 e il 1908. Edito per i tipi milanesi di Marco Saya, il volume Silenzio e tempesta è stato curato e pregevolmente tradotto da Raffaela Fazio. In maniera pregevole, sottolineo, perché i versi di Rilke, già di per sé musicalmente irradianti, vengono resi qui con un’attenzione particolare al suono, e anche perché la traduttrice (poetessa, studiosa di iconografia e di storia delle religioni) riesce a completarne la fascinazione timbrica e semantica attraverso sensibili intuizioni trasformative.

Per fare subito un esempio di questa particolare abilità di Rafaela Fazio, nella prima poesia del libro, dove Rilke scriveva “Komm du mit mir. Es solls kein Morgen wissen” (Vieni con me. Nessun mattino lo deve sapere), la versione proposta suona: “Vieni. Il mattino non avrà sospetto alcuno”. Troppa libertà? Non mi pare. Semmai un’interpretazione emotivamente partecipe che mira a ricreare un’atmosfera di tacita e solidale alleanza tra i due amanti.

Tutte le poesie qui raccolte esalano appunto l’atmosfera di silenzioso, quasi segreto, accordo tra due attese, non comunicabile al resto del mondo, incapace di comprendere la delicata intensità del trasporto che le lega: la traduzione tende proprio ad accentuare il sentimento talvolta addirittura estenuato, tipico della poesia erotica rilkiana. Poeta ossessionato dall’amore, spesso elevato a una spiritualità disincarnata, priva di ogni ansia di possesso e dominio, ma trasfigurante il dato reale in favore dell’invisibile, dell’irraggiungibile, di un’armonia che si serve di indizi e formule terrene per arrivare all’ultraterreno: “La campagna è chiara, il pergolato scuro. / Tu parli piano e un miracolo è imminente. / La mia fede dispone ogni tua parola / come sacra icona sul viottolo silente. // Ti amo. Sulla sdraio del giardino sei distesa; /
dormono in grembo, bianche, le tue mani. / Spola d’argento, la mia vita riposa / in loro potere. Fa’ che il filo si dipani!”, “La mia anima come trattenerla / che la tua non sfiori? Come elevarla, / sopra di te, ad altro?”.

La passione, il tormento che sfibra le anime e i corpi di chi si desidera, sembra in realtà quasi per il poeta un pretesto letterario, nella sua classica e studiata solennità: “Solleviamo silenzio e tempesta / e questi ci formano entrambi. / Tu ‒ come seta il silenzio ci veste. / Io ‒ fatto torre dalle tempeste…”. Ci sono descrizioni fisiche, nelle liriche qui raccolte, ma rare, e talmente sublimate da risultare eteree, immateriali: “Così, se tu venissi, per placarmi / mi basterebbe sfiorare appena / la giovane curva della tua spalla / o il punto dove il seno preme”, “Alle tue labbra non lasciarmi bere: / sulle bocche è la rinuncia che ho bevuto. / Nelle tue braccia non farmi sprofondare: / dalle braccia io non sono trattenuto”, “Dalle tue ascelle ho scacciato grigi serpenti / d’amore. Ora, come su pietre cocenti, / su me riposano, intenti / a digerire grumi di piacere”, “O sorriso, primo sorriso, il nostro. / Era una sola cosa: respirare il profumo dei tigli, / ascoltare la quiete del parco, guardarsi / di colpo negli occhi, stupirsi fino al sorriso”.

Nella postfazione, Massimo Morasso commenta così i versi antologizzati: “una lettura amorosa dei testi d’amore del più amoroso fra i più significativi poeti lirici del ’900 tedesco”, ed esprimendo ammirazione per la versione “rivitalizzante… post-novecentesca” della Fazio, ne loda il tono “umile e concentrato” in grado di re-inventare il linguaggio rilkiano.

Allora, a proposito di questa intraprendenza traduttiva, è interessante segnalare almeno un’altra originale riscrittura della curatrice, audacemente intesa a preservare l’eco di rime e assonanze dell’originale: “Mir ist, als ob ich alles Licht verlöre. / Der Abend naht und heimlich wird das Haus; / ich breite einsam beide Arme aus, / und keiner sagt mir, wo ich hingehöre.” (alla lettera: “Per me è come se perdessi ogni luce. La sera si avvicina e nel segreto sta la casa; io solitario allargo le braccia, e nessuno mi dice a dove appartengo”). Trasposizione risolta in questo modo: “Mi sento come se perdessi ogni luce. / La casa si fa segreta. È quasi sera. / Apro le braccia, solo: dov’è la mia dimora? / Nessuno parla, nessuno me lo dice”. Senz’altro più vicina al gusto dei lettori di oggi.

 

© Riproduzione riservata             «Il Pickwick», 1 dicembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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RIMBAUD

ARTHUR RIMBAUD, SIAMO NEI MESI DELL’AMORE – FELTRINELLI, MILANO 2014 (ebook)

Il più famoso dei “poeti maledetti” francesi, Arthur Rimbaud (Charleville, 1854-Marsiglia, 1891), genio precoce dalla vita sregolatissima, trascorsa girovagando per l’Europa e il Nord Africa, scrisse il Bateau ivre a diciassette anni. Seguirono nel giro di poco tempo altri due capolavori: Une saison en enfer e le Illuminations. Poco più che adolescente, lettore onnivoro e dissacrante di tutta la tradizione poetica francese, incrollabilmente sicuro del suo talento e deciso a conquistare il Parnaso della letteratura, scrisse molte lettere (sfrontate, scorbutiche, presuntuose, imploranti) a diversi poeti e scrittori a lui contemporanei, chiedendo con insistenza attenzione per i suoi versi, reclamando il diritto ad essere letto e pubblicato, dichiarandosi “veggente” della poesia.

“Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia; cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Egli giunge infatti all’ignoto!”

Questa sorta di invasamento totale, questa ubriacatura dei sensi attraverso la visione e la parola poetica viene ribadita in tutte le undici lettere, scritte tra il 1870 e il 1873, pubblicate nella collana digitale Zoom della Feltrinelli, con ricco apparato di note esplicative. Due di esse sono indirizzate all’amante Paul Verlaine, definito l’unico vero poeta tra “milioni di scheletri che, da tempo infinito, hanno accatastato i prodotti del loro guercio intelletto” in pagine tronfie e inutili. A Verlaine – che lo manteneva e, pazzo di gelosia gli sparerà due colpi di pistola nel 1873, finendo per questo in carcere – il ragazzo Arthur, efebico e ossessivo, scriveva: “Merda per me! … Oh, non mi dimenticherai, vero?… Io, ti ho sempre qui … Tuo per tutta la vita … Se non devo più vederti, mi arruolerò nella marina o nell’esercito. Oh, ritorna, ad ogni ora mi rimetto a piangere”. Il grido disperato e rabbioso del giovane Rimbaud non riguardava tuttavia solamente l’esperienza amorosa: era diretto principalmente contro l’immobilismo culturale della società a lui contemporanea, verso la borghesia ottusa e convenzionale, i familiari meschini e ignoranti, e la sua cittadina nelle Ardenne da cui bramava fuggire a qualsiasi costo: “La mia città natale è superlativamente idiota fra tutte le cittadine di provincia”.

Sarcasticamente commentava la produzione letteraria di molti scrittori di successo, (“mestieranti più morti dei fossili”), disprezzati in quanto troppo integrati in un ambiente sociale ammorbato dall’apparenza e dalla falsità; rivendicava il ruolo illuminato di chi scrive versi (“il poeta è un ladro di fuoco”), con il dovere di dare forma all’informe, facendosi carico dell’umanità intera: dei reietti, delle donne, “degli animali addirittura”. E se per arrivare a farsi possedere dall’arte suprema avesse dovuto dissociarsi da se stesso (“Io è un altro”), ubriacarsi di assenzio, mendicare, bestemmiare Dio, fuggire da qualsiasi paese e rifiutare ogni occupazione, ebbene Arthur Rimbaud in queste lettere si dichiarava prontissimo a farlo, con l’arroganza esaltata dei suoi pochi anni: “Siamo nei mesi dell’amore; ho diciassette anni. L’età delle speranze e delle chimere, come suol dirsi. – ed ecco che mi sono messo, fanciullo sfiorato dal dito della Musa, a dire ciò che io credo buono, le speranze, le sensazioni, tutte le cose insomma dei poeti, – è questo che io chiamo primavera. Se dunque le spedisco qualche mio verso, è perché io amo tutti i poeti. Ecco il perché”.

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/Siamo-mesi-amore-Arthur-Rimbaud.html         12 dicembre 2017

 

RECENSIONI

RIMI

MARGHERITA RIMI, NOMI DI COSA-NOMI DI PERSONA – MARSILIO, VENEZIA 2016

L’ ultimo volume di poesie di Margherita Rimi è caratterizzato, secondo il prefatore Amedeo Anelli, da «una dimensione indagante e soprattutto sapienziale, con un forte ancoraggio nei saperi della Medicina e della Neuropsichiatria». E, aggiungerei io, oltre che nell’esperienza professionale e nella vocazione esistenziale dell’autrice, che l’ha condotta a interessarsi dell’infanzia violata e sofferente, è un libro interrogante in diverse altre dimensioni culturali: quella linguistica, in primis (già presente nella scelta del titolo, in cui “nomi” animati e no esibiscono il loro protagonismo) e quella più genericamente sociale.

A partire da quest’ultimo aspetto, è indicativa nella copertina l’intensa e incisiva foto di Letizia Battaglia, che inquadra uno scorcio di miseria siciliana nello sguardo pacatamente accusatorio di una bambina indigente: e alcune sezioni del libro, più allusivamente autobiografiche, riflettono un passato di prepotenza privata e collettiva subita senza possibilità di ribellione e riscatto: «La corsa era intorno al tavolo. Mia madre se ci prendeva / ce le avrebbe suonate di santa ragione. // … Ma mia madre non era violenta. / Noi non sapevamo che cos’era quella infanzia / Non sapevamo che quella era l’infanzia», «E si faceva giorno di notte / e di notte giorno / E gli occhi non bastavano. // E si faceva freddo. Freddo oltre il freddo / senza limite la terra / e senza limite la parola».

Parola che viene interrogata, sviscerata nella sua non-innocenza e non-neutralità: parola sempre di parte e di dominio, che scava una trincea tra chi la sua usare e manipolare e chi la patisce senza mai possederla: «Provano a cancellare la lingua dentro le parole / Stanno chiamando // True self and false self // Come si fa a salvare: le parole dentro le parole», «Sulla verità dei fatti: / non si può commettere parola / nemmeno una parola / nemmeno sulla punta / della lingua», «C’è uno scarto / solo / uno scarto matematico / tra parola e oggetto // qui ne connaît pas son nom / qui ne connaît pas son nombre», «Nella testa si gonfiano le cose / non si trovano i concetti», «Quella parola / basta che lo chiami / che ogni tanto lo chiami // che così ogni tanto può esistere», «Chi conzanu sti paroli / ch’aggiustanu // Chi scrivinu / chi scancellanu // Passanu / e spassanu // Parlani e nun parlanu cchiù».

Margherita Rimi sa usare le parole, le viviseziona e le prende in giro (esemplare a questo proposito Il poemetto della punteggiatura, che in tonalità ereditate da un giocoso Rodari esibisce una rilettura grammaticale e ortografica della scrittura). Le utilizza in un plurilinguismo provocatorio o nostalgico, in terminologie specialistiche derivate dal vocabolario scientifico.  È il suo mestiere di poeta, a cui si affianca, altrettanto fagocitante e oblativo, quello di neuropsichiatra infantile.

All’infanzia difficile, abusata o malata, sono infatti dedicati i versi più abbaglianti e scolpiti del volume: ai bambini autistici, alle bambine violentate, ai minorenni che delinquono, agli sfruttati, agli analfabeti, ai senza presente e senza futuro. Con un’empatia tutta femminile e materna, e con un’indignazione civile che le deriva dalla frequentazione quotidiana dell’infelicità, Margherita Rumi propone un resoconto poetico dell’interazione tra terapeuta e piccoli pazienti, incapaci di esprimersi se non a monosillabi, disegnando, in giochi simulati, e sempre senza sfumature, in dicotomie severe che indicano il mondo privo di colori in cui sono cresciuti («Come si cresce per diventare grandi?»): «Raccontami una storia / dammi un altro foglio / dammi un altro tempo / Domani un altro posto:», «Io questo: / Sono. Il bambino. Scarabocchio. // Ormai c’è un bambino / si deve dare un nome / Non puoi più cancellare / proviamo a dargli un nome». Nell’offrire il suo sguardo e la sua voce a chi è stato amputato di sguardo e voce, Margherita Rumi trova nuove espressioni linguistiche, intessute di vigore fisico, carnale, e di un’oralità solare, mediterranea, risentita.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Nomi-cosa-persona-Rimi.html                   16 agosto 2016

 

 

 

 

RECENSIONI

RIPA DI MEANA

LUDOVICA RIPA DI MEANA, LA MORTE DI GADDA –  NOTTETEMPO, ROMA 2013

Per un anno e mezzo, dall’autunno 1971 al maggio del 73, Ludovica Ripa di Meana si recò nella casa romana di Carlo Emilio Gadda per preparare una trasmissione televisiva sulla sua opera e sulla sua vita. Man mano che cresceva la confidenza e l’empatia tra i due, il grande scrittore chiedeva alla “signora Meana” (così le si rivolgeva) di leggergli brani dei suoi stessi capolavori, o di classici, dando segni di approvazione, o addirittura commuovendosi fino alle lacrime quando ascoltava i Promessi Sposi. Le poche pagine ora riproposte da Nottetempo sono le conclusive di un diario tenuto dall’autrice in quegli anni, la testimonianza ««di natura rigorosamente privata» di incontri che lei proponeva a Gadda «per consolarlo e rassicurarlo di fronte all’imminenza del buio», come scrive
Andrea Càsoli nella postfazione. Descrizioni quasi devote di un interno domestico, e soprattutto del «processo di mortificazione» di un «remoto prigioniero» a cui l’amica vuole trasmettere «infinito amore» per «staccarlo, con furia, dalla sua desolazione». E con affetto quasi filiale, con pietas rispettosa racconta le umiliazioni di quel grande corpo malato, le sue furie, le sue decadenze e i suoi pudori. Manifestando una sorridente partecipazione, Ludovica Ripa di Meana narra delle schermaglie del genio con la sua vecchia domestica Giuseppina, che lo tratta come «un infante di pochi mesi», lo lava e disinfetta con alcol e acqua di colonia, gli prepara cibi appetitosi e ci litiga furiosamente perché lo considera la sua «criatura». E infine si sofferma sul momento tremendo del trapasso di Gadda, sul respiro faticoso che diventa «un terribile nitrito», e poi la spogliazione, il lavaggio, e il gesto rituale e riconoscente con cui lei gli annoda la cravatta per l’ultima volta: «Finalmente giace l’hidalgo…E’ vestito da prima comunione e ha scarpe nere lucide spropositate»; «Clown desolato, inondato di luce».

 

«Leggendaria» n.103, gennaio 2014

RECENSIONI

RISI

NELO RISI, TUTTE LE POESIE – MONDADORI, MILANO 2020

 

Nelo Risi (Milano 1920-Roma 2015), oltre che poeta fu regista, come il fratello Dino e i nipoti Claudio e Marco. Laureato in medicina, si dedicò alla poesia a partire dal 1941, anno in cui pubblicò la sua prima raccolta, Le opere e i giorni.

All’attività letteraria affiancò presto quella cinematografica, realizzando otto film, vari telefilm e  cortometraggi, inchieste televisive e documentari, tra i quali l’ultimo, uscito nel 2008 col titolo Possibili rapporti, proponeva una conversazione tra lo stesso Risi e Andrea Zanzotto, allora entrambi ultraottantenni. L’operatività pratica con la macchina da presa fu determinante nel dare ai suoi versi un’incidenza visiva più che uditiva, nella ricerca di inquadrature marcate e penetranti. Cimentatosi spesso con la traduzione poetica,  Risi ebbe a occuparsi di molti autori francesi: Pierre Jean Jouve, Jules Laforgue, Guillaume ApollinaireGérard de Nerval Max JacobAndré FrénaudRaymond QueneauHenri Michaux, con testi antologizzati in Compito di francese e altre lingue 1943-1993. L’interesse per la letteratura d’oltralpe va fatto probabilmente risalire al periodo trascorso a Parigi nel dopoguerra (1948-1953).

Il recente volume pubblicato da Mondadori, Tutte le poesie, non solo traccia l’evoluzione dello stile del poeta e l’eclettico arricchimento dei suoi contenuti, ma rappresenta anche una preziosa testimonianza dei cambiamenti (sociali, etici, ideologici) che hanno segnato la storia del nostro paese dagli anni bellici fino al primo decennio del Duemila. “Un documentario sull’epoca acuto e puntuale, ricco e tempestivo”, suggerisce Maurizio Cucchi nell’introduzione, sottolineando la fondamentale caratteristica di questo autore: “Risi ha sempre preferito muovere il proprio sguardo in direzione dell’esterno, catturando così un’infinita serie di immagini utili a leggere il mondo, e praticamente azzerando la presenza di un io lirico”.

Con una scrittura discorsiva e prosastica, ironica ed elegante, nitidamente asciutta, Risi ha affrontato nelle sue raccolte temi civili ed etici, con tonalità che rifuggivano dalla retorica e dal compiaciuto estetismo, dall’evasione, dall’ermetismo o dallo sperimentalismo linguistico, optando invece per un linguaggio appassionato e radicale, a volte addirittura risentito, quando si misurava con argomenti di rilevanza morale e politica (il razzismo, il conformismo culturale, la superficialità dei rapporti umani), limpido e delicato quando trattava di ricordi familiari, amici, donne e città amate.

Già dagli anni Cinquanta i maggiori critici italiani si interessarono alla sua produzione in versi. In un articolo del 1957 sul Corriere della SeraEugenio Montale scrisse che “Risi deve aver imparato, più che dalla poesia, da certa recente pittura francese”. Cesare Garboli, in un intervento del 1958, parlava di “una poesia essenzialmente non metaforica”, definizione ripresa e ampliata da Giovanni Raboni che, nell’introduzione a Poesie scelte 1943-1975 (Oscar Mondadori), sottolineava come nella poesia risiana “il detto prevale sempre e comunque sul non detto, il nero sul bianco, la chiarezza sull’ambiguità, il piano sullo spessore, l’univocità sulla polivalenza”.

Nelo Risi vedeva nella scrittura uno strumento di impegno, soprattutto nelle raccolte degli anni Sessanta-Settanta. “Scrivere è un atto politico” affermava in Dentro la sostanza (1965), convinto che la prima intenzionalità del poeta dovesse essere la chiarezza comunicativa, nella denuncia delle ingiustizie, dei soprusi, dello sfruttamento capitalistico, della malignità gratuita nelle relazioni interpersonali.

Ne sono un esempio queste poesie: Una sola famiglia: “L’operaio ingrassa la macchina / la macchina ingrassa il padrone / entrambi si affacciano a sera / a un balcone che dà sulla fabbrica / la nostra fabbrica dice il padrone / l’operaio preferisce tacere”, Telegiornale: “Stando nel cerchio d’ombra / come selvaggi intorno al fuoco / bonariamente entra in famiglia / qualche immagine di sterminio. // Così ogni sera si teorizza / la violenza della storia”, Sotto i colpi: “C’è gente che ci passa la vita / che smania di ferire: / dov’è il tallone gridano dov’è il tallone, / quasi con metodo / sordi applicati caparbi. // Sapessero / che disarmato è il cuore / dove più la corazza è alta / tutta borchie e lastre, e come sotto / è tenero l’istrice”.

La partecipazione emotiva, lo sdegno nei riguardi della sopraffazione e dei pregiudizi razziali, rimase costante anche nelle ultime raccolte. Ad esempio, in Neri: “Impediti di esprimersi al meglio / li vorremmo a sudare per noi / in lavori di accatto // E che delimitino i loro spazi / tanti spruzzi di orina / sul territorio // Soffocati sul nascere / un nido coperto da un panno”.

“Il poeta deve muovere coi piedi ben saldi nella realtà… La poesia è un grido che appartiene all’artista come alle vittime, in questo senso è sociale e appartiene a tutti”, scriveva dando una definizione del suo ruolo, perseguito con severa e integra semplicità, nella scia dell’illuminismo lombardo di Parini, di Porta, del Manzoni della Storia della colonna infame, citata in una sezione di Dentro la sostanza (1965). Amava pertanto utilizzare materiali linguistici presi in prestito dalla terminologia tecnica, burocratica, giornalistica, proprio nella volontà di mantenere saldo il rapporto con l’esistenza quotidiana, domestica e lavorativa, di tutti.

Nei primi trent’anni della sua produzione si alternavano modalità espressive cantilenanti e popolari (come nella famosa I meli i meli i meli: “Quell’albero che mi sorprese / con i suoi rami gonfi / quanti corvi sul ramo più alto // Quel toro che si accese / per una macchia scura al mercato / quanto sangue versato alle frontiere // Quella ragazza in tuta che s’intese // prima con i francesi e i polacchi // quanti vantaggi il suo corpo tra le braccia // Quel soldato che mi chiese // la via breve oltre Sempione // quanta ansia in uno sguardo”), a una sentenziosità epigrafica, ammonitrice, spesso sarcastica (esemplarmente caustiche e beffarde sono le poesie di Sviluppo psicomotorio della primissima infanzia di un capo).

Nella maturità furono invece i temi e gli argomenti privati a prevalere, attraverso accenti più inteneriti e malinconici, e lo scandaglio dell’analisi psicanalitica. Tutta la sezione Suite a ritroso ripercorre episodi, dolorosi o divertenti, vissuti nell’infanzia. Particolari sono poi i versi, commossi e grati, dedicati alla moglie Edith Bruck, scrittrice ungherese di origine ebraica, reduce dai campi di concentramento. Vali più tu: “Vali più tu / coi tuoi piedini piatti d’orsacchiotta / coi tuoi occhi asimmetrici / col tuo codino d’anatroccola che alzo / quando bacio la tua nuca / vali più tu con tutti i tuoi malanni / i tuoi veri spaventi immaginari / con la tua contezza appresa dalla vita / (e non ti fu mai tenera!) / vali più tu indifesa di me che mi difendo / vale più un tuo sfogo del mio stare zitto / vale più un tuo sogno di una mia conquista / vale più un tuo sabath di una mia domenica / vale più la tua fame del mio appetito / vale più un tuo detto di un mio verso / vale più un tuo accento sghembo di una mia rima / vale più la tua mente fresca della mia mente libresca / vali più tu che canti la tua Tosca / vali anche più tu con me vicino”.

E ancora, in Madrigale, l’amore tra un uomo e una donna viene considerato consolazione e medicamento per le ferite della vita: Ho fatto un pieno di versi / per la traversata dei deserti / dell’amore, là dove il viaggiare / più comporta dei rischi, dove / occorre tenere gli occhi bene aperti / perché non sempre regge il cuore. // A malapena si conserva un viso / se il tempo ingoia il resto; / con un ritratto appeso non si va / molto lontano, a meno che un sorriso / una figura non venga a divorarti / con dolcezza, un modo ancora / per stare con la vita”.

Dagli anni ’90 in poi, lo stile poetico di Nelo Risi conobbe un’accelerazione formale verso stilemi più condensati e frementi, con frequenti inserti prosastici e un gergo più decisamente colloquiale, anche nell’affrontare argomenti di rilevanza culturale o scientifica, a cui dava (da “stilista dell’universale”, secondo la definizione di Giovanna Ioli) il rilievo poeticamente adeguato: “In questa fine di millennio, nel caos dei linguaggi telematici e dei manierismi tardosperimentali, nella vacuità delle pratiche individuali e dei progetti neoavanguardistici dove sta la poesia? La poesia sta dove la lingua vive”.

Così in Alea: “una serie d’eventi sfortunati (per es. / l’uso del latino o della storia senza / apprendistato) uno sbaglio di opinioni? / lo si dovrà pur rimediare, l’oggi / non è più un domani / La strada è polverosa la luce vaga / anche il tramonto è in fuga e la notte / una pietra levigata che non sia il momento / dell’antico fiume il nostro rubicone? / un ruscello e sembra un mare puro azzardo / che una volta sola è dato attraversare / un VADO O RESTO un tagliar corto / senza un amico cui consultarsi / solo con te stesso tu conosci / alternative un esito diverso?”, e in Origine vertigine: “Voce delle cose / delle onde delle piante brusii sommessi / frammenti in quel silenzio / così la musica tra due silenzi / un primo fondamento ha il seme / che dall’origine ci appartiene / è LA PAROLA un corpo fatto / della stessa carne dell’uomo / e del mondo capogiro in movimento / una vertigine dall’invisibile / al visibile che affiora”.

Alfredo Giuliani definì Risi poeta “discontinuo e ricco di sfumature”, dotato di “perentorietà tagliente anche nel contraddirsi”. La sua mai diluita bruschezza, la sua manifesta petrosità, ne hanno fatto “un impareggiabile testimone critico del secondo Novecento”, come scrive Maurizio Cucchi presentando questa fondamentale antologia.

 

© Riproduzione riservata                     «Il Pickwick», 2 giugno 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

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RECENSIONI

RITSOS

GHIANNIS RITSOS, PIETRE RIPETIZIONI SBARRE – CROCETTI, MILANO 2020

Di Ghiannis Ritsos è stato ristampato dall’editore Nicola Crocetti (suo traduttore, grande estimatore e amico), il volume di versi Pietre ripetizioni sbarre, che raccoglie un centinaio di composizioni scritte tra il 1968 e il ’69, anni in cui il poeta viveva confinato dal regime dei colonnelli nei campi di concentramento di Ghiaros e Leros, e poi agli arresti domiciliari a Karlòvasi, sull’isola di Samo. Edite per la prima volta a Parigi nel 1969 con una commossa prefazione di Louis Aragon, furono introdotte clandestinamente in Grecia solo due anni dopo, censurate dal potere militare perché ritenute pericolose e sovversive. Anche quando non esplicitamente, quei versi alludono tuttavia (nell’ossessività di visioni plumbee e angosciose), al peso della dittatura, invitando alla ribellione e al coraggioso recupero del mito classico nel suo richiamo alla resistenza e alla libertà.

Ghiannis Ritsos (1909-1990) è considerato uno dei più grandi poeti greci del ventesimo secolo, insieme a Konstantinos KavafisGiorgos SeferisOdysseas Elytīs. Scrittore particolarmente prolifico, fu autore di circa 150 raccolte poetiche, oggi ristampate in quattordici volumi dall’editore ateniese Kedros. Proposto per nove volte, senza successo, al Premio Nobel per la Letteratura, vinse invece il Premio Lenin per la pace nel 1976, onorificenza da lui ritenuta più gratificante perché riconosceva la sua dichiarata e convinta adesione all’ideale marxista e al partito comunista greco (KKE).

Nato nel Peloponneso da una famiglia di proprietari terrieri, Ritsos ebbe un’infanzia e una giovinezza segnata da lutti e malattie: il fratello e la madre morirono di tubercolosi, mentre la sorella e il padre (affetto da una grave forma di ludopatia, che costò alla famiglia la rovina economica) finirono ricoverati in un istituto psichiatrico. Costretto ad abbandonare gli studi universitari ad Atene, svolse diversi lavori per mantenersi (dattilografo, copista, comparsa teatrale, ballerino), continuando negli anni ad alimentare la sua passione per la poesia e l’impegno politico.

Pietre ripetizioni sbarre è un volume diviso in tre parti corrispondenti alle tre scansioni del titolo. Pietre, nel suo rimandare alla dura scabrosità delle rocce di Leros, metafora della realtà aspramente ostile di un ambiente degradato, restituisce un’atmosfera da incubo, piombata in un silenzio lacerato da urla di ribellione, e abitata da figure minacciose. Questa sezione è quella in cui più concretamente si avverte l’incombere del potere tirannico da un lato e l’impotenza dell’individuo esiliato dal mondo circostante (Con queste pietre: “Non restarono che le pietre. Dobbiamo arrangiarci con queste, adesso; / con queste, con queste, – ripete. Quando la notte scende / dall’alto sul monte livido e getta nel pozzo le nostre chiavi, / mie pietre, mie pietre, – dice – potessi scolpire uno per uno i miei volti sconosciuti e il mio corpo”).

Ripetizioni consiste in un sofferto ritorno al mito e alla tradizione dell’antica cultura greca, in una rilettura del passato fattosi strumento di interpretazione e comprensione della contemporaneità: Achille Ercole Penelope Apollo parlano attraverso Ritsos parole ribattezzate dalla sofferenza patita nel presente (Talo: “Ripetizioni – dice, – ripetizioni senza fine; – che stanchezza mio Dio; / tutto il mutamento è solo nelle sfumature – Giasone, Odisseo, Colchide, Troia, / Minotauro, Talo, – e proprio in queste sfumature / tutto l’inganno e la bellezza a un tempo – opera nostra”).

Infine la sezione conclusiva, Sbarre, raccoglie le poesie più pregne della realtà da cui nascono; poesie di prigione, che narrano perquisizioni, isolamento, celle, torture, morti, evasioni senza ricorrere a simbologie o a metafore, (L’ultimo obolo: “Ore difficili, difficili per il nostro Paese. E lui, fiero, / nudo, indifeso, debole, lasciò che lo aiutassero; / hanno fatto ipoteche su di lui; accampano diritti, esigono; / parlano in sua vece; gli impongono il respiro, il passo; / gli fanno l’elemosina; lo rivestono con altri abiti troppo larghi e cadenti, gli legano una cima ai fianchi”; Necessariamente: “Caduto lì, bocconi; il mento nella terra; il collo / serrato tra i ginocchi dell’altro; – quasi cianotico; le vene gonfie sulle tempie. Immobile. / Un movimento; – l’estremo spasmo? Chiudi gli occhi. No, no”).

Il destino del prigioniero, la sua nostalgia di un esterno negato, lo stupore per la persecuzione ingiusta e crudele animano i versi di una delle composizioni più intense del volume, Il crocevia: “Molte volte devia, ingannato di nuovo / da lunghe colonne al sole e dalle loro ombre lunghe il doppio, / da vele triangolari sul mare, ingrandite / nell’infinita trasparenza. E, d’improvviso, il botto / di una briciola che cade sul pavimento o lo spago / appeso alle sbarre d’una finestra, / che stride impercettibilmente,  ̶  un fraterno preavviso / perché rientri per tempo. Guarda intorno stupito, / si guarda le unghie, sbatte le ciglia, tenta di ricordare, / di capire se era stato ingannato allora o adesso”.

Rimane comunque, inalterata e immutabile, la speranza di un futuro luminoso, in cui torni a trionfare “Immensa, estatica orfanezza – libertà”, nel recupero di una tranquillità quotidiana fatta di piccoli gesti familiari, e di una rifioritura augurale dell’habitat intorno. Rinascita: “Da anni più nessuno si è occupato del giardino. Eppure / quest’anno – maggio, giugno – è rifiorito da solo, / è divampato tutto fino all’inferriata, – mille rose, / mille garofani, mille gerani, mille piselli odorosi – / viola, arancione, verde, rosso e giallo, / colori – colori-ali; – tanto che la donna uscì di nuovo / a dare l’acqua col suo vecchio innaffiatoio – di nuovo bella, / serena, con una convinzione indefinibile”.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 9 OTTOBRE 2020

 

 

RECENSIONI

RITSOS

LE PIÙ BELLE POESIE DI GHIANNIS RITSOS – CROCETTI, MILANO 2024

A cura di Nicola Crocetti sono uscite, presso le edizioni omonime, Le più belle poesie di Ghiannis Ritsos. Ritsos (Monemvasìa 1909 – Atene 1990) ebbe una vita segnata da lutti, malattie e miseria, ma animata da un’incrollabile fede negli ideali marxisti e nelle virtù catartiche della poesia, centrata su temi quali la memoria, la bellezza della natura, l’importanza delle opere umane, la rivoluzione etica e sociale. Per aver partecipato alla lotta di resistenza contro i nazisti e poi alla guerra civile, subì le persecuzioni dei governi dittatoriali e reazionari succedutisi in Grecia tra il 1936 e il 1970, trascorrendo dieci anni in carcere, al confino o nei campi di prigionia delle isole-lager di Makrònissos, Ghiaros, Aghios-Efstratios, Ikarià, Leros.

Oltre alla pubblicazione di 150 raccolte di poesie (l’opera completa in 10 volumi è stata pubblicata tra il 1961 e il 1989), compose testi drammatici e romanzi, traducendo in greco molti poeti stranieri.

Il volume di cui ci occupiamo, accompagnato da una minuziosa introduzione biobibliografia curata da Crocetti (massimo ed entusiasta diffusore dell’opera di Ritsos, nel duplice ruolo di traduttore ed editore), consta di una cinquantina di liriche scelte tra le sue più note e meritatamente celebrate. A partire da Epitaffio, del 1936, compianto di una madre per il figlio ucciso dalla polizia durante uno sciopero, scritto in decapentasillabi rimati (“Chi è che me l’ha preso? Chi me lo può strappare? / Le labbra, gli occhi chiusi cominciano a sbiancare. // Datemi artigli e ali, aquile, ch’io li insegua, / quei cuori, e come mandorle li roda senza tregua”). Numerosi furono i testi sulla resistenza, che celebravano l’eroismo dei combattenti per la libertà: “Poi fecero ritorno feriti e congelati, / nascosero i fucili tra le rocce innevate, nelle cavità degli alberi, / nella paglia, fra il tetto e il soffitto, nel buio ripostiglio / che dà sul retro della notte con una piccola lucerna di pazienza” (1942).

Ritsos nutriva un’attenzione partecipe verso il mondo rurale, in cui era nato e cresciuto, per la natura e per il lavoro agricolo e artigianale, come dimostrano questi versi: “Dietro cose semplici mi nascondo, perché mi troviate; / se non mi trovate, troverete le cose, / toccherete ciò che ha toccato la mia mano, / s’incontreranno le impronte delle nostre mani” (Il senso della semplicità,1946); “Le galline piluccavano ancora per la strada. / La vecchia moglie del capitano sedeva sulla soglia / tenendo il nipotino sulle ginocchia aperte. / Un ragazzo trasportava un paniere” (Pomeridiano,1963).

Sono tuttavia presenti anche composizioni dedicate alle molte città visitate, tra cui Milano e Venezia, e altre destinate a figure femminili: per una giovane donna francese scrisse la raccolta Erotica, pubblicata nel 1981 in prima mondiale in Italia. Questa disposizione sentimentale, e il fascino attribuito alle presenze femminili, erano stati testimoniati da molta produzione precedente, come nel famoso poemetto di impianto simbolista Sonata al chiaro di luna del 1956, lungo monologo in cui una donna canta il suo dolore e il suo amore in toni elegiaci intensamente sensuali: “Lasciami venire con te. // Lo so che ormai si è fatto tardi. Lasciami, / poiché per tanti anni, giorni e notti / e meriggi purpurei, sono rimasta sola, / irriducibile, immacolata e sola”.

Sempre nella misura del monologo, il poeta aveva scritto numerosi poemetti dedicati a personaggi mitologici o della storia classica, assunti a prototipo dell’umanità sofferente: Orfeo, Oreste, Elena, Penelope, Ercole, narrando orgogliosamente episodi eroici del glorioso passato ellenico.

Nicola Crocetti, amico personale e grande estimatore di Ghiannis Ritsos, così conclude il proprio commento introduttivo: “La sua smisurata produzione, essenzialmente di natura lirica, è un’appassionata affermazione di speranza, un ardente atto di fede nel potere di riscatto e di immortalità della poesia”.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net                  14 maggio 2024

RECENSIONI

RITZER

GEORGE RITZER, LA McDONALDIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE

CASTELVECCHI, ROMA 2017

 

George Ritzer (New York 1940) è un sociologo statunitense di fama, autore di numerosi saggi sulla nuova economia capitalistica, sui modelli di consumo, sul postmodernismo. A lui dobbiamo il concetto di McDonaldizzazione, termine utilizzato spesso come sinonimo di globalizzazione. La sua teoria prende spunto dalla politica del lavoro messa in atto dalla società di fast food McDonald’s in ben 120 nazioni, con 35.000 ristoranti sparsi nel mondo: strategia che punta a realizzare ristoranti economici concepiti come catene di montaggio, facilmente esportabili in luoghi diversi e lontani. La McDonaldizzazione si è rivelata un processo profondo di cambiamento globale, basato su un modello che sostituisce tecnologia non-umana a quella umana, per ridurre l’intervento del personale al minimo, favorendo così un monitoraggio costante dell’attività dei dipendenti e una riduzione dei costi.

In questo pamphlet pubblicato da Castelvecchi, George Ritzer fa rientrare la McDonaldizzazione in un processo più vasto di “americanizzazione”, inteso come diffusione planetaria di idee, comportamenti, modelli sociali, industrie e capitali americani. Americanizzazione e McDonaldizzazione appaiono allora come tattiche capitalistiche, finalizzate a conseguire sia una crescente redditività per le aziende, sia l’espansione ideologica e l’egemonia politica per lo stato. Il McDonald’s (come i grandi centri commerciali, i villaggi turistici, i parchi di divertimento) diventa luogo di aggregazione fittizia per migliaia di consumatori, indotti a spendere e ad acquistare prodotti spesso nocivi o inutili, privandoli della possibilità di socializzare concretamente con gli altri, o di usare in modo più creativo il loro tempo libero. Efficienza, calcolabilità, prevedibilità, controllo e razionalità sono le cinque regole fondamentali che Ritzer attribuisce alla strategia produttiva dei McDonald’s, esemplificandole in concetti-chiave che mettono in luce gli effetti negativi di questo sistema industrializzato dell’alimentazione. Esso comporta la produzione di cibo poco controllato e di scarsa qualità, altamente calorico; una omologazione del gusto nell’arredamento e nell’abbigliamento del personale, volgarmente spersonalizzante; l’impoverimento dell’interazione verbale con i clienti e tra i clienti stessi; l’automazione del processo di cottura e la velocità del servizio per incrementare il profitto; l’allevamento in batteria di polli e mucche per soddisfare la richiesta di materie prime; l’inquinamento ambientale; la sparizione delle piccole imprese locali.

«In conclusione, l’intero sistema è disumanizzante. Lo è lavorare in un fast food, perché si è costretti a seguire un copione stabilito da altri e non ci si può esprimere liberamente, e lo è mangiarvi, perché non ci si può godere in pace il proprio pasto, ma bisogna ingurgitare il cibo in pochi minuti o, peggio ancora, farlo nella propria automobile».

In questa programmata omogeneizzazione globale, diventiamo tutti, secondo George Ritzer, “prosumers”, cioè insieme produttori e consumatori, poiché sia pranzando da Mc Donald’s, sia acquistando da Amazon, sia prelevando da un bancomat ci rendiamo agenti attivi e passivi del processo economico: «svolgiamo infatti a titolo gratuito un lavoro di cui prima era incaricato un dipendente» (cameriere, commesso, bancario). Sfruttiamo e siamo sfruttati in un mondo post-umano, post-sociale, prono ai grandi interessi delle multinazionali.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/McDonalizzazione-produzione-Ritzer.html      12 settembre 2017