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RECENSIONI

BAJANI

ANDREA BAJANI, PROMEMORIA – EINAUDI, TORINO 2017

Andrea Bajani (Roma, 1975), pluripremiato scrittore nonché traduttore, giornalista, critico letterario, si cimenta per la prima volta in una pubblicazione poetica con Promemoria, smilzo libriccino uscito nella collana bianca di Einaudi. Lo fa proponendo poesie limitate a pochi versi, da un numero di quattro fino alla dozzina, prosastici o cantilenanti, ironici o angosciati, a scandire il susseguirsi giornaliero delle attività domestiche e lavorative, o l’alternarsi delle emozioni e dei sentimenti: dai più scontati agli imprevedibili. Mansioni quotidiane da espletare, con noia oppure con rigoroso senso del dovere, sorridendo o imprecando, in un minuzioso elenco di verbi all’infinito che aprono la maggior parte delle composizioni: Richiamare, Restituire, Prendere, Imparare, Ricordarsi, Aspettare, Andare, Cercare, Continuare… Esortazioni che l’autore rivolge a se stesso, quasi fossero un incoraggiamento ad affrontare la giornata particolare e l’esistenza in generale senza lasciarsi sopraffare dall’angoscia, dalla distrazione, dall’insofferenza. Nelle piccole incombenze casalinghe: “Cambiare la lampadina alla madonna / con bambino fulminata sulle scale. / Scendere in cantina per verificare / se scatta il numerino al contatore. / Tornare su a controllare se funziona. / Se ancora non si accende bestemmiare”. Nelle questioni sentimentali: “Prendere una pillola ogni sera / per dormire. Trasformare / la disperazione in infelicità. / Scegliere quale preferire. / La dottoressa riceve il giovedì”; “Farsi consegnare da una donna la parola / amore riparata. Non dimenticarla accesa / non guardarla fissa non farla fulminare. / Ogni quattro anni un controllo generale. / Se si rompe ancora contattare un cane”. Negli impegni sociali: “Arrivare ultimi per disperazione. / Dopo la disfatta rifiatare. Vestirsi / bene per andare a ritirare il primo / premio di consolazione: un plotone / d’esecuzione di bolle di sapone”; “Scorrere tutte le foto con le dita. / Lasciare che sfili lenta la parata / di sorrisi a falcata regolare. / Aspettare la banda musicale / salutare majorette e musicisti. / Dimenticare quanto si era tristi”.

Ironia e autoironia, nei versi di Bajani: l’amara constatazione dei fallimenti propri e altrui, la non adesione dei progetti ai risultati, il perpetuo perdere e perdersi nello stillicidio di giorni, incontri, convenevoli e vano affaccendarsi. La maschera da indossare ‒ pena una qualsivoglia condanna o esclusione ‒, trova una sottolineatura stilistica nell’uso reiterato, quasi parodistico della rima, tipico delle filastrocche, degli strambotti, dei canti carnascialeschi. C’è sarcasmo ma c’è anche dolore, non appena si affrontano i ricordi e le figure più care dell’infanzia, nel rimpianto di un’ingenuità tradita, di un’attesa delusa. Per cui se il frequente aculeus finale può sterzare nel sogghigno, onde evitare qualsiasi retorica o commozione, sa anche trattenersi quando valuta intellettualmente l’arcana responsabilità della parola, il suo segreto incanto: “Curare una parola che sta male. / Se zoppica fasciare la zampetta. / Non avere fretta di farla volare. / E nell’attesa darle da mangiare”; “Far figliare le parole, portarle / in giro al momento del calore. / Farle montare per strada / guaire e poi tornare a casa. / Vederle gonfiare giorno dopo / giorno. Aspettare la nidiata”; “Non partire senza lasciare una / sporta di parole per chi resta. / Dire ‘questa è per la mattina / quest’altra invece per la sera’. / Lasciare una sporta a parte / per chi la notte nel buio si dispera”.

 

© Riproduzione riservata        «Il Pickwick», 10 novembre 2017

 

 

 

RECENSIONI

BALDINI

RAFFAELLO BALDINI, PICCOLA ANTOLOGIA IN LINGUA ITALIANA – QUODLIBET, MACERATA 2018

Raffaello Baldini (1924-2005) è stato un ottimo e fecondo poeta; ha pubblicato diverse raccolte di versi, quasi esclusivamente in romagnolo, e alcuni monologhi teatrali. La casa editrice marchigiana Quodlibet gli ha dedicato una Piccola antologia in italiano, di testi che lui stesso aveva tradotto dal suo dialetto, auspicando così una maggiore fruibilità da parte del pubblico. Il volume, curato da Ermanno Cavazzoni e Daniele Benati, è corredato da un intervento critico di quest’ultimo, e da un’intervista inedita del 3 ottobre 2000. Proprio partendo dall’intervista, possiamo delineare gli snodi fondamentali della vita e della produzione letteraria di Baldini, iniziata tardivamente, verso i cinquant’anni, e dopo il trasferimento a Milano come redattore della rivista Panorama.

Quindi, gli studi filosofici, l‘amicizia con Tonino Guerra, il rapporto intenso con Santarcangelo di Romagna (l’ambiente naturale, gli amici, il bar) e con il dialetto: “Dalle mie parti ci sono ancora cose, paesaggi, persone, storie, che succedono in dialetto. Raccontarle in italiano vorrebbe dire tradurle”, cioè perdere spontaneità, perché in termini militareschi “l’italiano è sull’attenti e il dialetto nella posizione di riposo, in italiano sei in servizio, in dialetto sei in libera uscita”. Certi modi di dire dialettali perdono vigore e spirito se tradotti in italiano, ma la versione nella lingua nazionale è comunque inevitabile se si vuole essere compresi da tutti: e allora deve mantenersi fedele, essere un calco della scrittura originale. Daniele Benati sottolinea due fondamentali caratteri della poesia di Baldini, il suo servirsi di una voce monologante (per lo più, un personaggio solitario recriminante qualcosa: un’ingiustizia, una perdita, un tradimento), e l’attenzione all’immagine. “In questo mondo c’è il tempo di guardarsi dentro e c’è il tempo di guardare fuori”, chiosa il poeta.

Senz’altro l’uso che Baldini fa del dialetto ha un risvolto più emotivo che letterario, nel riscoprire il rapporto vissuto con le persone, di cui utilizza le espressioni quotidiane, gli intercalari ripetuti, le formule linguistiche che hanno un carattere tra il narrativo e il teatrale, e procedono per accumulo, quasi estemporaneamente: “gli impulsi improvvisi a parlare, i deragliamenti delle parole, e l’emozione delle parole in cui si scaricano gli umor; allora c’è sempre qualcuno che parla a ruota libera, e perde il filo del discorso, poi lo ritrova, poi devia di nono ecc. Così alla fine si crea un impianto che è di tipo musicale, un gioco continuo di tema e variazioni”, scrive Benati.

Ecco dunque alcuni di questi versi, che rendono coralmente il carattere di un paese, ritrovabile in molte delle nostre comunità locali, e che invece purtroppo va perdendosi nell’anonimato urbano, impersonale e conformista: “Uno cos’ schifiltoso non l’ho mai visto. /Tutto il giorno era dietro a lavarsi le mani. / Teneva il manico della tazza del caffè / verso l’alto, dritto al naso, / beveva dove non beveva nessuno”, “ma come si fa a non voler ben al mio Adriano, / con quegli occhi che non m’ha mai detto una bugia, / però mica addormentato, / le cose le capisce, fa dei discorsi / che non li faccio nemmeno io che sono suo padre”, “La Renata, quella sera. / Quattro balli di seguito, senza dire niente, le ho preso una mano / e mi è venuta dietro come una bambina”, “Orca, come si sente il treno, cambia il tempo. / Dev’essere un diretto, corre con una rabbia, / pare che insegna qualcuno. / Facesse davvero una burrasca, oggi è stato un caldo”.

Le macchiette del paese  (l’abitudinario che non ama viaggiare, il semianalfabeta che non sa firmare una raccomandata, la maestra anziana che prova a fumare di nascosto, i rumori che si sovrappongono nell’aria .bestemmie, litigi, motori, latrati-, il parroco stufo di confessare, il giocatore di ramino), rinascono in queste poesie, con le loro passioni, le invidie, gli amori che costituiscono il teatro del vivere, nella commedia e nella tragedia. Da Porta, a Belli, a Pascarella, a Trilussa, a Di Giacomo, per arrivare ai grandi poeti dialettali del ’900 (Noventa, Loi, Giotti, Bertolani, Buttitta) fino proprio a Raffaello Baldini, è tutto un mondo colorato che parla, racconta, gesticola, si muove fuori dai binari stereotipati delle convenzioni letterarie, e ci regala atmosfere e sensazioni che rischiano ormai di dileguarsi, di illanguidirsi nell’indifferenza e nel livellamento sociale di oggi.

 

© Riproduzione riservata                

https://www.sololibri.net/Piccola-antologia-in-lingua-italianaBaldini.html         31 ottobre 2018

RECENSIONI

BALDINI

RAFFAELLO BALDINI, AD NÒTA – EINAUDI, TORINO 2021

Nata a Verona da genitori milanesi, sono cresciuta senza dialetto, sentendomi spesso defraudata di qualcosa, nella comunicazione quotidiana con l’esterno, in un Veneto in cui le parlate locali sono ancora veicolo privilegiato di relazione interpersonale. Ma il dialetto non ha solo una funzione di collante sociale e di recupero affettivo della tradizione: conserva infatti una superiorità espressiva e un’originalità di contenuti in grado di opporsi all’omologazione uniformante e inautentica del linguaggio ufficiale. Letterariamente gode in Italia di una tradizione antica e illustre soprattutto per quello che riguarda la poesia. Dagli autori più classicamente autorevoli (Porta, Belli, Pascarella, Trilussa, Di Giacomo, Bovio, Totò, Barbarani, Tessa, Noventa, Giotti, Viviani), per arrivare ai moltissimi attivi dal dopoguerra a oggi (Loi, Giotti, Pasolini, Bertolani, Buttitta, Guerra, Pierro, Marin, Pedretti, Bandini, Zanzotto, De Vita, Calzavara, Giacomini, Franzin, Cecchinel, Sovente, Scataglini…), sono tante e diversificate le abilità espressive lontane dai binari stereotipati della formalità linguistica,  capaci di recuperare abitudini e atmosfere che rischiano altrimenti di illanguidirsi o addirittura di dileguarsi nell’indifferenza culturale e nel livellamento sociale.

Negli ultimi trent’anni, la poesia in dialetto ha conosciuto nel nostro paese una rinascita e uno specifico interesse anche da parte della critica più impegnata, che in passato l’accusava di utilizzare temi retorici o faceti, e di prediligere la descrizione di personaggi ridotti perlopiù a macchiette. Con l’affrontare argomenti etici e di costume, di responsabilità civile e di introspezione personale, è riuscita a riscattarsi dalla nomea di passatismo nostalgico e di folklorismo sentimentale.

Grande poeta, tra quelli che hanno scelto di scrivere nella lingua del loro paese d’origine, è stato senz’altro Raffaello Baldini, nato a Santarcangelo di Romagna nel 1924 e morto a Milano nel 2005. La sua produzione letteraria è iniziata tardivamente, verso i cinquant’anni, quando a Milano lavorava come redattore al settimanale Panorama. In un’intervista dell’ottobre 2000, così spiegava la sua scelta di comporre versi in romagnolo: “Dalle mie parti ci sono ancora cose, paesaggi, persone, storie, che succedono in dialetto. Raccontarle in italiano vorrebbe dire tradurle”, cioè perdere spontaneità, perché in termini militareschi “l’italiano è sull’attenti e il dialetto nella posizione di riposo, in italiano sei in servizio, in dialetto sei in libera uscita”.

Autore di diverse raccolte di poesia e di alcuni testi per il palcoscenico, Baldini ai è imposto all’attenzione nazionale con la pubblicazione da Einaudi di La nàiva-Furistír-Ciacri nel 2000 e di Intercity nel 2003. Oggi, per lo stesso editore, esce Ad nòta, con la prefazione che Pier Vincenzo Mengaldo scrisse nel 1995, quando il volume uscì per la prima volta da Mondadori.

Poeta dialettale “per necessità”, come lo definì appunto Mengaldo, l’uso che Baldini fa della sua lingua ha un fondamento più emotivo che letterario, nella volontà di riscoprire il rapporto vissuto con la comunità di appartenenza, con gli abitanti e l’ambiente naturale e urbanistico in cui essi agiscono. Santarcangelo viene raccontato coralmente, attraverso il parlato informale della gente, reso nella sua quotidianità, fatta di intercalari caratteristici, impulsi umorali, deviazioni irrazionali, formule linguistiche che hanno un carattere tra il narrativo e il teatrale, e procedono per accumulo, quasi estemporaneamente, a ruota libera. Lontani da ogni intellettualismo, i racconti in versi di Baldini sono veri e propri monologhi in cui la voce narrante si esprime con scarsa linearità, in maniera torrentizia o frammentata, ripetendo concetti, interrompendosi, inseguendo un groviglio di pensieri e sentimenti irrazionali, intessuti di spavalderia o rancore, paura o nostalgia.

Chi sono, dunque, questi paesani raccontati con tanta confidente solidarietà, affettuosa sintonia, premurosa comprensione?  Per lo più si tratta di individui defraudati nelle loro aspirazioni e nei loro diritti, che avendo patito umiliazioni, fallimenti e perdite, reclamano un credito dalla vita. Smarriti e sconfitti socialmente, ottengono tuttavia un risarcimento morale proprio per l’inoffensivo candore che li condanna alla marginalità. Così le loro confuse e inconcludenti requisitorie contro i costumi corrotti, le violenze e le ruberie, la ricchezza esibita, la vanità della moda, le chiacchiere giornalistiche e televisive, rivelano un’eticità ingenua e grottesca, provocando nel lettore commozione e istintiva simpatia.

Il giovanotto vissuto che si innamora di un’adolescente immaginandola inesperta, per rimanerne deluso la prima notte di nozze, l’anziano alle prese con i vuoti di memoria, la donna stufa di portare i tacchi bassi, l’impaziente che chiede sempre l’ora ricevendo risposte differenti, il misantropo rinchiuso in cantina, l’incolto che si interroga sul senso della vita e viene deriso da tutti, trovano nella conclusione imprevista del loro confessarsi il colpo d’ala della risata, dello sberleffo, del singhiozzo appena trattenuto, che li rende straordinari interpreti della commedia e della tragedia del vivere. Ognuno esibendo un nome o un soprannome di quelli che non si danno più: Secondo, Gepi. Tugnìn, Siro, Vergiglio, Doriana, Gardo, Micalètt, Nerio, Ivo, Carmen, Miranda, Angelina…

Gli esasperati recitativi in endecasillabi di Raffaello Baldini (con le incalzanti frasi nominali, gli elenchi ellittici, i martellanti punti interrogativi, gli intercalari plebei – porca putèna, ch’u t végna un azidént! –, i rumori sospesi nell’aria: bestemmie, litigi, motori, latrati…) restituiscono oralmente nella loro malinconia e comicità surreale il policromo e appassionato carattere di un intero paese, quale oggi purtroppo va perdendosi nell’anonimato urbano, impersonale e conformista.

Inevitabile e necessaria è la traduzione in italiano del dialetto romagnolo, riportata in calce a ogni composizione, fedelmente ricalcante la scrittura originale. Ma chi volesse appropriarsi dello spirito più genuino della poesia baldiniana, può recuperarlo nei quattro CD-audio del cofanetto Compatto, pubblicato nel 2019 da Off Edizioni, con la cura di Simone Casetta, in cui l’autore legge magistralmente i suoi testi, alcuni dei quali tratti proprio dal volume Ad nòta.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 27 aprile 2021

 

RECENSIONI

BALZANO

MARCO BALZANO, LE PAROLE SONO IMPORTANTI – EINAUDI, TORINO 2019

«Le parole sono importanti!», urlava un arrabbiatissimo Nanni Moretti in Palombella Rossa. E Le parole sono importanti intitola Marco Balzano (romanziere, poeta e insegnante, nato a Milano nel 1978) questo suo ultimo volume edito da Einaudi.

Dopo aver vinto nel 2018 il Premio Bagutta con Resto qui, (intenso racconto civile ambientato in Val Venosta), Balzano ci fa scoprire il fascino del linguaggio che usiamo quotidianamente, spesso senza accorgerci di quanto sia carico di storia e di significati molteplici ‒ colpevolmente ignorati o trascurati, nell’uso limitativo e impoverente di una terminologia sempre più abusata. Attraverso il recupero del senso nascosto di una parola, possiamo arrivare a “padroneggiare la lingua nella sua storicità”, creare metafore e similitudini, confrontarci con altri linguaggi (verbali o visivi), scoprire relazioni con luoghi lontani, evitare l’appiattimento e la semplificazione del nostro modo di esprimerci, renderci più attenti a un utilizzo rispettoso del parlato, inteso come strumento etico di vicinanza a chi è altro da noi. A questo serve lo studio dell’etimologia, a individuare l’origine dei vocaboli che adoperiamo distrattamente, chiarendocene l’uso improprio, mistificante, superficiale: “chi parla bene, pensa bene”, e viceversa. Sarebbe opportuno che la scuola dedicasse maggiore spazio a questa disciplina, antica e dimenticata, e non solo nelle materie letterarie: «Quando ci raccontano un’etimologia, qualcuno ci svela cosa c’è dentro la parola e da semplice referente la trasforma in un mondo da esplorare, un mondo pieno di elementi che erano sotto i nostri occhi ma che non avevamo mai notato».

Balzano propone in questo volume dieci scavi etimologici per altrettante parole comuni, che tutti noi pronunciamo abitualmente e senza soffermarci sul loro significato intrinseco: alcuni di questi termini appartengono con più diritto di altri alla vita professionale dell’autore (scuola, social, parola), ma in maggior quantità sono da ritenersi di pubblico e inflazionato dominio.uando ci raccontano un’etimolgi Da ogni termine preso in esame si diffondono a raggiera altri vocaboli ad esso contigui per somiglianza od opposizione, ampliando così la ricerca delle sue origini e dei suoi sviluppi, talvolta imprevedibili e curiosi; l’analisi viene poi suffragata da citazioni testuali di filosofi (Aristotele, Kant, Rousseau, Bergson, Levinas, Gadamer…) o di scrittori celebri (Dante, Leopardi, Montale, Borges, Pasolini, Rushdie…).

Molte etimologie di parole comuni suscitano curiosità o addirittura sconcerto: ribelle da re-bellis (colui che ritorna a fare la guerra), tradire da tràdere (abbandonare qualcuno, consegnarlo altrove), sicuro da sine-cura (senza preoccupazione), desiderio da de-sidus (mancanza della stella), ricordo da re-cor (ritorno al cuore), divertire da de-verto (allontanarsi): Marco Balzano elenca numerosi vocaboli, in una catena che si inanella quasi autonomamente, per spontanea associazione mentale. Forse l’accezione più inattesa è svelata dalla parola “felicità”, cui l’autore attribuisce un valore culturale da manuale di antropologia. Felix infatti «ha la stessa radice di fecundus ed è un termine riferito alla capacità di generare»: è un aggettivo legato alla fertilità, spesso associato agli alberi da frutto. Si tratta di «una parola seminale… che evoca la creazione e il nutrimento, … con un campo semantico non solo femminile, ma più precisamente materno. La felicità è donna e madre»: ben aldilà della funzione puramente edonistica oggi prevalente, nasconde in sé il senso profondo di cura altruistica e di dono.

 

© Riproduzione riservata     

https://www.sololibri.net/Le-parole-sono-importanti-Balzano.html         5 marzo 2019

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BANDINI

FERNANDO BANDINI, TUTTE LE POESIE – MONDADORI, MILANO 2018

Fernando Bandini (Vicenza, 1931-2013) poeta, scrittore e docente di stilistica e metrica all’Università di Padova, compose versi in italiano, latino e dialetto vicentino, e fu egregio traduttore di classici. Mondadori giustamente pubblica ora Tutte le poesie, a cura di Rodolfo Zucco, con introduzione di Gian Luigi Beccaria e un saggio biografico di Lorenzo Renzi. Il volume ripropone, nelle sue 700 pagine, non solo le raccolte minori (a partire da Memoria del futuro del 1969 fino a Un altro inverno del 2012), ma anche poesie disperse, una scelta di traduzioni e di testi in latino, con un ricchissimo apparato di note e una dettagliata bibliografia.

Partendo proprio dall’affettuoso contributo di Lorenzo Renzi sulla vita dell’autore, veniamo a sapere della sua nascita – primogenito di quattro figli – in una famiglia modesta, della perdita precoce del padre, degli studi prima in un collegio religioso, quindi all’università patavina, allievo di Gianfranco Folena. Maestro per sedici anni in varie sedi della provincia vicentina, nel 1972 iniziò la carriera universitaria. Non lasciò mai Vicenza, pur vivendo con la città un rapporto ambivalente, «di odio verso l’ambiente provinciale e retrivo», e insieme di affetto e identificazione. Ad Aznèciv (come la chiamava spesso nelle sue composizioni, trasfigurandola ironicamente con un palindromo) frequentava intellettuali famosi come Piovene, Parise e l’editore Neri Pozza, che fu il primo a pubblicarlo nel 1962, animando in loro compagnia circoli culturali e associazioni politiche. Da un’iniziale vicinanza al cattolicesimo progressista, passò con la maturità a un impegno laico e socialista, nel costante richiamo di integrità e resistenza rispetto a una contemporaneità imbarbarita e disumanizzante. Renzi si sofferma anche sul carattere dell’uomo, semplice e signorile, dotato di humor, rasserenante nel suo eloquio dolcemente segnato dalla cadenza veneta.

La poesia di Fernando Bandini, sebbene non abbia goduto del riconoscimento e del successo pubblico che meritava, sia a causa della sua atipicità e del severo virtuosismo formale, sia per il profilo discreto e riservato della persona, ebbe molti estimatori tra letterati e critici: Zanzotto e Raboni, in primis, e poi i più giovani allievi e seguaci Paolo Lanaro e Rodolfo Zucco. Andrea Zanzotto lo definì: «poeta eccezionale tra pacatezza e meditazione», e Giovanni Raboni commentò con ammirazione la sua «poesia percorsa da una sottile mobilità e inquietudine», e il suo «parlare sommesso e ragionativo». Dello stile di Bandini si occupa specificamente l’introduzione di Gian Luigi Beccaria, che evidenzia «la limpidità della lingua… la sensibilità e la perizia metrica… la piena sostanza sintattica… una medietà e colloquialità simulata» praticate da questo poeta che si muoveva «fuori da scuole o gruppi», consapevole però del valore di tutta la tradizione letteraria italiana, e contiguo agli esiti di Giudici e Raboni, piuttosto che alle dissacrazioni, agli ermetismi e ai tecnicismi delle avanguardie. In relazione ai contenuti della sua scrittura, Beccaria sottolinea l’«appartata / tenerezza», affettuosamente complice, con cui Bandini guardava agli affetti familiari e alla quotidianità domestica, alle presenze animali e vegetali della natura, alla «farragine di tetti» della sua piccola Aznèciv («questa città dove all’alba / riconosco alla voce ogni campana», «questa città / indotta e bigotta»). Un mondo che amava raccontare anche in dialetto ‒ lingua “subliminale”, che scava nei meandri mentali ‒, rievocando e ricostruendo una storia personale e collettiva, piena di sogni e di incubi: «Dove le càtito, ciò! le parole / che ghi n’è sempre manco? / Le cato te le spassaúre / che i descarga de sfròso in meso ai prà». Dal microcosmo locale, Bandini riusciva poi ad innalzarsi fino alle quote eccelse di un’osservazione stupefatta dell’universo: «oltre i confini dei miei occhi verso / regioni dove non arriverò mai».

La cifra più evidente della sua poesia rimane comunque quella della memoria, della nostalgia per l’infanzia e la giovinezza, soprattutto a partire dalle ultime raccolte di versi, là dove impegno e indignazione civile, pur rimanendo intuibili in una sorta di risentimento ideologico, cedono il passo alla consolazione del ricordo, allo struggimento per il perduto: «Voi dove siete andate, / care voci alloglotte / che una volta sentivo / parlare dalla cavità dei muri?», «O primavera celeste / dei miei quattordici anni, / fughe, proiettili, fiori», «A vent’anni sognavo allori. / Dio, che sciocchezza! / Ebbro del fumo della mia sigaretta / andavo incontro ai galli / che cantavano sulla collina, / vedendomi famoso», «I gatti che ho amato / adesso dove sono, in che tranquillo Eliso / o miagolante Averno?», «I miei compagni morti, franati nell’Eterno / sotto le bombe come / ora evocarne il nome, come piangerli?». Orgogliosamente il poeta difendeva la sua scelta di far rivivere nei versi il tempo trascorso: «Non si tratta di ritrovare il passato né di guardare il passato con lo sguardo degli eruditi o con l’atteggiamento dei conservatori. Ma solo di ricordare che il futuro è anche memoria».

Vorrei infine accennare, per quello che può essere consentito nell’ambito di una semplice recensione, all’attività di traduttore e di autore in latino di Bandini, che così si esprimeva al riguardo: «Dialetto e latino sono lingue-rifugio, camminamenti di talpa scavati sotto la terra per vedere le parole dalla parte della radice». Riferendosi alla prima delle due specifiche competenze, con fierezza ribadiva: «Tradurre una poesia è scrivere una poesia». Si cimentò con i testi di Virgilio, Orazio, Arnaut Daniel, Rimbaud e Baudelaire, arrivando addirittura a trasporre in latino alcune composizioni di Montale («Anguilla borealium / syrenen marium //… quidni credideris paene sororculam?»). Relativamente alla sua straordinaria capacità di utilizzare una lingua morta per esprimere contenuti e sentimenti del tutto moderni, affermava che ricorrendo ad essa intendeva recuperare «sensi perduti, la capacità di evocare una qualche immagine paradigmatica dell’uomo nel frammentato panorama della poesia d’oggi»: pertanto rigettava con fastidio l’accusa di sentimentalismo e di un conservatorismo “pascolizzante”.  Se tali pubblicazioni si segnalarono a livello internazionale per quantità e qualità a partire dagli anni ’70, fu soprattutto la produzione in «un limpido, saldo italiano» quella a cui demandava l’interesse e la volontà di essere ricordato come poeta, convinto che movente fondamentale della sua scrittura dovesse essere la «volontà di dire», la capacità di comunicare con nitida eleganza, come giustamente sottolinea Rodolfo Zucco, attento e appassionato curatore di questo volume.

© Riproduzione riservata         «Nazione Indiana», 14 marzo 2018

 

 

 

 

RECENSIONI

BANTI

ALBERTO MARIA BANTI, IL BALCONE DI EDOUARD MANET  – LATERZA, ROMA-BARI 2013

Alberto Mario Banti (Pisa,1957), professore ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Pisa, ha pubblicato nel 2017 da Laterza un coinvolgente, polemico e voluminoso saggio sull’industria culturale del ’900 – Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd – , che spazia dal cinema e dal fumetto degli anni ’30 (con la loro idea consolatoria e buonista dell’intrattenimento, e l’imperativo del lieto fine) alla controcultura di massa degli anni Sessanta, (attraversata dai nuovi fenomeni del rock, del cinema e del teatro alternativo, dei movimenti per i diritti civili, del femminismo, della protesta afroamericana), fino agli ultimi decenni rifluiti in una produzione più addomesticata, e omogenea agli interessi del capitalismo internazionale. Ma non è di questo volume che qui mi interessa scrivere, bensì di un libro un po’ più datato, dalla prosa elegante e sfumata, acquistabile in un economico e-book.

Il balcone di Edouard Manet propone un percorso interpretativo snodantesi tra l’iconografia, la storia di genere e la storia sociale dell’Ottocento, a partire dal commento di un dipinto-capolavoro del 1868, esposto al Musée d’Orsay di Parigi. Già dal sottotitolo (Sguardi maschili e corpi femminili nell’Ottocento borghese) possiamo tuttavia intuire che non si tratta solamente di un libro di critica d’arte, ma di una vera e propria decodificazione filosofica delle “differenti strategie dell’apparire”, così come si identificano nella descrizione dei diversi ruoli sessuali e sociali. Il quadro di Edouard Manet, definito da Banti “magnifico ed enigmatico”, ritrae in primo piano due donne e un uomo affacciati al terrazzo di una casa, avvolti da “un velo di astratta tristezza”. Le signore indossano abiti candidi, vaporosi, ornati di ricami e di trine; l’uomo, invece, è vestito in modo austero: camicia bianca sotto un completo nero, cravatta blu scuro. I tre personaggi indicano nel loro abbigliamento e nella capigliatura una “sintassi dell’apparenza” profondamente diversificata.

Da questa divaricazione strategica del costume si diparte la riflessione dell’autore sui differenti ruoli sociali tra i sessi imposti all’interno delle famiglie alto-borghesi nel XIX secolo. Uomini e donne erano chiamati a impegni diversi, che richiedevano atteggiamenti interiori ed esteriori antitetici: i vestiti maschili – abbastanza simili a quelli odierni – dovevano assicurare praticità, serietà, comodità, per permettere a chi li indossava di svolgere le proprie mansioni pubbliche. Le fanciulle, mogli e madri, chiuse nello spazio ristretto della domesticità, o tutt’al più limitate alla frequentazione di salotti, caffè eleganti, raffinati negozi (Émile Zola descrisse, nel romanzo Al paradiso delle signore del 1883, le distrazioni alla moda delle dame francesi), erano obbligate a vestirsi e a pettinarsi in modo consono, ricercato e vistoso insieme, decorato da fronzoli e nastri, accessoriato pesantemente, poiché da loro non si pretendeva lo svolgimento di alcuna attività produttiva, ma una funzione puramente di accompagnamento e di esibizione. Ecco quindi lo sfoggio di gonne ampissime, cappellini, parasole, scarpette, boccoli, gioielli che avevano l’unico scopo di mettere in risalto la ricchezza e lo stato sociale dei padri o mariti da cui figlie e spose dipendevano.

Le donne dell’800 erano “marginalizzate non solo dalle pratiche sociali in uso, ma anche dalle leggi”. A loro si chiedeva solo di rispondere al requisito essenziale della rispettabilità, coerente con “l’onore, la castità, la virtù, la costruzione di un matrimonio equilibrato, finalizzato alla riproduzione e all’educazione dei figli”. Alberto Mario Banti mette in luce come i concetti di amore, matrimonio, fedeltà si siano modificati tra il ’700 e l’800, secolo in cui alla leggerezza e volubilità dei costumi precedenti si sostituì una morigeratezza di facciata e una sostanziale misoginia che impediva alle donne qualsiasi indipendenza non solo sessuale, ma anche intellettuale. Tale rigido moralismo regolava anche la visibilità dei corpi femminili, che andavano coperti e addirittura nascosti nelle occasioni pubbliche diurne, e potevano invece mostrarsi nella loro ammiccante sensualità nei ricevimenti e nei balli riservati tra persone dello stesso ambiente sociale, in cui scollature e nudità si prestavano come oggetto al desiderio maschile. Il corpo della donna per l’occhio dell’uomo diventa un attributo fondamentale della pittura ottocentesca: mentre il nudo maschile nei quadri dell’800 sparisce del tutto, trionfa quello femminile, purché senza riferimenti alla contemporaneità. Dominano “il nudo esotico, di prevalente ambientazione orientale; il nudo mitologico; il nudo di ambientazione storica, possibilmente collocato in una indefinita antichità classica. Questa regola serve a creare un effetto di straniamento, che allontana ogni eventuale senso di colpa dalla mente di chi guarda” (cfr. L’Odalisca o Il Bagno Turco di Ingres).

“Mani maschili che dipingono corpi nudi di donne giovani e belle, a esclusivo beneficio di occhi maschili”: la volontà di dominio e possesso virile sull’universo femminile è reso esplicito, secondo l’autore, proprio dall’arte figurativa, che ama ritrarre donzelle in pericolo salvate da eroici cavalieri, o mercati di schiave. Fu proprio Edouard Manet a compiere due clamorosi gesti di ribellione, infrangendo la morale maschilista dei suoi colleghi pittori in due quadri: Colazione sull’erba e Olympia, entrambi del 1863; entrambi criticatissimi perché collocavano una donna senza veli in un contesto contemporaneo, violando così una delle regole fondamentali del nudo pittorico ottocentesco. La provocazione di Monet era decisamente politica, e rivolta agli spettatori uomini, accusati di un voyeurismo farisaico che ammetteva la fisicità di Veneri classiche e odalische arabe, ma rifiutava scandalizzato ogni riferimento alle disinvolture sessuali maschili dell’800.

Se il clamore suscitato dai due dipinti convinse il pittore francese a evitare per il futuro temi suscettibili di critica morale, il suo insegnamento venne invece riprodotto e sfruttato dai meccanismi pubblicitari dell’epoca, per convincere il pubblico ad acquistare prodotti voluttuari. E le nascenti associazioni femministe fecero proprie la sfida polemica di Monet ai benpensanti servendosi di dimostrazioni eclatanti: come quella dell’attivista venticinquenne Mary Richardson che il 10 marzo del 1914 alla National Gallery di Londra distrusse a colpi di mannaia la Venere allo specchio di Velázquez, perché disturbata da come gli uomini guardavano il corpo di donna lì raffigurato.

 

© Riproduzione riservata        «Il Pickwick», 15 luglio 2019

RECENSIONI

BARBARINO

LINDA BARBARINO, LA DRAGUNERA – IL SAGGIATORE, MILANO 2020

Sulla scia della più consolidata narrativa siciliana (che va da Camilleri a Silvana Grasso, da Simonetta Agnello Hornby a Silvana La Spina e a Emma Dante, risalendo fino a Bufalino, Sciascia, Pirandello e Verga), Linda Barbarino – insegnante di lettere a Enna – propone in questo suo primo romanzo, La Dragunera, uno spaccato ambientale fitto e irto di personaggi, paesaggi e termini siculi, in cui si muovono protagonisti molto carnali e passionali, animati da gelosie, ossessioni, credenze e fobie ancestrali.

Cominciando dall’analisi del lessico, possiamo offrire al lettore uno stringato esempio dei tanti vocaboli presenti in ogni pagina del libro, che se non sono sempre facilmente interpretabili nel significato, risultano comunque molto espressivi dal punto di vista fonetico. Aggettivi come annirbato, immiruta, ntrusciato; sostantivi quali babbasunazzo, vanedda, catoio bummuli, cuticchie; e i verbi, sempre allusivi a moti fisici e dell’animo frastornanti, agitati: sciaurare, cupunare, azziccare, acchianare, spatuliare…

La vicenda si annoda intorno a un triangolo passionale e familiare intricato e primitivo, raccontato con tonalità che sfumano dalla visionarietà alla visceralità incontrollata. Il primo personaggio a comparire nella narrazione è la più procace e ricercata prostituta del paese di Suriano, Rosa Sciandra: “Rosa Sciandra avrebbe dato qualunque cosa per tornare nella casa di quand’era carusa… Osserva le cose che si è guadagnata col suo mestiere di buttana, una per una: la credenza, le sedie, la poltrona sfondata”.  La casa poverissima dell’infanzia è stata sostituita da un alloggio altrettanto squallido, dove riceve i molti clienti che la cercano, giorno e notte, e che soddisfa con rapida indifferenza e malcelato disprezzo. “Solo con Paolo è diverso”; di lui, che lavora le vigne di famiglia, è innamorata in maniera cieca e possessiva, non limitandosi ad appagarlo sessualmente, con ritualità fantasiose e avvincenti, ma coinvolgendolo in confidenze sui problemi familiari e lavorativi: “Marito e moglie che si muovono e scangiano parole casa casa, così parevano”.

In realtà Paolo non può e non vuole aderire completamente ai desideri di Rosa, pur soffrendo di “quella gelosia di mascolo che la considerava cosa sua, la faceva creta e cosa liquida”: perché è innamorato della cognata, moglie di suo fratello Biagio: “Una che si capiva subito era meglio starci lontano, una strega, coi capelli rizzi e niuri come scursuna nturciuniati. Al paese si diceva che era magara, ntisa la Dragunera, così la chiamavano, come la tempesta di vento e acqua”. “Magara”, cioè maga, fattucchiera: come sua madre e sua nonna, entrambe capaci di sortilegi che portavano sciagura e morte. Ma sensuale, occhi verdi come un ramarro, “una statua di marmo pareva, la femmina del diavolo: le cosce scolpite, i fianchi, le minne disegnate perfette…”. Era riuscita a farsi sposare dal fratello di Paolo, flaccido timido inetto, pur di entrare nella famiglia avvantaggiandosene economicamente. La scena di seduzione in cui la Dragunera pigia l’uva nel tino, di notte, stordendo ed eccitando Paolo con beffarda provocazione, è descritta da Linda Barbarino con la pregnanza visiva di inquadrature filmiche che rammentano l’arte ammaliatrice di una Mangano, di una Loren nel cinema neorealista. Una Lupa verghiana, felina e satanica, una circe rurale, questa Dragunera, a cui si oppone, altrettanto famelica e rabbiosa, la buttana Rosa: tutt’e due artigliate, brancicanti il corpo scultoreo dello stesso uomo. Che non riesce ad allontanarsi da loro, nonostante i genitori gli apprestino un matrimonio con Nunziatina, una donna brutta dentro e fuori, ma rispettata e di solide rendite. Pur sposato, e perché infelice, Paolo torna a cercare la prostituta, a patire il fascino della cognata magara, che quando lavorava i campi “sapeva di rosmarino e terra”: lui, travolto dalla passione, tarantolato da chissà che sortilegio, non diventa tuttavia la vittima sacrificale della storia. Perché a immolarsi sarà la figura più fragile.

In questa cavalleria rusticana moderna, le pagine dedicate all’infanzia orfana di Rosa, alla vendemmia in paese, al matrimonio grasso e triste di Paolo, all’esistenza grama dei vecchi, sono rutilanti di colori, visioni, invenzioni linguistiche tali da rendere il romanzo di Linda Barbarino tra i più originali apparsi negli ultimi anni.

 

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https://www.sololibri.net/La-Dragunera-Barbarino.html       18 marzo 2020

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BARBERA

GIUSEPPE BARBERA, ABBRACCIARE GLI ALBERI – IL SAGGIATORE, MILANO 2017

Abbracciare gli alberi: si può, si deve, è utile? Secondo Giuseppe Barbera – agronomo siciliano impegnato nella tutela del paesaggio – non solo è benefico e rivitalizzante, ma testimonia un’abitudine antica, diffusa tra molte popolazioni primitive e oggi di nuovo incoraggiata nelle terapie di supporto psicologico, che individuano nel contatto fisico tra uomo e ambiente naturale uno scambio energetico in grado di dilatare la coscienza, procurando benessere fisico e spirituale. In questo volume edito da Il Saggiatore, il professor Barbera esplora l’attrazione che gli alberi esercitano sulla letteratura dall’inizio dei tempi: dall’epopea di Gilgamesh (primo uomo ad aver abbattuto un grande cedro cresciuto nei pressi dell’Eufrate), ai personaggi biblici, da Omero ai tragici greci, attraverso tutti i capolavori della scrittura universale, fino ai contemporanei – Borges, Conrad, Barthes, Calvino, Eliot, Gadda, Vonnegut, Zanzotto, McCarthy, tra decine di altri nomi.

Abbracciare gli alberi non è solo un’indicazione materiale, ma possiede anche un significato metaforico. Indica la riconoscenza che dobbiamo a questi nostri fratelli radicati nel terreno e svettanti verso il cielo, che per millenni hanno «reso fertile il suolo e respirabile l’aria, mitigato gli eccessi del clima, fornito legna, frutti, ombra, bellezza per mille usi indispensabili e piacevoli».  Ci dimentichiamo troppo spesso che gli alberi rivestono un ruolo decisivo nel contenimento dell’effetto serra, nella lotta alla desertificazione, nel mitigare il clima, nel consolidare il terreno e nel preservare l’armonia paesaggistica. Hanno inoltre un fondamentale rilievo simbolico in senso psicanalitico (secondo quanto scriveva Carl Gustav Jung, indicandone l’aspetto materno, protettivo e nutritivo), o addirittura alchemico (morte e rinascita, fioritura e caducità, salvezza e pericolo). Giuseppe Barbera ripercorre la storia del mondo da quando era ricoperto da foreste primordiali, inviolate e lussureggianti, in una varietà incredibile di specie arboree, e ci fornisce una serie di informazioni curiose sull’età, la grandezza, la velocità di crescita dei vari esemplari di piante  (il più vecchio albero italiano si trova sul Pollino, è un pino loricato nato nel 1026; nell’area mediterranea lo batte un suo omonimo nato nel Nord della Grecia nel 941, mentre il più vecchio del mondo è un abete rosso che vive in Svezia e che dovrebbe aver compiuto 9560 anni).

I diversi capitoli del volume affrontano la storia degli alberi nei frutteti (quello tentatore di Eva non era un melo, ma probabilmente un melograno, o un cedro…), nei giardini, nei boschi, nelle nostre città strozzate dal traffico e dagli scempi edilizi, nel paesaggio deturpato dall’incuria dei cittadini e dagli interessi economici delle grandi industrie e del malaffare politico. L’indignazione dell’autore davanti all’indifferenza ambientale del potere economico, e all’egoismo vandalico di chi abbatte foreste, incendia boschi e radure, inquina con discariche abusive, costruisce indiscriminatamente badando solo al profitto, è pari alla passione con cui difende ed esalta la bellezza della natura che abbiamo il dovere di proteggere e conservare: «L’antico paesaggio mediterraneo è un mosaico di campi coltivati e di boschi, collegato da siepi e filari, punteggiato da alberi. È un paesaggio disegnato dal lavoro dell’uomo che, raccogliendo le opportunità della natura e le necessità della storia, ha tagliato boschi, bonificato paludi, ridotto montagne e colline attraverso ciglioni e terrazze, in superfici pianeggianti dove l’acqua non scorre pericolosamente (facendo franare il suolo e annegando le pianure), ma si infiltra alimentando a valle pozzi e sorgenti». Parole convincenti e appassionate, quanto quelle dolcissime dei versi shakespeariani: «Chi vuole sdraiarsi con me / sotto l’albero del bosco verde / e intonare note allegre al canto degli uccelli / venga qui venga qui venga qui», e oraziani: «È bello sotto un leccio antico, / stendersi sull’erba compatta, / mentre fra gli argini scorre un torrente, / stridono nel bosco gli uccelli / zampillano e bisbigliano le fonti, / invitando a un placido sonno».

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Abbracciare-gli-alberi-Barbera.html      26 agosto 2017

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BARBERIS

WALTER BARBERIS, STORIA SENZA PERDONO – EINAUDI, TORINO 2019

Gli evangelisti Matteo e Luca raccomandavano il perdono: “perdonare fino a settanta volte sette”, “perdonate e sarete perdonati”. Ma si può perdonare la malvagità gratuita, la crudeltà senza scopo, l’efferatezza di un delitto, o (in termini collettivi e non solo privati), la disumanità di una guerra, la ferocia di una strage, l’ingiustificabile e assurda spietatezza della persecuzione e dello sterminio degli ebrei avvenuto nella II guerra mondiale?

Nel 1971 il filosofo e musicologo francese di origini russo-ebraiche Vladimir Jankélévitch aveva commentato la pagina più agghiacciante della storia novecentesca in un volume provocatoriamente intitolato “Perdonare?”. La sua vibrante e appassionata risposta negativa a quel doloroso quesito era stata urlata con la rabbiosa indignazione di tutte le vittime innocenti: “Il nostro risentimento, la nostra incapacità di liquidare il passato… non si chiama rancore, ma orrore”. Negando ai colpevoli qualsiasi possibilità di venire amnistiati, assolti, dimenticati, concludeva: “Il perdono! Ma ci hanno mai chiesto perdono?”

Walter Barberis (Torino, 1950), storico, editore e docente universitario, nel suo saggio Storia senza perdono riprende le tesi di Jankélévitch in maniera meno viscerale e più teoricamente meditata, interrogandosi nello specifico sul ruolo dei testimoni diretti della Shoah, sul loro imprescindibile coinvolgimento nella tragica vicenda dell’olocausto, e sugli inevitabili episodi di censura, autocensura, rimozione che possono aver influito nelle loro deposizioni. Già Primo Levi, a cui l’autore riconosce il merito e il coraggio di avere squarciato il silenzio sui “sommersi e salvati” nei lager, aveva avuto l’onestà di ammettere che non sempre i ricordi dei sopravvissuti a un massacro sono affidabili. “La memoria è uno strumento meraviglioso, ma fallace”, aveva scritto.

Barberis sottolinea quanto le ricostruzioni di un passato angoscioso possano risultare instabili, deviate da vergogna, pudore, sensi di colpa, versioni consolatorie, romanzesche o addirittura autocelebrative: proprio perché individuali e soggettive. Elenca una serie di volumi scritti da impostori che millantavano false biografie, impossessandosi di uno “statuto vittimario che non era il loro”, e rischiando così di inficiare la legittima ricerca della verità e di inquinare il valore stesso delle testimonianze acquisite.

Se il processo di Norimberga era rimasto imbrigliato in un esame burocratico di documenti impersonali di scarsa risonanza emotiva, quello di Gerusalemme a Adolf Eichmann del 1961 riuscì a dare voce all’orrore dei campi di sterminio, esibendo pubblicamente sia le sofferte dichiarazioni degli scampati sia le spietate immagini fotografiche dell’abominio nazista.

Da allora moltissimi romanzi, film, opere teatrali e programmi televisivi hanno avuto il merito non solo di informare il grande pubblico, ma anche di turbarlo, di farlo indignare e di proporgli interrogativi ineludibili. Ma “oltre una palpitante emozione, c’è bisogno di tanta ragione”, ed è quindi compito della storia operare una ricerca e un’analisi puntuale, asciutta, non retorica sui sintomi, le manifestazioni e le cause dell’antisemitismo e del razzismo che hanno portato alla persecuzione contro gli ebrei, in modo da creare una memoria collettiva capace di evitare il ripetersi in futuro di eccidi ed efferatezze simili.

Un’indagine storica che voglia essere accurata e incisiva non deve occuparsi solo delle vittime, ma deve riguardare anche i persecutori, i carnefici, gli aguzzini; senza tralasciare i neutrali, gli indifferenti, gli “ubbidienti per tradizione, per conformismo o per paura”, che con la loro tacita e vile acquiescenza hanno permesso che accadesse l’irreparabile. Altrimenti si potrebbe correre il rischio, insistendo esclusivamente sul sacrificio degli innocenti, di una sacralizzazione della vittima, di una sua rappresentazione come modello cristologico di agnello sacrificale, con una sovraesposizione mediatica fuorviante e controproducente.

Sarebbe invece opportuno esaminare senza indulgenze e remore il perché di un silenzio sulla Shoah durato circa dieci anni dopo la fine della guerra, partendo dall’incredulità iniziale dei contemporanei ignari, per passare alla loro volontà di occultare e dimenticare un passato compromettente, e concludere poi con il reale disinteresse per un dramma che non li coinvolgeva direttamente.

Poiché i testimoni oculari dell’Olocausto stanno progressivamente scomparendo, potremmo rischiare oggi l’oblio di un esiziale crimine storico, “flagello europeo più pericoloso e mortale della peste”, che deve invece essere continuamente rievocato e fatto conoscere alle nuove generazioni, in modo che nessuno possa permettersi di negare, relativizzare o assolvere. Walter Barberis è perentorio nel declinare ogni proposta di assoluzione o conciliazione con il regime nazista. Storia senza perdono è il titolo del suo libro.

 

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https://www.sololibri.net/Storia-senza-perdono-Barberis.html     31 ottobre 2019

 

 

 

RECENSIONI

BARCA

FABRIZIO BARCA, CAMBIARE ROTTA. Più giustizia sociale per il rilancio dell’Italia – LATERZA, BARI-ROMA 2019

L’editore Laterza ha messo a disposizione dei lettori, qualche mese fa, l’ebook a costo zero Cambiare rotta. Più giustizia sociale per il rilancio dell’Italia, che raccoglie la relazione introduttiva di Fabrizio Barca al Seminario “Tutta un’altra storia. Gli anni 20 del 2000”, insieme ad altri contributi. Il Seminario, organizzato dal Partito Democratico a Bologna nel novembre 2019, si poneva l’obiettivo di mettere a confronto analisi, esperienze e proposte delle Organizzazioni di Cittadinanza Attiva sui temi della giustizia socio-ambientale e dello sviluppo economico.

Cosa sono le Organizzazioni di Cittadinanza Attiva? Si tratta di aggregazioni di persone che compiono “azioni collettive volte a mettere in opera diritti, prendendosi cura di beni comuni o sostenendo soggetti in condizioni di debolezza attraverso l’esercizio di poteri e responsabilità nelle politiche pubbliche”, secondo la definizione di Giovanni Moro. Esse comprendono diverse associazioni (ActionAid, Caritas Italiana, Cittadinanzattiva, Dedalus Cooperativa Sociale, Fondazione Basso, Fondazione Comunità di Messina, Legambiente, Uisp…) e singoli ricercatori e intellettuali impegnati nel sociale.

Fabrizio Barca (Torino, 1954), statistico ed economista iscritto al Partito Democratico, docente universitario, ex-ministro nel governo Monti, coordina il Forum Disuguaglianze e Diversità (www.forumdisuguaglianzediversita.org), che persegue l’obiettivo di promuovere un progresso più giusto e solidale, invertendo la unidirezionalità di crescita economica imboccata negli ultimi decenni. Il suo intervento si apre con la citazione dell’articolo 3 della Costituzione, che raccomanda il “pieno sviluppo della persona umana” attraverso “la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale”, e fa riferimento alla giustizia e all’eguaglianza tra i cittadini. Per raggiungere quest’ultimo obiettivo non basta però ridurre i dislivelli di reddito esistenti nella popolazione ridistribuendo la ricchezza, in quanto la vera questione da affrontare riguarda le modalità con cui la ricchezza si crea.

L’analisi dell’economista è puntale e severa, nell’elencare quali sono i fattori che producono disparità, e quindi ingiustizia: l’irrigidimento della mobilità sociale, le forti migrazioni interne ed esterne, un mercato del lavoro precario e non protetto, il divario nell’accesso e nella qualità dei servizi fondamentali, lo scarso riconoscimento delle diverse abilità professionali, l’indebolimento delle organizzazioni sindacali, la liberalizzazione incontrollata dei movimenti di capitale, la privatizzazione massiccia di imprese pubbliche, l’elargizione sregolata di sussidi pubblici.

“Le disuguaglianze sono una scelta”, ribadisce Barca, frutto della svolta neoliberale effettuata dalla politica italiana dagli anni ’70 in poi (anche con il concorso della sinistra…), che ha favorito un processo di concentrazione della conoscenza, del potere e della ricchezza nelle mani di una minoranza privilegiata. Negli ultimi decenni molte istanze di partecipazione civile sono rimaste inevase (diritti delle varie minoranze, tutela dell’ecosistema, autonomia del lavoro…), provocando nella gente risentimenti e paure che la destra sta cercando di convogliare politicamente in suo favore.

“Il disegno strategico avanzato dal Forum affronta tre processi di formazione della ricchezza: il cambiamento tecnologico; il rapporto di potere fra chi controlla solo il proprio lavoro e chi controlla anche il capitale; la transizione generazionale. Si tratta di usare in modo diverso risorse pubbliche già a disposizione, riallocando potere decisionale. Prima di tutto, va tutelata la dignità di chi lavora, in maniera stabile o precaria, con tre mosse simultanee: efficacia dei contratti firmati dalle organizzazioni sindacali e datoriali “rappresentative”; soglia minima legale per il salario orario di ogni lavoratore; rafforzamento e unificazione delle capacità ispettive”.

Così Fabrizio Barca delinea la sua diagnosi, spingendosi oltre nel suggerire proposte operative concrete in modo che l’Italia riesca a invertire il processo involutivo che ha contrassegnato negativamente questo primo ventennio del 2000. La più concreta delle sue indicazioni è certamente quella di trasferire a ogni giovane, al compimento dei 18 anni, un’eredità pari a 15mila euro, permettendogli di intraprendere uno studio o una professione senza pesare sulla famiglia.

Altre proposte molto dettagliate sono fornite da sette ricercatori, docenti ed esperti attivi nel Forum Disuguaglianze e Diversità riguardo ai necessari cambiamenti da attuare nella Pubblica Amministrazione, nell’Istruzione, nelle Politiche Industriali, nella Sanità, nella Ricerca e nel Terzo Settore: in modo da rendere possibile un effettivo rilancio sociale ed economico nel nostro paese, garantendo maggiore uguaglianza e giustizia per tutti attraverso la redistribuzione del redditi e della ricchezza.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 6 maggio 2020