HAIM BAHARIER, LE DIECI PAROLE – GARZANTI, MILANO 2023

Haim Baharier, studioso di ermeneutica ed esegesi biblica, matematico e psicanalista francese (Parigi 1947), nato da genitori ebrei di origine polacca reduci dal campo di sterminio di Auschwitz, è stato allievo del filosofo Emmanuel Levinas, del fondatore della psicologia della motivazione Paul Diel e di Léon Askenazi, considerato il padre della rinascita del pensiero ebraico in Francia. Autore di numerose opere dedicate ai testi sacri, insegna Talmud e Torah e tiene da molti anni esclusive e memorabili lezioni di ermeneutica ed esegesi biblica. Tra le sue opere: La Genesi spiegata da mia figlia (2006), Il tacchino pensante (2008), Qabbalessico (2012) e l’autobiografico La valigia quasi vuota (2014). Attualmente vive a Milano.

Garzanti ha ripubblicato il suo saggio Le dieci parole, uscito per la prima volta nel 2011, che commenta il Decalogo dando rilievo al contesto storico in cui ha avuto luce e si è diffuso tra la popolazione ebraica, analizzandone soprattutto la complessità linguistica. Non “I dieci comandamenti”, ma “Le dieci parole”, come anche Papa Francesco ha voluto recentemente intitolare un suo volume, sottolineandone la non prescrittività, bensì l’indicazione comunicativa, là dove i verbi – scritti al futuro e non all’imperativo – suggeriscono esortazione e invito, “promesse che si realizzano”, più che comando e obbligo. Lo stesso Baharier afferma: “leggere il Decalogo come una lapide di imperativi è l’errore di chi teme di cimentarsi con il pensiero, di chi con il pensiero ha paura di scottarsi”.

La Bibbia inizia con Genesi, narrando la grandiosità della creazione, e non con il Decalogo, momento identificativo dei figli di Israele, posticipato all’Esodo, a segnare un percorso che snodandosi dall’Egitto verso la terra promessa offre al popolo eletto la sua costituzione prima ancora che diventi nazione. Tra premesse e promesse si pone il commento di Haim Baharier, insieme esegesi e narrazione che chiosa e illumina di nuova luce il cammino ebraico, dalla preparazione spirituale di Esodo 19 alla realizzazione di Esodo 20. Passo dopo passo il testo originale viene riportato alla sua esatta interpretazione, in cui termini generalmente ricondotti a sentimenti di odio, vendetta, punizione, peccato, vengono traslati in maniera meno inquisitiva: “Una mano sciolta sulla spalla, non l’indice puntato in faccia”. Israele si libera dalla schiavitù, uscendo dall’Egitto e accampandosi nel deserto del Sinai: il deserto non è desolazione ma humus potenziale, la montagna non è ostacolo ma elevazione, la divinità non è vendicativa, i tempi verbali non indicano imposizione ma proposta, il verbo avere non esiste: “Non avrai altro Dio” diventa “Non ci saranno per te altri Elohim sui miei volti”.  La Torah è più dolce di come ci è stata trasmessa!

Se la prima parola era “non ci saranno per te altri idoli”, la seconda chiede di non divinizzare valori o ideologie che si servano di Dio in contesti impropri, per sanare le proprie insicurezze. E la terza promessa, di santificare le feste, invita a inseguire l’ideale, a investire nel sogno di un riscatto: custodire lo Shabbàt, giorno in cui il Creatore riposa. Dal quarto al decimo comandamento l’attenzione si rivolge all’essere umano, al suo agire nel rispetto di persone-cose-ambiente.

Onora il padre, la cui essenza è quella di delegato a creare: il figlio di oggi è il padre di domani, da ossequiare sempre, nel suo avvicinarsi e nel suo allontanarsi dal ruolo che gli compete. Non assassinerai, né materialmente né metaforicamente, per mantenerti in alto, fagocitando con impazienza il senso del conoscere. Non fornicherai, frantumando l’intimità e possedendo l’altro da te, pur accettando l’impulso innato, senza volerlo estirpare a forza. Non rapirai, persone o cose, appropriandoti di quello che non è tuo. Non opprimerai il tuo compagno con falsa testimonianza, creando faziosità, comunicazioni fallaci, saperi occulti. Non desidererai ciò che è possesso altrui, perché si deve accettare il limite, attenersi agli argini.

“Il Decalogo, come tutto il testo sacro, è scritto in una lingua consonantica la cui leggibilità è affidata agli esseri umani. Lingua partitura che chiama ogni lettore esecutore a una interpretazione. Testo che attende sempre di essere interpretato. Haim Baharier ci indica un percorso, attraverso una prosa vertiginosa e spesso oscura, che stilla “piccole/grandi illuminazioni”, come suggerisce Maurizio Meschia nella prefazione al volume.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net                   17 gennaio 2024