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RIVA

FRANCO RIVA, LA COLLANA SPEZZATA – CITTADELLA, ASSISI 2012

Franco Riva, docente di Etica Sociale e Filosofia del Dialogo all’Università Cattolica di Milano, attento indagatore del «pensiero dell’altro», dedica questo suo ultimo libro alla riflessione sui concetti interdipendenti di testimonianza e accoglienza, responsabilità e partecipazione, speranza e profezia: letti in un’ottica di rigorosa concentrazione sul significato etico e sociale dell’impegno comunitario e della solidarietà umana. «La disarticolazione o il frantumarsi impercettibile» di questi valori fondamentali comporta la dispersione e il fallimento di qualsiasi progettualità costruttiva, «proprio come una collana di perle che diventa irriconoscibile, e che spesso non è nemmeno riparabile, quando il filo o il fermaglio si rompe…  e i suoi grani, impazziti, saltellano a terra ciascuno per conto suo…».

Come ricomporre, quindi, la collana spezzata, riannodando quanti fili, recuperando quali perle trascurate, non riconosciute? Con la rimeditazione dei testi fondamentali del pensiero spirituale novecentesco, dall’esistenzialismo cristiano di Marcel e Mounier, attraverso Rosenzweig e Jonas, fino ai più amati e citati Ricoeur e Lévinas, Franco Riva esplora inizialmente il concetto di testimonianza come «forma di conoscenza… che riapre uno spazio inedito per la verità dove avanza, deciso, il rapporto con gli altri». Testimoniare significa quindi «uscire dall’angolo… immergersi nel quotidiano…», ma soprattutto «rapportarsi con la verità»: «La testimonianza interrompe la fedeltà a se stessi e inaugura una responsabilità per la verità e per gli altri», «come avviene nei racconti biblici di vocazione… testimoniare non significa dire ‘io’, bensì ‘Eccomi!’». Essere testimoni vuol dire perciò non pretendere da se stessi un’improbabile purezza e intangibile trasparenza, ma farsi responsabili per la verità, per l’altro, e per il bene universale che ci è comune. Quindi, in prima istanza, accogliere, ospitare, essere-verso. Accoglienza e ospitalità intese come «rivoluzione permanente… un trascendere rispetto a sé e alla propria falsa centratura: … l’abitare dell’uomo non è dunque un rinchiudersi, un recintare luoghi, un prendere possesso, un estromettere … invece un’apertura inevitabile, essenziale, positiva al rischio dell’incontro con l’altro».

Ecco allora che testimoniare significa anche partecipare e farsi responsabili, porre il problema di cosa sia, oggi, nelle nostre società e nelle nostre città, la democrazia: non solo efficientismo e decisionismo nelle mani di pochi, esperti o tecnici che siano. Ma coinvolgimento, interesse, solidarietà aperta a un futuro di speranza: una speranza coniugata al plurale, che riguarda un “noi”, l’edificazione di una città degli uomini «diversa, meno violenta e meno diseguale, meno indifferente e meno difficile». Con questo richiamo generosamente utopistico, di impegno prometeico a una nuova organizzazione della convivenza, e a più coraggiosi e innovatori disegni urbanistici, si chiudono le pagine di Franco Riva, che invitano a superare le logiche privatistiche e a scardinare gli egoismi individuali, nella responsabilità profetica e testimoniale per il bene di tutti. Recuperando i grani dispersi della collana, rinsaldandoli insieme con un filo tenace, e duraturo.

 

«Conquiste del lavoro» n.149/150 , 23 giugno 2012

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RIVA

FRANCO RIVA, COME IL FUOCO. UOMO E DENARO – CITTADELLA, ASSISI 2011

Quando si parla del denaro, o si tenta di definirne la natura, ci si scontra inevitabilmente con la sua ambivalenza strutturale. Coppie di sostantivi contrapposti possono alludere alla sua essenza (fine/mezzo, credito/debito, libertà/necessità, trascendenza/immanenza, sogno/incubo), attributi incompatibili ne indicano l’enigmatica ambiguità: sporco/pulito, giusto/ingiusto, condannato/ idolatrato, relativo/assoluto, materiale/immateriale.
San Francesco chiamava il denaro  «sterco del demonio», per Calvino esso esprimeva la benevolenza di Dio, per Sartre aveva un carattere «magico». Il filosofo Franco Riva gli dedica uno stimolante e approfondito studio, derivando da Eraclito la considerazione che l’oro, come il fuoco, è «mutamento scambievole di tutte le cose». Quindi, «il denaro brucia». Distrugge ed edifica, salva e danna: ma non va assolutamente demonizzato, né fanaticamente adorato o difeso.
Il denaro è diventato un feticcio universale, una sorta di religione globale, che – come tale – «ha i suoi sacerdoti, il suo popolo, i suoi templi, le sue liturgie, i suoi riti». Qui l’aculeus dell’autore si fa particolarmente sarcastico e feroce, nel descrivere quelle austere chiese moderne che sono le nostre banche, con le aree riservate per i clienti bisognosi di conforto e indicazioni e con i competenti consiglieri finanziari : una simbologia tutta debitrice ai confessionali e alle guide spirituali oggi tanto disertati. E ricorda che tuttora sul dollaro è stampata la frase «confidiamo in Dio».
Una nuova divinità, quindi, il denaro, che permea e invade la nostra quotidianità, si insinua negli ambienti domestici e lavorativi, prolifera e domina qualsiasi attività del nostro tempo libero: dallo sport al turismo, dalla contemplazione di opere d’arte all’utilizzo dei servizi igienici nelle stazioni.
Ormai paghiamo un ticket per qualsiasi espressione della nostra volontà: «La contraddizione totalitaria della liberissima società dei consumi non consiste nel ridurre tutto a consumo, ma nell’imporre senza che nessuno protesti sul serio… dei ticket per accedere al diritto stesso di consumare».

Se Fromm aveva potuto distinguere tra essere e avere come condizioni in contrasto nell’esercizio della propria umanità, oggi «il denaro ha assorbito anche l’essere… perché senza denaro non si esiste», e ancora: «Usciti dalla civiltà umanistica dell’essere e piombati nella civiltà moderna dell’avere, gli uomini si riconoscono soltanto in ciò che hanno e in ciò che consumano… e il possesso diventa l’unico criterio di valore». È proprio tutto così assolutamente sconfortante? L’homo oeconomicus ha assorbito totalmente ogni altra caratteristica dell’essere umano? Niente e nessuno si sottrae al dominio schiavizzante del capitale? L’accoglienza, l’ospitalità, l’uso della parola, la libertà di pensiero, la democrazia stessa finiscono per subire passivamente e quasi ingenuamente il diktat della pecunia. Che è diventata lingua universale, come la musica e la matematica. Sembra allora di sentire il grido di ribellione di chi rifiuta un’omologazione assoluta nel prostrarsi al disumanizzante nuovo credo: quali valori si sottraggono ad esso? La verità, la fede, i diritti umani, la giustizia, la difesa dell’ambiente, la gratuità del dono, la solidarietà… Ma ne siamo certi, o fingiamo un candore da anime belle che preferiscono la cecità all’ efferatezza del realismo? Siamo forse «tutti economisti spietati nei traffici quotidiani con il denaro, e tutti moralisti solleciti nelle intenzioni?» Anche l’etica del lavoro, la celebrazione del sudore della fronte deve ormai inchinarsi di fronte a un’incontrovertibile evidenza: «Non è più il denaro che dipende dal lavoro, ma il lavoro che dipende dal denaro», soprattutto dopo la finanziarizzazione speculativa dell’economia.
Cosa ci può salvare, a questo punto? Franco Riva richiama tutti a una «resistenza silenziosa ed eroica», a una dignità dell’impegno della vita comune, a un ripensamento dei propri valori: allora anche il denaro può essere di aiuto nel soccorrere chi si trova in difficoltà, nel promuovere la cultura, nel riequilibrare la giustizia attraverso il risarcimento piuttosto che con la vendetta, nel recuperare l’idea della propria professione come pienezza e soddisfazione di vita.

 

«Mosaico di pace», 19 marzo 2012

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RIVA

FRANCO RIVA, FILOSOFIA DEL VIAGGIO – CASTELVECCHI, ROMA 2013

Todorov scriveva nel 1995: «Il viaggio coincide con la vita, né più né meno: essa è forse altra cosa che un passaggio dalla nascita alla morte?”. Per il filosofo Franco Riva, docente di Etica Sociale all’Università Cattolica di Milano, il viaggio – a cui è dedicato questo volume densissimo di spunti e provocazioni – non indica solamente e puramente il nostro esistere, bensì è senso e metafora di un’infinità di altri concetti, temi, sentimenti. Quindi viaggio – responsabilità, apertura, accoglienza, violenza, pensiero, racconto. Piacere e stupore, consumo e denaro, lavoro e distrazione, libertà e distacco. Su ciascuno di questi aspetti, Franco Riva medita con acuta sensibilità e tensione, spesso addirittura con risentita ironia, sfrondando la tanta retorica che accompagna oggi l’atto del viaggiare, dell’uscire da sé, dello scoprire altri luoghi, con una sapida antiretorica, capace di interrogarsi lucidamente sui compromessi e sulle sopraffazioni che comporta l’invadere per divertimento o curiosità culturale spazi e abitudini altrui. Viaggiare non è quindi, e non deve essere, gratuito ed egocentrico arricchimento interiore, esperenziale od economico, ma soprattutto possibilità di incontro ed apertura all’altro, crescita spirituale e dono. Considerazioni amare e sarcastiche vengono dedicate a un certo turismo confezionato, consumistico e standardizzato: «Non è possibile smarrirsi perché adesso sappiamo sempre, finalmente, dove siamo. Siamo perennemente nell’intervallo tra una proposta e un acquisto. Siamo sempre in coda a una cassa».

Carte di credito, commerci, trasgressioni, inventari e tariffe. A questo sembra ridursi oggi il viaggiare contemporaneo; e alle foto da esibire su facebook, agli orari di treni e aerei. Lo stile stesso della narrazione di Franco Riva assume, nella prima parte del libro, la frammentarietà incalzante e veloce, quasi imitativa e tautologica, del fenomeno che stigmatizza: «La memoria dei luoghi è lo spazio che si fa tempo. E il luogo del tempo è il tempo che si fa spazio. Fuori e dentro. Interno ed esterno…Vita. Sempre partita , sempre già andata, prima ancora di averne deciso la partenza. Vita partita e mai arrivata, nonostante tutti gli sforzi per arrivare. Mai raggiunta. Viaggio e vita. La partenza della vita, che non si può decidere. Irripetibile. La vita non è mai dov’è, mai quello che è. Sempre in partenza. Non torna. Irripetibile».

La scrittura ponderata della filosofia sembra qui proporsi liricamente in simil-versi dall’impronta ansiosa, quasi derivata da certa poesia contemporanea: «Affidarsi, rischiare. Partire finalmente. Trovare se stessi come un essere trovati. Lasciarsi andare. Ri-trovarsi. Trovare se stessi, perché in quell’identità quotidiana con sé ci si era smarriti. Chiusi. Neppure smarriti: il sé non c’era; da solo con se stesso, non c’è mai stato». Più distesa e meditata risulta al lettore la seconda parte del volume, che si interroga sui temi tipici della riflessione di Franco Riva, ereditati e approfonditi attraverso gli amati “filosofi del dialogo”: Buber, Rosenzweig, Lévinas, Marcel, Tischner. In queste pagine si concentrano considerazioni ispirate a quella che dovrebbe essere la natura etica del viaggio: conquista di uno spazio accresciuto dell’anima, meraviglia, pensiero nuovo, accettazione della complessità e della diversità, scoperta di una prossimità agli altri, responsabilità verso la natura. E passaggio. Da uno stato mentale di chiusura e sospetto ad uno di fiduciosa solidarietà. Franco Riva propone esempi antichi e illustri di viaggiatori che nei loro percorsi hanno modificato la storia dell’umanità: Ulisse e il suo viaggio nostalgico, circolare, di ritorno e ripiegamento; Abramo proiettato in un generoso esodo verso una promessa futura; Gilgamesh e la sua eroica aspirazione alla fama; Adamo ed Eva e la cacciata colpevole; Marco Polo con la curiosità per l’ignoto; Zarathustra nella sua sfida a Dio. E proprio con una frase di Nietzsche (Solo come totalità possiamo conservarci) Franco Riva chiude il suo libro: una totalità complessa, non sigillata, ma capace di trasformazione e di tragitti illuminanti.

 

«succedeoggi», 15 aprile 2015

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RIVA

FRANCO RIVA, LA DOMANDA DI CAINO – CASTELVECCHI, ROMA 2016

Il volume La domanda di Caino del filosofo Franco Riva ha come sottotitolo “Male, Perdono, Fraternità”: tre concetti che coesistono (stridendo, cozzando tra di loro, attraendosi e respingendosi insieme) nella risposta interrogativa, spavalda e spaventata come un’alzata di spalle, che Caino dà al Signore dopo aver ucciso Abele: «Sono forse il custode di mio fratello?»

Tre termini che corrispondono alle tre sezioni in cui si ripartisce la riflessione dell’autore, docente di Etica all’Università Cattolica di Milano, che qui approfondisce l’argomento valendosi di contributi letterari (Cervantes, Dostoevskij e la Bibbia) e filosofici (Arendt, Buber, Derrida, Jankélévitch, Jonas, Kierkegaard, Lévinas, Marcel, Ricoeur, Schmitt). Il Male, quindi, con la M maiuscola, con le questioni all’apparenza irrisolvibili che si porta dietro da millenni: cos’è, perché esiste, da dove viene, se può essere giustificato, come vincerlo. Franco Riva, cercando di darne una definizione, confessa l’impossibilità di comprenderne in maniera definitiva l’essenza e i confini, sia che esso sia un accidente fisico o una mancanza spirituale, sia che dipenda dal caso o da volontà umana. Il male fatto e il male subito, indicano solamente una fragilità della creatura? («La fragilità è tipica, connaturale all’esistenza. Non si pensa davvero alla vita senza pensare a ciò che la smentisce, alla presenza del male: a una minaccia che intesse la vita come il rovescio della stessa medaglia»). Oppure, secondo quanto riteneva Socrate, è solo ignoranza, difetto di conoscenza, omissione, inconsapevolezza? Come spiegare il male assoluto, la morte, la malattia, la sofferenza dell’innocente, lo sterminio bellico, le catastrofi naturali, il terrorismo? Fatalità, destino, crudeltà umana, indifferenza divina? «Al male manca sempre una risposta». Eppure, esso non ci appare mai come definitivo: rimane comunque in chi lo subisce uno scampolo di speranza, di non resa, di resistenza. Va oltrepassato, provando a parteciparlo con gli altri, esigendo solidarietà, facendo fronte comune con chi soffre: soprattutto rifiutandogli qualsiasi giustificazione finale.

Nella seconda parte del volume, l’autore affronta il tema, altrettanto spinoso e paradossale, del perdono, il cui valore «è tanto più forte quanto più sembra imperdonabile o non scusabile il male ricevuto, il torto fatto». Perdonare gli altri, perdonare se stessi. Perdonare (che non significa dimenticare, cancellare la memoria!) a livello individuale e collettivo, emotivo e razionale. Riva si chiede se sia possibile e se si debba: perché ci sono crimini irrimediabili e irreversibili (Auschwitz, la Shoah, Hiroshima, le torture, le guerre…) che sono legalmente imperscrittibili, che vanno perseguiti penalmente e condannati. E ci sono torti più personali (il tradimento di un amore o di un’amicizia, una non mantenuta) che rimane difficile superare; farlo con facilità o immediatezza rivelerebbe compiacenza e narcisismo (“vedi come sono buono…”) e ridurrebbe l’offesa «a un semplice punto di vista sempre relativo, sempre aggirabile, sempre correggibile in un’ottica superiore». Ma nella parola “perdono” riecheggia la parola “dono”: qualcosa di gratuito ed eccedente, di asimmetrico e radicale, che solo la vittima può offrire, senza reciprocità. Nella sua mitezza risulta implacabile a chi ha usato violenza, in qualche modo inchiodandolo alla sua colpa.

La terza parte del libro di Franco Riva esplora il significato della fraternità. Se «il perdono come il male si fanno nella comunità degli uomini», è ad essa che si deve guardare per meglio definirli e comprenderli: e forse ancora di più a quella comunità strettissima e particolare rappresentata dalla familiarità, dalla fratellanza. «Le fraternità della storia sono spesso intrise di rivalità, di violenza, di esclusione, di preferenza, di fratricidio, non sono mai del tutto ciò cui aspirano e ciò che dicono di essere». Caino e Abele, Romolo e Remo: omicidi fraterni all’origine della fondazione di una città sembrano voler significare che non esiste convivenza senza violenza, o che la fraternità di sangue non è vera fraternità. Fratelli-coltelli, come suggerisce il proverbio, fratelli nemici. «Il nemico è chi mi mette in discussione», l’altro che mi si oppone. Allora la domanda di Caino al Signore: «Sono forse il custode di mio fratello?» diventa la domanda delle domande, se per “custode” si intende “responsabile”. Siamo tutti responsabili dell’altro, come afferma Dostoevskij ne I fratelli Karamazov: «Ciascuno di noi è colpevole di tutto e per tutti sulla Terra». Nella frase di Caino non c’è solo insolenza: il suo dire “io” rivela la responsabilità di una fraternità, riconosciuta anche se rinnegata, e affidata a un chiedere che rimane aperto e rimanda a un “fuori” di sé, a una tensione in cui si affrontano male e perdono, colpa e giustizia.

 

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www.sololibri.net/La-domanda-di-Caino-Franco-Riva.html            26 dicembre 2016

 

 

 

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RIZZANTE

MASSIMO RIZZANTE, SCUOLA DI CALORE – EFFIGIE, MILANO 2013

Massimo Rizzante conclude il suo libro con un vibrante post-scriptum, «un monumento alla fragilità», quale si esprime, o dovrebbe esprimersi, nel carattere femminile: «non è solo dolcezza, generosità, tenerezza…ma una virtù più sottile…(che) cede, cede sempre, ma mentre cede assimila e assimilando rigenera». Pervicacemente ostile al «veleno della virilità», afferma infatti: «ogni volta che una donna soccombe alla monolitica virilità dell’uomo è un pezzo di civiltà che se ne va», perché «l’uomo non è riuscito ad accogliere la femminilità come valore e…perciò continuerà a mutilare e a rendere inferma la donna, oltre che se stesso». Il libro è quindi un omaggio alle donne, protagoniste assolute dei versi; e in particolare la dedica cita la madre, la moglie, e un’amica marocchina dell’autore. Sono voci femminili quelle che parlano nella prima sezione del volume: ventidue donne nord-africane che in sei quartine raccontano la loro storia di povertà e sfruttamento, analfabetismo e ricatti, malattia e sporcizia. I loro nomi sono arabi («l’arabo possiede / tanti gemiti quante mosche la testa di un agnello macellata»): Naima, Zohra, Kawthar, Fouzia… I luoghi citati appartengono tutti alla miseria del Marocco, sfruttata turisticamente e sessualmente dall’Occidente ricco e intellettuale: Ourika, Essaouira, Casablanca, Marrakech, «dove non c’è resurrezione». Inframmezzato dalla lettera di un amico di origine maghrebina e dal diario estivo di una giovane prostituta di colore, il volume si conclude con altre due sezioni, sempre al femminile. Ma qui le protagoniste sono donne occidentali, talvolta castranti quando imitano la protervia aggressività degli uomini: comunque vittime. Versi rabbiosi di denuncia (certo non fragili!), e che sempre ruotano intorno al tema della sessualità imposta o subita come violenza; versi provocatoriamente indifferenti alle invenzioni linguistiche e alla resa estetica, visceralmente polemici.

 

«L’Immaginazione» n.284, novembre 2014

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RODRIGUEZ

CLAUDIO RODRIGUEZ, DONO DELL’EBBREZZA – PASSIGLI, FIRENZE 2015

Claudio Rodríguez (1934-1999) è forse, tra i grandi poeti spagnoli del ’900, quello meno conosciuto e letto in Italia. Quindi bene ha fatto l’editore fiorentino Passigli a proporre la sua straordinaria raccolta d’esordio, Don de la ebriedad, pubblicata nel 1953, quando l’autore aveva appena diciannove anni. Salutato dal suo maestro Vicente Aleixandre come “pieno di purezza e umanità. Così sano nell’anima così pieno di cuore”.

il giovane Rodríguez si impose subito all’attenzione della critica e del pubblico per la sua prepotente ed energica originalità, che si rifaceva a Rimbaud e ai mistici spagnoli piuttosto che ai poeti europei contemporanei. Scarsamente interessato all’auscultazione del suo io e alla celebrazione autobiografica, il poeta poco più che adolescente esprimeva una forte esigenza etica e spirituale verso l’immersione panica e vertiginosa nella bellezza della natura, verso la nobiltà dell’eros e il dovere testimoniale della poesia. Il Dono dell’ebbrezza decantato nei suoi versi non è tanto quello dei sensi, quanto il tumulto dell’anima, l’emozione non controllabile del pensiero che contempla il mistero della pura esistenza, e si interroga su di esso, quasi sopraffatto dalla gratitudine e dallo stupore. Maestri a cui rifarsi sono allora tutti i grandi interpreti dello spirito, dagli evangelisti ai filosofi greci, da Teresa d’Avila a John Donne a Rilke.
“Siempre la claridad viene del cielo”: con questo luminoso endecasillabo si apre la prima sezione del libro, che così continua: “è un dono: non si trova tra le cose / ma molto sopra ad esse, e le pervade / di ciò facendo vita e opere proprie // … Oh, chiarità assetata di una forma, / di una materia atta a disvelarla / pronta a bruciarsi nel compiere l’opera”.

L’assillante interrogarsi sulla creazione, sul desiderio di essere che anima uomini, animali e piante, facendoli nascere e morire, crescere e trasformarsi anche nella pura incoscienza materiale, rende il poeta quasi un veggente, scorporandolo da se stesso, portavoce di quanto non sa esprimersi e si limita a vegetare, a ruotare nel cosmo, a vibrare nel pulviscolo della luce: “La quercia, sì, cosa saprebbe mai / senza me della morte? Esiste forse / l’intimità, il suo istinto, il vero / della sua ombra più di ogni altro fida? / E la mia vita è certa in quelle foglie / sempre a svelare in parte primavera?”

Punti di domanda e punti esclamativi si rincorrono nei versi di Claudio Rodríguez a indicare entusiasmo, curiosità, rapimento, in una tensione lirica che non ha nulla di studiato o artefatto, ma sembra precipitare continuamente nell’assillo del dover dire, del dover comunicare al lettore la propria emozione, scandita da una musicalità incline al canto spiegato.
Con una partecipe e approfondita prefazione di Pietro Taravacci, questo volume sa restituirci la voce della poesia più limpida, quando si innalza oltre la sua stessa finitudine e materialità: “Neanche il mitico ovile delle sere / sa invadermi così. Temo il tuo amore, / ampia navata del dolore, e campo. / Ma ora sono lontano, così tanto / che se anche muoio nessuno mi piange. / Mi appare certo ormai che il nostro regno / non è di questo mondo. Che montagna / potrebbe elevarmi? Che preghiera?”, “Ci sono troppe cose infinite. / Per incolparmi ci son troppe cose”, “Come il terriccio sopra i campi, basta, / basta al mio cuore una semina lieve / per darsi all’estremo. Così basta / non so perché, alla nube. Che efficacia / ha l’amore”, “Sarà dentro il tempo. Non la mia / e non la più importante: ma la prima. / Sarà l’unica volta del creato. / Semplicità di fare che non sia / questa la prima e l’ultima! Alba, fonte, / mare, colle alfiere in primavera, / siate essenziali!”.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Dono-dell-ebbrezza-Rodriguez.html       30 settembre 2016

 

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ROMAGNOLI

FERNANDA ROMAGNOLI, IL TREDICESIMO INVITATO – GARZANTI, MILANO 1980

Cosa sappiamo, e cosa sanno oggi i giovani lettori di poesia, di Fernanda Romagnoli? Quasi niente, ovvero le poche notizie che ci tramanda Wikipedia. Autrice di un unico libro importante (Il tredicesimo invitato, pubblicato da Garzanti nel 1980, e riedito da Scheiwiller nel 2003), nata a Roma nel 1916 e morta sempre a Roma nel 1986, diplomata in pianoforte e all’istituto magistrale, moglie di un militare che seguì nei frequenti trasferimenti in diverse città italiane, madre di una figlia. Aveva pubblicato quattro plaquette di versi nel 1943, nel 1965, nel 1973 e nel 1979, ignorate dalla critica (fatta eccezione per la lunga fedeltà dimostratale da Donatella Bisutti, e la stima che le riservò Attilio Bertolucci) e rimaste in pratica senza diffusione. Poche, scarne notizie biografiche. Riservata come persona, trascurata come poeta. Però grande poeta. Dal dettato classico e composto, animato da una malinconia pensierosa e da un’ironia (e autoironia) intelligente e mai sarcastica, attenta alla quotidianità senza diventare noiosamente e minuziosamente prosastica. Si leggano per esempio i versi dedicati agli oggetti minimi e inessenziali di cui ci serviamo nelle nostre abitazioni, di cui non abbiamo bisogno ma da cui temiamo il distacco:

«I piccoli oggetti, i piccoli / amici-schiavi, che tirano / troppo in lungo la vita! Miei cari, / vi licenzio in tronco. È più dura / forse per me: ma chi monco, / chi gobbo, chi spelato da lebbra; / e il mazzo di chiavi risputato / da ogni serratura. // Gli ipocriti inermi! Bisbigliano / Aiuto, pietà. / E s’uncinano a tutti gli appigli, / a tutti i ricordi come labbra / s’attaccano, come vermi. // Giù nel sacco – un tonfo – coraggio! / Non sarà un lungo viaggio. / In cantina, il bel dormitorio. / Col teatrino dei topi, il tanfo / del vino, la grata / (tarlata) del parlatorio / per la piuma, per la foglia di passo. / Tra vecchi fratelli… Diciamo / che a noi padroni va peggio, / quand’è l’ora nostra… ma adesso / muoviamoci, andiamo». (Oggetti)

Il distacco, da persone e cose, è un tema costante nella poesia di Fernanda Romagnoli: “L’arte di perdere” di cui parlava Elizabeth Bishop, diventa in lei quasi un dovere morale, un’abitudine da assumere per evitare l’ansia del possesso, e per imparare ad accettare la rinuncia, e l’addio ‒ più o meno definitivo ‒ da chi si ama. La morte, quindi, come mistero impenetrabile e inaccettabile, conclusione crudele di un ciclo vitale negli esseri animati e inanimati. Nel bruco sbucato fuori da un frutto e finito nel piatto, e qui ucciso con noncuranza; nel ricordo dei gesti della madre, adorata e perduta:

«Tagliato in due col suo frutto / il bruco si torce, precipita / nel piatto, ove un attimo orrendo / sopravvive al suo lutto. / Coperto di bucce, sepolto / fra le dolcezze e gli aromi / che amava in vita, gli accendo / sulla catasta l’incenso / della mia sigaretta. / Morte pulita – ed in fretta. / Ma che ne so della via / che il bruco ha percorso in quell’unico / istante di agonia» (Bruco); «Mia madre celebrava la mattina / con un caffè solitario. / Filtravano dalla cucina / neri aromi in un chiaro di gesso. / Toccavano rumori la parete / per farsi indovinare / da me, che silenziosa / sorridevo nel buio «vi conosco!». / Mia madre la mattina / stava sola di là, come Dio / sta sulla terra e sul mare. / Prendeva il giorno nelle sue mani rosse, / assegnava alle cose il loro posto. / Come farà, che adesso / sola fatica delle sue mani è stare / incrociate sul petto» (Rito); «Morte, se vieni per condurmi via, / lascia che ombra su ombra / io ripercorra la gente. / In quest’incrocio di rotte / casuali, ci siamo incontrati / – fra vivi – così inutilmente. / Per migliaia di giorni, / ogni giorno: / all’andata, al ritorno. / Per migliaia di notti, / ogni notte, coi ginocchi, coi fiati. / Non ci siamo scambiati / niente» (Niente).

Un altro fil rouge che attraversa le poesie della Romagnoli è quello dell’inappartenenza, dell’esclusione, addirittura della doppia identità: quasi che l’autrice di questi splendidi versi non sapesse riconoscersi, non solo nella propria scrittura, ma soprattutto nel teatrino dei rapporti sociali, sul palcoscenico delle relazioni fasulle, della finzione imposta per compiacere il mondo:

«Grazie – ma qui che aspetto? / Io qui non mi trovo. Io fra voi / sto come il tredicesimo invitato,per cui viene aggiunto un panchetto / e mangia nel piatto scompagnato. / e fra tutti che parlano – lui ascolta. / Fra tante risa – cerca di sorridere. / Inetto, benché arda, / a sostenere quel peso di splendori, / si sente grato se qualcuno casualmente / lo guarda. Quando in cuore / si smarrisce atterrito «Sto per piangere!» / e all’improvviso capisce / che siede un’ombra al suo posto: /che – entrando – lui è rimasto chiuso fuori» (Il tredicesimo invitato); «Prima o poi qualcuno lo scopre: / io sono già morta / da viva. È di donna straniera / la faccia tra i capelli in giù sporta / che subito si ritira, / l’ombra che dietro le tende / s’aggira di sera, / il passo che viene alla porta / e non apre. Suo il canto / che intriga i vicini coprendo / i miei gridi sepolti. / Qualcuno / prima o dopo lo scopre. Ma intanto…// Lei a proclamarsi non esita, / lei mostra il mio biglietto da visita. / Io nel buio, in catene, a un palmo / da voi di distanza, sul muro / graffio questa riga contorta: / testimonianza che mio / era il nome alla porta, ma il corpo / non ero io» (Falsa identità).

Una voce forte e assolutamente moderna, quella di Fernanda Romagnoli. Forse troppo intensamente significativa nei contenuti, e originalmente personale nella forma, rispetto al conformismo appiattito di molta produzione poetica attuale, per poter attrarre attenzione e interesse, nei nostri giorni disattenti e disinteressati.

 

© Riproduzione riservata        «Il Pickwick», 5 gennaio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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ROMAGNOLI

FERNANDA ROMAGNOLI, LA FOLLE TENTAZIONE DELL’ETERNO – INTERNO POESIA,  2022

Quanti anni devono passare, in Italia, perché una grande poeta venga recuperata dall’oblio, e possa ottenere la considerazione e l’ammirazione che merita, e che già le erano state negate in vita? Di Fernanda Romagnoli (Roma, 1916-1986) le piccole e raffinate edizioni pugliesi di Interno Poesia pubblicano ora la più ampia scelta di poesie finora mai edita, con una esaustiva prefazione di Paolo Lagazzi: La folle tentazione dell’eterno. Finora, di lei erano uscite solo quattro raccolte, ormai introvabili (Capriccio, Berretto rosso, Confiteor e Il tredicesimo invitato), che avevano suscitato l’interesse di affermati poeti come Carlo Betocchi, Attilio Bertolucci e Vittorio Sereni, ma non erano riuscite a imporsi all’attenzione di un pubblico più vasto. Infine Donatella Bisutti aveva curato nel 1997 una silloge di testi inediti, Mar Rosso.

Nata in una famiglia piccoloborghese, Fernanda si era diplomata alle magistrali e poi in pianoforte all’Accademia di Santa Cecilia. Sposata con un militare di carriera, da cui ebbe l’unica figlia Caterina, per alcuni anni aveva insegnato in diverse scuole elementari, dedicandosi poi completamente alla famiglia, seguendo il marito nei trasferimenti di servizio, e tenendosi sempre ai margini del mondo letterario, in una sorta di esilio e auto-esilio determinato sia dalla sua indole riservata, sia dall’indifferenza con cui i suoi libri venivano accolti. L’inappartenenza, l’esclusione, la doppia identità sono in lei temi costanti, quasi a rimarcare la sua volontà di non aderire al teatrino dei rapporti sociali, delle relazioni fasulle, della finzione imposta per compiacere il mondo: “Grazie – ma qui che aspetto? / Io qui non mi trovo. Io fra voi / sto come il tredicesimo invitato, per cui viene aggiunto un panchetto / e mangia nel piatto scompagnato. / E fra tutti che parlano – lui ascolta. / Fra tante risa – cerca di sorridere. / Inetto, benché arda, / a sostenere quel peso di splendori, / si sente grato se qualcuno casualmente / lo guarda. Quando in cuore / si smarrisce atterrito «Sto per piangere!» / e all’improvviso capisce / che siede un’ombra al suo posto: / che – entrando – lui è rimasto chiuso fuori”.

Nelle cinquantacinque pagine del denso e coltissimo saggio introduttivo di Paolo Lagazzi, Fernanda Romagnoli viene definita “tragica e struggente, ferita e sublime poetessa” che ha saputo trarre dai suoi versi “brucianti di amarezza, strazio e ribellione… le radici della parola sino a farne una musica misteriosamente capace di coniugare laceranti dissonanze e imprevedibili armonie, duri strappi al cuore e onde d’immensa forza espansiva”.

Se nella raccolta d’esordio, ancora modellata sull’eredità dei classici protonovecenteschi, (D’Annunzio, Pascoli, Carducci), prevalevano arcaismi e preziosismi lessicali, descrizioni naturali idilliache e una religiosità di stampo devozionale, già in Berretto rosso (1965) e in Confiteor (1973) diventano evidenti sia lo stile più personale e maturo, sia i temi che hanno reso la produzione della poeta così riconoscibile ed esclusiva. In primo luogo l’aspirazione a una spiritualità libera dai canoni della cattolicità ufficiale, con il nascere di dubbi e domande relative alla giustizia divina e alla sua riconoscibilità (“Con Lui non abbiamo contatti”, “S’Egli non vuole scendere per me, / per pietà faccia dire al custode / che non darò più fastidio,/ che soltanto mi lasci abitare / – qui – seduta sul primo gradino”, “Lui / sempre più in alto si cela”, “Voi fate gran compianto per Abele, / per lo scaltro innocente, così certo / del consenso divino. / Ad un buio sudore io   penso, al fiele / d’un cuore nella polvere respinto. / Io piango l’altro: Caino”, “Io sono stanca d’essere tutta pura […] // E bianca come una monaca che abiura / mi svesto di te, libertà”). Pur mantenendo un’ansia di ascesi e assoluto (“la folle tentazione dell’eterno”), altrettanto angoscianti e fondamentali si fanno gli interrogativi sulla propria esistenza, sul suo destino di moglie e madre. Costretta nei limiti della realtà quotidiana (“confitta dal limo terrestre / come uno spino”), scissa tra la fedeltà al ruolo domestico, con le abitudini imposte dalla routine casalinga – che la riduceva a vivere come una “massaia dal dito bruciacchiato”, tra “i robot smaltati di cucina”, “in una scolorita veste rossa” –, e un’insopprimibile sete di libertà e indipendenza, confessa il desiderio di evasione per saziare l’ “inappagata sete beduina”: “all’improvviso, / ecco, rinasci intatta una mattina / d’alberi e odori sopravvento […] // Ah, la tua fuga libera, a perdifiato, sotto i piedi”.

Tale profonda inquietudine non era riconducibile solo a fattori contingenti e limitanti della propria quotidianità: il timore di non saper assolvere con pienezza i doveri di moglie e madre, le pulsioni contraddittorie che la inducevano a sognare un altrove più appagante, la nostalgia di relazioni umane autentiche, la non sempre facile comunicazione con il marito (si legga l’amaro bilancio di Tirate le somme), creava in lei laceranti sensi di colpa e di fallimento: “la stigmata che in me sfolgora e dura”.

Nessuna leggerezza nei suoi versi, nessuna addolcente retorica: ma spesso sferzate ironiche e autoironiche, paradossali, sprezzanti, marcate da frequenti incisi, interpunzioni, trattini e parentesi: il rispetto attento della metrica e soprattutto l’uso sapiente delle rime, rendevano comunque la sua scrittura ricca di una composta e cadenzata musicalità. Giustamente Paolo Lagazzi nella prefazione fa riferimento ad autori che possono averne influenzato l’assetto strutturale: in primis Emily Dickinson, ma anche i nostri Betocchi, Penna e Caproni, oltre alla densità concettuale dei testi sacri e dei mistici. Ma le atmosfere e gli esiti stilistici dei suoi versi rimangono assolutamente originali, soprattutto nello splendido libro-testamento Il tredicesimo invitato, del 1980.

Qui, la dissociazione dalla propria figura viene dolorosamente ribadita: “Prima o poi qualcuno lo scopre: / io sono già morta / da viva. È di donna straniera / la faccia tra i capelli in giù sporta / che subito si ritira, / l’ombra che dietro le tende / s’aggira di sera, / il passo che viene alla porta / e non apre. Suo il canto / che intriga i vicini coprendo / i miei gridi sepolti. / Qualcuno / prima o dopo lo scopre. Ma intanto…// Lei a proclamarsi non esita, / lei mostra il mio biglietto da visita. / Io nel buio, in catene, a un palmo / da voi di distanza, sul muro / graffio questa riga contorta: / testimonianza che mio / era il nome alla porta, ma il corpo / non ero io” (Falsa identità).

L’idea della morte, sua personale a causa della malattia al fegato che l’aveva debilitata per anni, e dei propri cari, come di tutti gli esseri animati e inanimati, si fa via via assidua e angosciosa, nel suo mistero inaccettabile e crudele. Mi sembra giusto dare ampio spazio ad alcune tra le poesie più belle del nostro secondo Novecento, in cui l’idea del distacco, della rinuncia al possesso e all’imposizione del proprio simulacro vivente, diventa un imperativo etico, malinconica e rassegnata accettazione della fugace transitorietà dell’esistenza.

“Morte, se vieni per condurmi via, / lascia che ombra su ombra / io ripercorra la gente. / In quest’incrocio di rotte / casuali, ci siamo incontrati / – fra vivi – così inutilmente. / Per migliaia di giorni, / ogni giorno: / all’andata, al ritorno. / Per migliaia di notti, / ogni notte, coi ginocchi, coi fiati. / Non ci siamo scambiati / niente” (Niente); “Mia madre celebrava la mattina / con un caffè solitario. / Filtravano dalla cucina / neri aromi in un chiaro di gesso. / Toccavano rumori la parete / per farsi indovinare / da me, che silenziosa / sorridevo nel buio «vi conosco!». / Mia madre la mattina / stava sola di là, come Dio / sta sulla terra e sul mare. / Prendeva il giorno nelle sue mani rosse, / assegnava alle cose il loro posto. / Come farà, che adesso / sola fatica delle sue mani è stare / incrociate sul petto” (Rito); “Tagliato in due col suo frutto / il bruco si torce, precipita / nel piatto, ove un attimo orrendo / sopravvive al suo lutto. / Coperto di bucce, sepolto / fra le dolcezze e gli aromi / che amava in vita, gli accendo / sulla catasta l’incenso / della mia sigaretta. / Morte pulita – ed in fretta. / Ma che ne so della via / che il bruco ha percorso in quell’unico / istante di agonia” (Bruco); “I piccoli oggetti, i piccoli / amici-schiavi, che tirano / troppo in lungo la vita! Miei cari, / vi licenzio in tronco. È più dura / forse per me: ma chi monco, / chi gobbo, chi spelato da lebbra; / e il mazzo di chiavi risputato / da ogni serratura. // Gli ipocriti inermi! Bisbigliano / Aiuto, pietà. / E s’uncinano a tutti gli appigli, / a tutti i ricordi come labbra / s’attaccano, come vermi. // Giù nel sacco – un tonfo – coraggio! / Non sarà un lungo viaggio. / In cantina, il bel dormitorio. / Col teatrino dei topi, il tanfo / del vino, la grata / (tarlata) del parlatorio / per la piuma, per la foglia di passo. / Tra vecchi fratelli… Diciamo / che a noi padroni va peggio, / quand’è l’ora nostra… ma adesso / muoviamoci, andiamo” (Oggetti).

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 7 marzo 2022

 

RECENSIONI

ROMANO

LALLA ROMANO, LE LUNE DI HVAR, EINAUDI, TORINO 1991

E’ uscito in questi giorni Le lune di Hvar, ultimo libro di Lalla Romano, a pochi mesi dalla consacrazione letteraria dell’autrice come uno dei classici del nostro 900 avvenuta attraverso la pubblicazione delle Opere vol.1 nei Meridiani Mondadori.

«Questo libro è nato dalla volontà del libro stesso. Io l’ho trovato scritto: da me, ovviamente, ma senza che l’avessi voluto. Non era nemmeno propriamente “scritto”: erano annotate soltanto frasi, parole. E’ un libro privo di testo».

È davvero difficile da definire e da recensire: ne dà prova la quantità di articoli risoltisi poi in interviste all’autrice, un po’ a scansare l’impegno critico di un giudizio letterario, un po’ a mascherare l’imbarazzo derivato da ragioni extra-letterarie. Narra di quattro viaggi fatti dalla Romano in estati diverse, in Jugoslavia, dall’Istria a Spalato (con una particolare predilezione per l’isola di Hvar e i suoi notturni) insieme con un giovane amico, Antonio, e rivissuti in squarci di visioni, in lampi della memoria, con la parzialità assoluta e desiderosa di alibi di ogni rivisitazione affettiva. Protagonista è ovviamente questa coppia fuori dalla norma, lei con il doppio dell’età di lui, ma «questo non ha importanza. Devo aver scritto da qualche parte che per me i numeri sono magia, non cronologia…»: con i capelli e la pelle bianca sotto il cappello di paglia, l’anziana scrittrice; abbronzato, con un berretto da mare e un borsone da fotografo a tracolla, il giovane studioso. Antonio è innamorato del mare, della gente, degli imprevisti: paziente fino a rasentare l’incoscienza di fronte ai molti disagi del viaggio, capace di entusiasmi infantili e di altrettanto estemporanei scoramenti, animato da una dedizione fedele e quasi compiaciuta di sé ai voleri dell’amica, si lascia bistrattare, ammette di essere debole, anche se è il più forte dei due, ma scisso in un continuo «pareggiarsi di mistero e limpidezza». Lei deve fare i conti con la sua età, con i mal di schiena, con il fastidio a volte soffocante che le procurano gli spostamenti, o anche gli involontari atteggiamenti giovani di lui. Lo aspetta, lo aspetta sempre, in macchina, nei bar, nelle hall degli alberghi, sulla spiaggia, mentre lui gira, traffica, incontra: spaventata quasi dalla sua “festosità”, dell’ingenuità delle sue letture e dalle sue esaltazioni. E’ una storia tenera, sofferta, quella che si dipana tra i due: di una sofferenza oggettiva (gli sguardi maliziosi degli altri; la richiesta di spiegazioni del cameriere: («-La mamma?- A.:-Sì-. Cameriere contento») e soggettiva (analisi e autoanalisi, lacrime, ricatti, notti in bianco, gelosie come in qualsiasi altra storia). Evidente appare un certo sottile sadismo di lei, una non camuffata volontà di ferire Antonio con frasi che hanno la spietata durezza della verità: «Non provo piacere: sono una mummia», «A me piacciono i vecchi asciutti, tu sei giovane e umido (sudato)», «Non si può amare la madre», «Non temo di essere abbandonata, ma di essere ingannata». I due escono da questa cattiveria esibita – delle cose, delle circostanze, di loro stessi – più grandi, più drammatici e vivi della miriade di volti e figure inconsistenti che nel libro passano e vengono riassorbiti subito nel loro ruolo di comparse, inchiodati solo allo scampo di una definizione che li accomuna a personaggi famosi (Paolo Stoppa, Fernanda Pivano, Nicola Abbagnano, Ezra Pound, ecc.), osservati dalla narratrice con occhio severo e talvolta stizzito verso le loro debolezze fisiche o intellettuali, specialmente se femminili. Secondo le indicazioni date dalla Romano stessa nel risvolto di copertina, la verità del racconto corrisponde alla sua limpidezza, non alla sua logica. E illogico parrà forse questo rapporto ai più che lo leggeranno con la pruderie o la morbosità di chi ama tenere i conti anche nei sentimenti; ad altri sembrerà una storia grata nella gratuità del suo accadere, insolita nel suo sgomitolarsi imprevedibile e necessario.

 

«Agorà» (Svizzera), 11 dicembre 1991

RECENSIONI

ROMANO

LALLA ROMANO, MARIA – EINAUDI, TORINO 2021

Presentando nella famosa collana einaudiana de I gettoni la seconda prova narrativa di Lalla Romano (1906-2001), Elio Vittorini nel 1953 scriveva: “Una storia di rapporti umani che si realizzano, pagina su pagina, come rapporti ritmici, e che tuttavia tendono a mostrare, malgrado il loro ripetersi, quanto di unico e insostituibile, di dato una volta per tutte, vi sia in ogni individuo”.

L’individuo in questione è Maria, protagonista del racconto, una donna mite, di origini contadine, che lavora come domestica presso una raffinata famiglia borghese, nell’arco dei vent’anni che precedono la seconda guerra mondiale. La voce narrante è invece quella della giovane signora, sposata con Pietro, che l’ha assunta prima di partire per il viaggio di nozze, e al ritorno la osserva attraverso la porta socchiusa: “Stava seduta sull’orlo della sedia, con i piedi incrociati e le mani raccolte nel grembo; era magra e minuta, vestita di nero: con un colletto, rotondo, di pizzo. Teneva la testa reclinata su una spalla; i suoi occhi azzurri e fermi, dalle palpebre piegate all’ingiù, avevano un’aria rassegnata e un po’ triste”. In quello stare appena appoggiata alla sedia è già delineata la ritrosa timidezza, la composta e intimorita discrezione della governante. Più avanti ne viene descritta anche la dedizione attenta al lavoro: “Essa si aggirava per le stanze senza far rumore, era sempre occupata e non faceva domande”, “Maria conferiva, a tutte le cose che faceva, una certa solennità; senza imporle per niente all’attenzione, anzi sbrigandole con discrezione e silenzio”.

Quando la signora partorisce un bambino, la domestica ne diventa la balia, affettuosa e trepidante: le due donne se ne occupano senza reciproche gelosie, senza ansie di possesso, rinsaldando tra loro una complice ma sempre rispettosa solidarietà.

Maria riceve talvolta i parenti in visita dalla campagna, oppure invita l’intera famigliola dei datori di lavoro nelle vecchie case abitate da fratelli, cognati, nipoti: nelle rare e pudiche confidenze che si permette con la padrona racconta con nostalgia del padre severo, della povertà patita, delle figure più suggestive della sua infanzia e dei rapporti nutriti da maggiore tenerezza: con il nipote Fredo, sacerdote salesiano morto di tisi, con lo zio Barba e il fratello Giovanni, con le tante mogli e madri consanguinee usurate dai lavori domestici e nei campi. Si confrontano così a livello di microcosmo due diverse società: quella urbana e borghese, laica e intellettuale, e quella rurale, culturalmente arretrata ma salda nei principi morali e nei vincoli familiari, austera e ancora priva di rivendicazioni di classe.

Maria, scissa tra modelli di vita tanto differenti, rimane fedele a entrambi, con la dedizione che le è propria. Segue i padroni quando si trasferiscono a Torino, nonostante la diffidenza provata per la grande città, soprattutto per non dover abbandonare il bambino che le è stato affidato. Li accompagna obbediente nelle vacanze in Versilia o in montagna, partecipando a tutte le loro vicissitudini quotidiane, godendo e soffrendo di ogni loro gioia e dolore. “Maria non si era mai risparmiata; aveva sempre lavorato, per i suoi, ma anche per gli altri, quando ce n’era stato bisogno; lei voleva bene ai suoi, ma anche ai dolori degli estranei, compativa; e si sa che anche voler bene, stanca”. Infatti, si ammala di cuore: viene sostituita da altre governanti, e poi riassunta perché insostituibile. Fino all’inevitabile e malinconica conclusione del rapporto di reciproca dipendenza.

In uno stile asciutto e sorvegliato, mai retorico, Lalla Romano ha saputo rendere settant’anni fa atmosfere private e ambientazioni sociali, attraverso la descrizione attenta e intenerita di una donna poco consapevole, nella sua gracilità, della propria forza. Incapace di lusinghe e scaltrezze, docilmente rassegnata al suo ruolo di servizio privo di prospettive o speranze di riscatto, a Maria ci sembra debbano spettare le beatitudini promesse dal Vangelo.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 13 dicembre 2021