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SAFFO

SAFFO – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2012

A dispetto di una malevola tradizione che voleva la poetessa di Lesbo scarsamente avvenente, se non addirittura deforme, a noi piace immaginare questa grandissima “decima musa” così come ce l’ha descritta il poeta Alceo, suo contemporaneo : «dolce, coronata di viole». E così infatti ce la consegna questa splendida, anche editorialmente, antologia pubblicata da Nomos e curata da Silvio Raffo, che ne traduce egregiamente, con elegante dedizione, trentatré poesie, delle centoquarantaquattro che ci sono rimaste. E ne mette in luce, nella breve e intensa prefazione, la classica e limpida perfezione, sottolineando in queste composizioni «gli archetipi e i fondamenti della poesia lirica di tutti i tempi»: la presenza dell’io, del paesaggio naturale e della forza del sentimento amoroso, avvertito con tutta la delirante forza che squassa i sensi, intenerisce e immalinconisce l’anima, avvolge nelle spire accecanti della gelosia, fa esplodere il cuore di felicità. «Amore che scioglie le membra / dolceamara invincibile fiera», «vento / che sulle querce d’alto monte piomba», «Sei giunta, hai fatto bene, ti bramavo», «Io amo l’eleganza, lo sapete, / lo splendore del sole e la bellezza / mi toccarono in sorte e ne son lieta». Proponendo il testo greco a fronte, Silvio Raffo fornisce al lettore una traduzione assolutamente fedele alla struttura metrica originale, rispettosa in particolare della strofa saffica (costituita da tre endecasillabi e un adonio), e sottolineando la limpida perfezione dei versi, che anche dopo ventisette secoli mantengono tutta la loro luminosa classicità, che li rende sempre vivi e moderni, alla stregua di molta lirica novecentesca: «Naufragata nel cielo con le Pleiadi / la luna. E’ mezza / notte, il tempo passa. / Io giaccio sola».

 

«Leggendaria» n.99, marzo 2013

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SAMONA’

CARMELO SAMONA’, FRATELLI – SELLERIO, PALERMO 2008

Carmelo Samonà, studioso di letteratura spagnola, ha scritto il suo primo romanzo, Fratelli, a più di cinquant’anni, incontrando subito il favore unanime della critica. Il suo è in effetti un bel libro, scritto in maniera elegante, senza pesantezze o lungaggini. Poco più di cento pagine dedicate a una vicenda che non ha trama né grossi avvenimenti, non ha inizio né fine, non è in alcun modo “esemplare”: il sociale, il politico, non vi entrano assolutamente. Il reale stesso sembra avere poco spazio. E’ una storia tutta privata, intima senza essere intimistica, senza sbavature o autocompiacimento. E’ l’analisi di un rapporto particolare; di coppia, certo: ma tra due fratelli. Uno, che scrive in prima persona, dedica il suo tempo alla cura dell’altro che è malato di mente. Non c’è molto di più, se non presenze misteriose che a volte hanno consistenza corporea (una donna alleata-nemica, incontrata al parco, che a un certo punto si inserisce tra i due e sembra dividerli; la folla delle vie cittadine), a volte sono invece soggetti infidi, che sembrano solo fingersi reali, e non esserlo veramente (l’appartamento enorme e tetro in cui i due fratelli si cercano, rincorrendosi e nascondendosi; i vestiti che si scambiano, gli alberi del parco), a volte sono viaggi fantastici, racconti fiabeschi che appartengono a un codice linguistico modellato sull’espressività del malato, oppure la malattia stessa. I due fratelli vivono l’uno in ragione dell’altro, ciascuno misurandosi sulla presenza o l’assenza dell’altro («ci scrutiamo»). Ma mentre il malato vive gestualmente, con l’istintività che è propria della malattia, il sano analizza con spietatezza cerebrale sia i fantasmi del fratello sia i suoi stessi sentimenti, che oscillano tra affetto e sadismo, stanchezza e possessività. Controlla se stesso, le proprie effusioni, scompone parole e pensieri nel tentativo di decifrare il mondo in cui vive il malato. Sembra ad un certo punto individuarne la follia, scrutarne silenzi ed espressioni per arrivare a percepire almeno qualcosa di un universo che gli rimane sconosciuto. Il fratello è l’ignoto, l’irrazionale, e insieme la spontaneità animale, la fisicità che non ha bisogno di razionalizzazioni. In questa sua ricerca e ansia (che è intellettuale, come volontà di conoscere l’ignoto; ma è religiosa in questo rispetto per il sacro), il sano finisce per caricare anche la pazzia del fratello di dimensioni troppo colte: e questo potrebbe essere l’unico neo del testo. Rimane, comunque, un libro inquieto e misterioso, che si potrebbe definire, anche se il termine è generico, “spirituale”. In questa dimensione si può leggere infatti tutto un capitolo, il settimo, in cui il malato mantiene una sua segreta inconoscibilità, o inconsistenza, diventando agli occhi del fratello carico di tanti aspetti e risposte: «Sono tre leggeri colpi di nocche alla porta a vetri della mia stanza, scanditi e trattenuti più con affanno, direi, che con forza; poi la sagoma di una figura giovanile ancora imprecisa si disegna nella smerigliatura dei vetri e resta per un poco così, immobile ed implorante, in attesa della mia voce… Cercami – è la sua strana risposta: la voce è tremula e sorda, le parole, sillabate staccate l’una dall’altra, ripropongono un vecchio invito. Cercami di nuovo – aggiunge – anche se mi hai trovato».

 

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www.sololibri.net/Fratelli-Carmelo-Samona.html             26 ottobre 2015

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SANGUINETI

EDOARDO SANGUINETI, POSTKARTEN – FELTRINELLI, MILANO 1978

Il teorico che negli anni ’60 era partito dall’identificazione linguaggio=ideologia, si era costruito una poesia coerente, portando la provocazione al livello più alto, avvicinandosi (con un tecnicismo esasperato) all’incomprensibilità per evitare il recupero. Pensava che per scardinare l’ideologia borghese servisse in primo luogo scardinare il linguaggio borghese. Ora Edoardo Sanguineti nelle sue ultime poesie il linguaggio non lo disordina più; lo usa, anzi, per comunicare. Scopre la carica positiva della lingua d’uso, ne scopre e ne utilizza tutta la sua tradizione letteraria (c’è Gozzano, ma anche Montale). Scopre ritmi e orecchiabilità, rivaluta la funzione della memoria come scrigno. Dietro a questo ripensamento letterario-estetico sta una questione molto grossa. Sanguineti non provoca più, non crede più alla funzione graffiante dell’avanguardia: lo sperimentalismo letterario viene delimitato a strumento di indagine linguistica. C’è dietro – chiaramente – una mediazione politica. Sarebbe semplicistico rifarsi solo al compromesso storico. Politicamente, c’è stato il ’68 e il recupero del ’68. Letterariamente c’è stato il Gruppo ’63 e il recupero del Gruppo ’63. Sanguineti si è adeguato alla storia. La poesia gli serve come strumento: prima aveva come oggetto gli altri (li provocava); ora ha per oggetto l’autore stesso e il suo mondo. E’ uno strumento d’indagine. Queste Postkarten sono cartoline scritte da un intellettuale organico all’intellighentia occidentale borghese, che riflette sul suo ruolo. Testimonianze di viaggi, di conferenze e di dibattiti. Salottiere e disperate. Farcite di citazioni, di polemiche colte, di rimandi culturali, di frecciatine ad amici e nemici (Sciascia, Cacciari). Il pubblico è chiaramente limitatissimo: Sanguineti sa di scrivere per pochi e perlomeno non bara. Se una volta la discriminante era la comprensione del testo, ora direi che è del tutto “ambientale”. Certi accenni, c’è chi li coglie e chi no. Certa infelicità (tra un aereo e l’altro, tra un party e l’altro), c’è chi la comprende e chi no. L’adesione di Sanguineti al comunismo è tutta cerebrale, infatti non si definisce comunista, bensì materialista storico. La sua poesia è cerebrale, mediata da un filtro (enorme) di cultura borghese. Ma nonostante il fastidio che può derivare da questo che continua a essere snobismo culturale, io credo che una cerebralità lucida e infelice, che riconosce i suoi limiti, sia ancora meglio della troppa visceralità/emotività dei tanti predicatori rossi che ci sono in giro.

Poesia n. 50:

Ho fatto passi indietro da gigante, in questi mesi: / il mio cervello / trema come marmellata marcia, moglie mia, figli miei: / il mio cuore è nero, peso 51 chili: / ho messo la mia pelle / sopra i vostri bastoni: e già vi vedo agitarvi come vermi: adesso / vi lascio cinque parole, e addio: / non ho creduto in niente.

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 21 giugno 1978

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SANGUINETI

sanguineti

EDOARDO SANGUINETI: DALL’OPPOSIZIONE AL COMPROMESSO – 1985

 

ma qui ho scoperto che / non ho più età: che sono morto molte volte, almeno: // e che adesso, che potrei dire / tutto, proprio, non essendo più vivo davvero, non ho più niente da dire, ecco:

scriveva Sanguineti, nel ’77, a chiusura del suo Postkarten (PK 67), evidenziando (secondo la nota in copertina) «un’aspirazione al silenzio…che indica una pausa, forse la necessità…di fare il punto». Quel silenzio è rimasto un pio desiderio, durato poco più di due anni, se Sanguineti ha pubblicato già nell’80 Stracciafoglio (STR): un libro doppio, composto da una prima sezione di 47 poesie, che continuano idealmente il percorso di Postkarten e di Reisebilder (R), e da una seconda serie di testi d’occasione scritti tra il ’57 e il ’79. Quest’ultima parte (Fuori Catalogo) si presenta come una miscellanea di interventi tanto disarticolati da giustificarsi soprattutto per il loro valore documentario: si passa infatti dalle polemiche contro una certa cultura progressista ma non materialistica (i cui simboli sono Moravia e Pasolini), agli acrostici-omaggio ancorati a uno sperimentalismo ormai di maniera, per arrivare alle più recenti testimonianze civili elettoralistiche scritte nel nome del PCI (Primo Maggio, Federbraccianti, 16 giugno 1944, Vota comunista, Ballata per gli anni 80).
Il Sanguineti messo in luce da questi componimenti (sparsi, ricordiamolo, lungo un ventennio) è quello meno catalogabile stilisticamente, meno omogeneo nei contenuti, e che perciò più sfugge a una valutazione critica che voglia tentare un pedinamento del poeta nella sua ultima parabola, e una sovrapposizione dell’autore (che nello scorso decennio ci ha fornito indicazioni ibride e fuorvianti) con il politico invece sempre lucido nei piani e conseguente negli sbocchi. Pertanto rinuncio a soffermarmi anche sulle due poesie più emblematiche di questa seconda sezione, quelle dedicate a Pasolini (Una polemica in prosa, del ’57, e Le ceneri di Pasolini, del ’79), perché la lettura derivante da un puro e semplice accostamento dei due testi potrebbe solo riscontrare, in maniera anche riduttiva e ovvia, un interessato recupero e riadattamento di Pasolini in una prospettiva nostalgica e conservatrice. Mi importa invece discutere specificamente la prima parte del volume, che dà il titolo alla raccolta, per rilevare come essa si inserisca fedelmente nel solco già tracciato dagli ultimi due libri, ribadendo scelte linguistiche e ideologiche che segnano un confine netto dalle prime posizioni sanguinetiane, fino a fare della sua poesia odierna «un’arte da museo» (1), e del suo autore quello che egli desidera essere: «un professore, un deputato, un vetero» (STR. 47).
Dai primi testi poetici a oggi, Sanguineti è venuto man mano delimitando e circoscrivendo il ruolo e la funzione della ricerca e della sperimentazione linguistica a strumento di indagine letteraria, a tirocinio e banco di prova delle proprie capacità espressive (2). Era evidente che dopo Laborintus e Erotopaegnia, Sanguineti non potesse spingersi oltre sulla strada della disgregazione linguistica, della dissacrazione ironica, della desublimizzazione eversiva, pena l’arrivo al silenzio, all’autocensura. Quindi, s’imponevano una revisione, una sterzata, che effettivamente ci furono, in parte già nel Purgatorio de l’Inferno (1960-1963), ma poi soprattutto in Reisebilder e Postkarten: il linguaggio veniva rivalutato nella sua positività, come strumento di comunicazione, indipendentemente dagli inevitabili abusi interpretativi e dai fraintendimenti più o meno consci. Nell’impossibilità e inutilità della provocazione, esso poteva e doveva servire all’utente-soggetto come strumento di analisi interiore e ponte verso l’esterno, verso i lettori.
Di conseguenza, il nuovo linguaggio di questa nuova poesia sanguinetiana perde il suo connotato più direttamente ideologico (linguaggio come espressione e creazione di storia e ideologia, linguaggio riconosciuto come mistificazione e usato in quanto arma disgregatrice contro l’ordine borghese), in qualche modo si neutralizza, e, incaricandosi non tanto di scandalizzare quanto di far partecipare, non ha più come oggetto gli altri (=provocazione), bensì l’io del poeta (=indagine psicologica). Diventa coscientemente lingua letteraria, che parte dai crepuscolari, attraversa gli ermetici per approdare a un discorsivismo di impianto realistico. In questo ambito, anche la memoria è riscoperta con una sua specifica funzione, quella appunto letteraria: essa viene presa di nuovo in considerazione come forma di conoscenza (proprio nel senso “greco”); la poesia deve essere memorizzata (imparata a memoria) per assicurarsi una circolazione e quindi una fruizione più ampia (3). Poesia come parto di memoria, vaglio-travaglio di tradizioni concorrenti. E poesia come memorabilità. Da qui la scoperta “tecnica” del ritmo, della facilità e della cantabilità, delle rime, della narrazione. In una parola, del carattere orale della poesia.
Ma le più importanti indicazioni estetiche dell’ultimo Sanguineti sono state espresse in direzione del contenutismo e del realismo, e se in Stracciafoglio non troviamo le concrete indicazioni di stile e le esplicitazioni di poetica che avevano costituito la chiave di lettura di Postkarten, anche qui c’è però un costante adeguarsi alle scelte linguistiche inaugurate (e propugnate, difese ideologicamente)
nel libro precedente. Come si deve scrivere una poesia, Sanguineti l’aveva già spiegato in PK 49: alcuni versi possono offrirci un particolare orientamento su come decodificare la sua ultima produzione. Alla base del nuovo realismo sanguinetiano sta un’attenzione per il fatto minuto, quotidiano; non la storia, bensì la cronaca, il particolare, l’umile, tornano a essere argomenti eletti, ingredienti basilari per una poesia che si vuole domestica (ma che spesso finisce per risultare addomesticata):

PK 49
per preparare una poesia si prende “un piccolo fatto vero” (possibilmente / fresco di giornata):

La poesia va “preparata”, in spregio a qualsiasi mistificazione sull’ispirazione, sull’occasione poetica, sull’attitudine interna: scrivere versi è un’operazione intellettuale, un sapiente collage razionale (4).

conviene curare / spazio e tempo: una data precisa, un luogo scrupolosamente definito sono gli ingredienti / più desiderabili, nel caso: idem per i personaggi, da designarsi rispettando l’anagrafe; / da identificarsi mediante tratti obiettivamente riconoscibili):

Ritorniamo ai topoi aristotelici: spazio, tempo, azione, «precisi», «scrupolosamente definiti», che «conviene curare»: dati di prima mano, avvenimenti che presuppongono la partecipazione o almeno la presenza del poeta. Eventi autobiografici, amici o conoscenti da segnalare scopertamente, in modo tale che siano facilmente identificabili e collocabili nel loro ruolo. A questi suggerimenti, Sanguineti si attiene anche nei versi di Stracciafoglio, sottolineandoli in particolare in:

STR 46
comunico le coordinate necessarie: torno da Como, è il 26 / settembre, sono le 21,37, ho chiesto il conto al ristorante, prenderò il rapido / delle 21,50

E ovunque, nomi e cognomi di protagonisti della cultura nazionale e internazionale, interni ed esterni europei (5), mesi-giorni-ore precisamente segnalati. Ma bastano luoghi, date, personaggi, fatti oggettivati nel loro concreto “essere accaduti” per poter parlare di realismo? E secondo la nota distinzione lukacsiana, a quale realismo potrebbe far riferimento Sanguineti, a quello socialista o a quello critico (oppure si deve postulare l’esistenza di una terza via anche al realismo?)
Sembra infatti pretestuoso (e presuntuoso) definire realista una poesia in cui attori e ambienti non hanno altra funzione, altra connotazione (non parliamo di collocazione di classe!) se non quella di fare da scenario all’individuo poeta. Su sfondi evanescenti si agitano personaggi-larve, evocati come spettri da un buio in cui ripiombano nello spazio di due versi, in una poesia diaristica più vicina al diario di Montale che a quello di Gozzano, dove è più urgente l’angoscia che l’ironia.
L’oggetto di questa poetica è sempre l’io sanguinetiano, ma non tanto come ricerca o viaggio interiore, quanto proprio come esibizione di sé, tentativo di coinvolgere chi legge nel ruolo di confessore-assolutore. E’ legittimo allora parlare di autobiografismo per questi «monologhi esteriori» (STR 47) in cui l’intellettuale Sanguineti si esibisce, si sfodera, si osserva volteggiare (ironico e patetico, edulcorato e selvaggio) in ambienti eterogenei ma sempre accomunati da un’identica posizione medio/alta borghese, culturalmente à la page. Si potrebbe addirittura supporre nel poeta la volontà di ricostruirsi con i versi una biografia ideale, che non si limiti a un tradizionale e consolatorio “portrait of himself”, ma ambisca a una severità oggettiva e distaccata:

STR 5
il sugo, nel guardarsi, è sapersi guardare: (è l’oggettivazione: / che si ottiene): (è l’oggettivazione che si propone, ecc.):

STR 108, Cinque risposte
(e l’importante, sempre, è vivere in terza persona):

Ciò che si ricava da un’autorappresentazione del genere, che tende all’imparzialità nel ritrarre e all’impersonalità nei risultati, è l’immagine un po’ stereotipata (proprio perché voluta, costruita come un puzzle) dell’intellettuale che si dibatte tra angosce di degradazione fisica e incubi di tradimento o dispersione morale.

STR 26
eccomi qua, piazzato al caffè della stazione, ridotto così come mi vedo / (e come tu mi pensi, certo), a un involontario inventario di sbriciolate / gesticolazioni ossessionali, di male contenuti stralci di quotidiane psicopatologie / sublimali: ( e a un individuo): ( a un tipo):

STR 31
dove finisce il mio io, non lo so, io: ho coscienza, soltanto di un supplemento / di investimenti e di proiezioni nelle mie calze e cravatte, nelle mie chiavi / che ho in tasca, nelle mie valigie che ho in mano:

STR 14
nuoto nel vuoto, in stati d’ansia a strati, più o meno densi, fasciato / dal mio niente:

Come in Reisebilder e in Postkarten (6), anche in Stracciafoglio, se pure in misura inferiore, l’invecchiamento del corpo diventa ossessiva minaccia di dissoluzione, da cui Sanguineti si difende con un’ostentata scatologia liberatrice:

STR 45
di cerume / nelle mie orecchie, l’unghia incarnata, l’occhio di pernice, la cicatrice / nasale, e questo stesso ascesso dentario:

STR 9
per quel mio incubo di quelle mie corde, invece, che me le strappo via dalla mia gola, // vomitandomi laghetti di salive spesse (e diciamole, in breve, le mie corde vocali), / mi sono fatto le mie associazioni libere, alla mia prima siesta: // e il risultato / è che parlano in favore del marcio che mi morde dentro:

STR 10
e me lo sono poi sfogato, / tra schizzi e spruzzi, sopra un trono da lustrascarpe, un cesso da stazione, vero, da / antiquariato industriale, il mio intestino;// …mi pulivo il mio culo, finalmente:

Se a livello inconscio (si confrontino anche le STR 42 e 44) la fisicità rimane un nodo irrisolto, razionalmente e ideologicamente si vede in essa una possibile risposta positiva, un traguardo da raggiungere:

PK 35
(e ho concluso che il paradiso è chiavare nel sole, forse, pieni di Saint-Emilion):

STR 43
le più convinte benedizioni devono piovere sopra coloro, / certo, che legarono il proprio nome al piacere: gastronomi sottili che elaborarono / inaspettati intingoli succulenti, geniali suggeritori di estatiche posizioni erotiche / inedite:

Ma questa dissociazione tra ciò che la ragione sa (e vuole) e ciò che l’elemento irrazionale teme, esiste ed è difficilmente superabile, anche per quello che riguarda la sfera dell’etica e della politica. Anzi, proprio in questo campo Sanguineti patisce la divaricazione più sofferta tra speranza e conoscenza, utopia e compromesso o, in termini pasoliniani, cuore e viscere. Insomma, da una parte la coscienza che morde, dall’altra il cervello che finge.

STR 18
tra il pubblico e il privato, per capirci, patisco, ti confesso, di una gestibile / schizofrenia:

Infatti, se nel privato si trova a fare i conti con piccoli fallimenti quotidiani (come padre, come marito – cfr. STR 2, 83, 46, 47), con la noia di rapporti abitudinari o il tradimento di amicizie, nel pubblico l’infedeltà “all’idea” è vissuta con angoscia maggiore, proprio perché non investe solo la sfera affettiva. Perciò, se in alcune poesie Sanguineti sembra voler convincere se stesso della propria coerenza politica attraverso un rigido richiamo all’obbedienza e alla tradizione, e la sua posizione risulta essere quella – datata – dell’engagé organico e sentenziante (cfr. STR 20, 30, 34, 47), più spesso questa sicurezza adamantina si sfalda, rivelando il patetico simulacro di un “io” improbabile:

STR 41
sospetto che una falla possa aprirsi / sotto i miei piedi, nel mio tempo pieno: // mi sorveglio e mi invigilo (e mi / punisco, è chiaro), cercando nei miei giorni, vecchi e nuovi, l’indizio che mi svela:

STR 15
quello che credo, io lo vorrei volere:

STR 27
mi vivo sotto falso corpo, per potermi vivere ancora: e con un’idea di me / che a me nascondo: (e che nascondo a te, specialmente):

L’idea di un se stesso da nascondere potrebbe essere proprio la consapevolezza di un cedimento che non si vuole ammettere, la nostalgia per la durata e l’incrollabile fiducia negativa del passato: nostalgia di un’aggressiva disperazione che ha ceduto il posto a una composta attesa, e di una vivacità/vitalità cui è subentrato il tranquillo pessimismo odierno. C’era già in Postkarten una poesia che segnava in maniera illuminante questo passaggio dalla ribellione alla resa:

PK 26
c’ero una volta io, disperato e vivo: / e ho piegato / per sempre la mia testa sopra il tuo grembo, dentro la tua matrice: / mi basterebbero un paio di testimoni, per salvarmi, adesso: per garantirmi / secco e sgradevole come mi speravo, intrattabile come forse sono stato: (7)

Questo movimento involutivo, di arretramento dall’esterno verso l’interno, dalla proiezione nel futuro all’equilibrio nel presente, trova in Stracciafoglio una sua pseudo-giustificazione politica, di realistico adeguamento alla concretezza dell’ora storica, di matura accettazione del compromesso:

STR 7
e che se un poeta ci sta a fare un qualche cavolo di cose, per caso, di questi tempi / oscuri e vuoti, sarà un poeta spretato, in borghese: (e un borghese): (va bene, ma uno, / intanto, che ci dice che così stanno le cose come stanno):

STR 34
e tuttavia, liquidata l’utopia, / mi allontano a velocità fantastica, se non altro, da sirene, da mostri, da chimere:

STR 36
all’utopia ho rinunciato senza pena: / penso, semplicemente, oggi, con tanto sobrio realismo, che sopravvivere / in comune, con casa, cibo, abito, scuola, lavoro, pensione, ecc., qui, ormai, / sarà un’impresa disperata, per gente civile: (e che non c’è da chiedere di più, / molto, al mondo: e che questo, forse, sarà già tutta un’utopia, per noi):

Sembra un po’ un programma da poetica dei sacrifici, in accordo con Lama e Berlinguer: per cui la felicità sta tutta nell’accettare il presente, pur nella sua meschinità, e nell’accantonare l’illusione utopica:

STR 37
ho incominciato a capire il presente: (parlo per me, parlo di me): (ho incominciato / a goderne, a goderlo)…// ho incominciato a conoscere la felicità, davvero, la vera:

Politicamente, se tentiamo un traslato, è proprio un caso che il presente, adesso, in Italia, si identifichi con la DC, e l’utopia con il non-potere dell’opposizione che è rimasta? Probabilmente no, se Sanguineti, oltre a essere il poeta che scrive queste cose, è anche Deputato PCI.

STR 36
credo nel compromesso storico, nella via italiana / al socialismo, nella dittatura del proletariato (con le sue varie, e se vuoi anche / infinite incarnazioni storiche possibili, d’accordo): // e in Antonio Gramsci:

Eppure, in Stracciafoglio, non è tanto questo messaggio politico – lineare nello sviluppo e nelle finalità “pubbliche”, ma lacerante e schizoide nel privato – a creare sconcerto (tra l’altro, questo perpetuo interrogarsi, e fingersi risposte convincenti, e ancora non rassegnarsi alla finzione, e di nuovo cederle, può costituire la base per una preziosa autocritica), quanto il fatto che tale contrastato messaggio si affida a una poetica che invece non fa i conti con se stessa, e da circa un decennio si offre immutata e ripetitiva.
Da Reisebilder a Postkarten fino a Stracciafoglio, infatti, la poesia sanguinetiana si struttura non solo a livello sintattico e formale (ossessive insistenze sui pronomi, ripetizioni, incisi e inversioni; moduli discorsivi, plurilinguismo, citazioni, formule proverbiali o gnomiche), ma addirittura graficamente (stesura orizzontale sulla pagina, parentesi nelle parentesi, due punti), secondo schemi pressoché invariati. A questo «intollerabile tardo stile cacofonico» (STR 12), Sanguineti assegna il compito di rifondare il neo-contenutismo (8), recuperando la funzione comunicativa della poesia ma perdendo nello stesso tempo il suo carattere “critico”. Perché questo suo “far poesia”, lungi dal mettere e dal mettersi in crisi, appare ormai codificato, ritualizzato e, in quanto tale, prevedibile. Sanguineti si è bloccato in un impasse non tanto politico (abbiamo visto come la sua posizione coincida con quella del Partito Comunista, e proprio per questo non sia isolata e minoritaria), ma estetico.
Mentre in Laborintus la disgregazione e la nevroticità del testo rivelavano un indubbio progetto di eversione ideologica attraverso l’eversione linguistica, negli ultimi tre volumi una poesia carica di tradizioni letterarie torna a proporsi come divertissement, consolazione, confessione. E lo fa servendosi dei contenuti che abbiamo analizzato (qua un po’ di tenerezza maritale o paterna, là una spolveratina di cupio dissolvi, molte citazioni, qualche interno e qualche esterno europeo) e di una forma prosaico-saggistica sostanzialmente sempre uguale a se stessa. Con Stracciafoglio Sanguineti ha ribadito la sua conciliazione col mondo e con il linguaggio, si è riconfermato poeta morbido (cfr. PK 26) pronto all’indulgenza e all’auto-indulgenza, abissalmente distante dalla secchezza e sgradevolezza dei tempi del Gruppo 63. La scelta di non scandalizzare più la borghesia è stata giocata sui due fronti, quello politico e quello poetico: un patto stretto con gli uomini e con le parole:

STR 17
but men are men, l’ho imparato a mie spese: (in inglese): (come ho imparato / a rovesciarlo in positivo): (a mie spese, anche questo: questo rovesciamento: / l’umano rovesciarsi nell’umano): //…e ho scoperto la battuta / parallela: (ho scoperto che posso rovesciarmela, anche quella): / (se lavori con le parole); (se lavoro): adesso: but words are words: // (che è l’unica mia mossa):

Per cui, se gli uomini sono uomini – e ad essi bisogna adattare, costringendole, teorie e idee -, le parole sono parole, e anche in omaggio a esse Sanguineti ha accettato il compromesso.

 

 

NOTE

1) La definizione è dello stesso Sanguineti, riferita all’avanguardia: cfr. Ideologia e linguaggio. Milano 1978, pp. 65-66, e Una polemica in prosa, STR 63: «io spiegavo, a suo tempo, /…come io / tentassi di fare dell’avanguardia, / in quel libretto, un’arte da museo». È chiaro che qui non viene usata, tuttavia, nell’accezione sanguinetiana.
2) Questo uso strumentale dello sperimentalismo viene ammesso in Cinque Risposte (STR 108): «quando mi allontanai dal labirinto, ne compresi la forma: (quella forma, / così, l’ho compresa due volte: costruendo il labirinto, e allontanandomi: //…(e voglio dire, anche, che bisogna prendere e lasciare, nel tempo):»
3) Cfr. PK 49: «concludo che la poesia consiste, insomma, in questa specie di lavoro: mettere le parole come / in corsivo, e tra virgolette: e sforzarsi di farle memorabili, come tante battute argute / e brevi: che si stampino in testa, così, con qualche contorno di adeguati segnali / socializzati): (come sono gli a capo, le allitterazioni, e poniamo, le solite metafore): / (che vengono a significare, poi nell’insieme: / attento, o tu che leggi, e manda a mente):». Dove la raccomandazione “dantesca” implica un prioritario fine didattico della poesia: essa si deve far ricordare perché insegna qualcosa, il lettore deve memorizzarla per imparare, e il poeta torna a essere “maestro”. L’aveva già scritto Montale, Nel nostro tempo, Milano 1972, p.51: «Un’arte che distrugga la forma pretendendo di affinarla si preclude la sua seconda e maggior vita: quella della memoria e della circolazione spicciola».
4) La polemica di Sanguineti ha come obiettivo la poesia aristocratica, intrisa di se stessa, poesia “d’atmosfera” che oggi sembra tornare di moda tra i poeti “innamorati” della parola. PK 60: «raccomando ai miei posteri un giudizio distratto, per i poeti del mio tempo: / (perché fu il tempo, dicono, della distratta percezione): // è inutile pensare, adesso, / ai neostrutturalisti dannunziani (e a tutti gli “orecchini” che verranno, se verranno): / (come è inutile diagnosticarli, rigidi, questi sciamani di Lucifero, e le loro squisite / disperazioni, tra le fedi e le speranze dell’ultima spiaggia borghese, tra i lampi / ardenti dell’apologetica indiretta apocalittica):»
5) Il viaggio costituisce uno dei fili conduttori dalle poesie di Reisebilder in poi: viaggio inteso anche in senso metaforico come scoperta e rinuncia, come distrazione dall’impegno e ampliamento di confini, come stordimento e alternativa all’analisi cerebrale severa (viaggio come consolazione?).
6) PK 8: «perdere / la faccia ( e perdere la testa) è facile dunque; (ma è poi niente, / se pensi che mi porto ancora addosso i pollici, i capezzoli, i coglioni):»; PK 50: «il mio cervello / trema come marmellata marcia, moglie mia, figli miei: / (il mio cuore è nero, peso 51 chili: // ho messo la mia pelle / sopra i vostri bastoni:»; PK 51: «io ho deciso di ingrassarmi, ormai: / che mi sono visto il mio teschio nudo, dietro lo specchio del bagno:»; R 39: «questi cuscini che si spappolano, formicolano mostruosamente / dei miei capelli perduti: / ritornerò mezzo calvo, all’ombra dei limoni in fiore:»; e ancora R 40, R 45, PK 53, PK 38.
7) È forse il caso di ipotizzare, nei due attributi iniziali, un’eco della “disperata vitalità” pasoliniana, dove anche per Pasolini si trattava di una lotta utopica e perdente contro l’inerzia del buon senso comune.
8) Cfr. Purgatorio de l’ Inferno 5: «o quando dissi (all’altro): (al Cristallo, credo) che bisognava / (quel pomeriggio) fondarlo: (il neo-contenutismo): (viri duplices): ( e fu cosa / fatta):».

 

I libri di Sanguineti citati in questo studio sono:
Laborintus, Magenta, Varese 1956; Opus metricum, Rusconi e Paolanni, Milano 1960 (contiene Laborintus ed Erotopaegnia); Triperuno, Feltrinelli, Milano 1964 (contiene Opus metricum e Purgatorio de l’Inferno); Wirrwarr, Feltrinelli, Milano 1972 (contiene T.A.T. e Reisebilder); Postkarten, Feltrinelli, Milano 1978; Stracciafoglio, Feltrinelli, Milano 1980 (in appendice Fuori Catalogo, che raccoglie poesie d’occasione scritte tra il 1957 e il 1979).

 

«Testuale» n. 4, dicembre 1985

RECENSIONI

SANT’ELIA

EDOARDO SANT’ELIA, PULCINELLA A DONDOLO– GRIMALDI, NAPOLI 1998

Edoardo Sant’Elia è nato e vive a Napoli, città di contrasti stridenti, in bilico sempre tra pensiero speculativo ed effusione sentimentale, e tra canto e filosofia, tradizione e trasgressione. Della cultura partenopea Sant’Elia ha nutrito la sua produzione letteraria che spazia dalla saggistica alla poesia, ma soprattutto la sua visionarietà interiore, e un particolare gusto musicale, melodico, che permea – prima ancora di farsi voce – il flusso dei suoi pensieri, e li dirige.
Attivo da vent’anni nel panorama letterario italiano, fondatore e direttore del semestrale Il rosso e il nero, Sant’Elia ha pubblicato molto su riviste e in edizioni raffinate, a tiratura limitata, consapevole che la poesia è un’arte elitaria e di difficile accesso, ma insieme popolare e antica. Godono, infatti, i suoi versi di questa peculiarità che li rende atipici e affascinanti; usando termini bassi, di uso comune, e affrontando temi, situazioni e personaggi molto noti (dal cinema al fumetto alla fiaba), riescono tuttavia a creare un’atmosfera rarefatta ed elegante, percepibile nella sua raffinata ambivalenza solo da un pubblico ristretto.
Lo stridio appena avvertibile, ma concreto che consegue da questo gioco mimetico di aristocraticismo e tradizione popolare, offre alla produzione poetica di Sant’Elia uno straniamento ironico, e fa assumere alla sua figura di poeta-menestrello-cantore la maschera stupefatta di un Buster Keaton, dall’ininterpretabile, e insieme espressivissima, immobilità.
Appunto tra movimento e stasi, fiaba e cronaca, divertissement e tragedia, si situa la voce recitante di questo Pulcinella postmoderno perché disincantato, che sogna Posillipo avendo a che fare con Bagnoli, e suona delicato in un traffico assordante e indifferente un mandolino felice se a qualcuno arrivi almeno l’eco delle sue note.
Alla più tipica delle maschere napoletane, Sant’Elia ha dedicato il suo ultimo lavoro, Pulcinella a dondolo, un’elegante pubblicazione edita nel ’98 da Grimaldi, in 350 esemplari con tre disegni di Lello Esposito. In questo poemetto, Sant’Elia diventa narratore e regista di una favola che ha tutti gli ingredienti della tradizione folklorica: l’Angelo, il Demonio, la Morte. E ancora: lacrime e comete, luna e serenate, raccontate in una lingua che è mescolanza di dialetto da filastrocca popolare e italiano da girotondo infantile. Il protagonista, un assonnato e neghittoso (o forse consapevolmente recalcitrante?) Pulcinella, aggrappato a un cavalluccio di legno, in una corsa metafisica attraverso il firmamento, spronato da forze misteriose e da una voce (incalzante, assillante, imperiosa), viene spinto a correre dalla sera alla mattina verso un approdo non detto, ma facilmente intuibile e spaventoso.
«Corri, corri; chi t’aspetta / non c’è tempo, non c’è fretta». La corsa del cavalluccio appare disperata perché fuori del tempo e senza meta, una corsa dondolante e infinita, che si identifica con la stessa vita e ne segna il tempo, scandendola nella sua oscillazione: «Suonno, puortame luntano / ma con garbo, chiano chiano…». Pulcinella, stanco, incredulo, oppone resistenza passiva a chi lo incita senza sosta: e lo fa con i suoi modi miti, con il garbo che lo contraddistingue. Il sonno è il suo modo di dire no alla morte e alla vita, la sospensione del tempo e della sofferenza, l’unica possibilità di sognare uscendo dalla banalità del quotidiano. E il dondolio del cavalluccio è lo stesso della culla, del rollio della barca, del ninnare di braccia femminili: un Pulcinella che sente potente il richiamo alla regressione, alla scomparsa, all’innocenza della neonatalità. Ed è il ritorno alla voce materna, quella del canto e del dialetto, delle parole buone e semplici dell’infanzia, che Sant’Elia cerca di recuperare con una resistenza feroce nei riguardi di ciò che ci angoscia e ci sporca, turbandoci e spaventandoci: «Il Demonio adesso tace. / Il forcone è senza denti, / le sue corna due frammenti, / puoi contargli anche le ossa / mentre salta nella fossa». Chi sia che vince in questa lotta impari, se le tenebre o la luce, se la tenerezza del ricordo o la curiosità per l’ignoto, se la fiaba o il fumetto, è difficile dire. Ma i poeti hanno il dovere di credere più alla resistenza che alla resa.

«L’Immaginazione» n. 163, dicembre 1999

RECENSIONI

SANTAGATA

MARCO SANTAGATA, IL COPISTA – GUANDA, MILANO 2020

 Di Marco Santagata (Zocca 1947), illustre e versatile accademico (insegna Letteratura Italiana all’Università di Pisa), l’editore Guanda ha ripubblicato un romanzo, Il copista, già uscito in forma meno ampia da Sellerio nel 2000 e nel 2007. L’attività di studioso di Santagata, che lo ha reso nome noto a livello internazionale, è rivolta soprattutto alla poesia di Dante e Petrarca (delle cui opere ha curato il commento nei Meridiani Mondadori), di Leopardi e dell’800-900. A questa sua principale occupazione, ha affiancato nel corso degli ultimi vent’anni quella, altrettanto rilevante, di narratore (Premio Campiello nel 2003, Premio Stresa nel 2006), cimentandosi in ricostruzioni narrative di ambienti letterari, in rielaborazioni di materiale scientifico, nella giallistica.

Proprio nella nota finale al romanzo di cui parliamo, Santagata afferma di aver intuito, a partire da quando lo ha iniziato nell’estate del 1999, la possibilità di ricomporre le sue due anime di scrittore, indagando in particolare “i nessi profondi, e perciò nascosti, che legano ispirazione e biografia”, e l’investimento emozionale da cui nasce un’opera creativa.

Ne Il copista viene raccontata una giornata autunnale di Francesco Petrarca: autunnale non solo perché si svolge in un nebbioso venerdì ottobrino del 1368, nella Padova (“Città schifosa!”) che ospitava i suoi ultimi malinconici anni di vita, ma perché l’intera atmosfera che avvolge il racconto è permeata di una sottile e grigia angoscia, di abbattuta rassegnazione e di disillusa inquietudine intellettuale. L’illustre poeta sessantaquattrenne si alza, dunque, prima dell’alba, pressato da una serie di malanni fisici (ulcera, artrosi, disturbi intestinali e urinari), ma soprattutto afflitto da “neghittosità e accidia” che lo inducono allo sconforto e a frequenti, immotivati scoppi d’ira. Colpito negli ultimi anni da dolorosi lutti (il figlio Giovanni morto di peste, come l’adorato nipotino Francesco in cui aveva riposto la speranza di una discendenza), e dalla fuga improvvisa del suo fedele copista, Giovanni Malpaghini (“Giovanni aveva assorbito il suo pensiero fin quasi al punto da identificarsi con lui stesso… copiava e nello stesso tempo mentalmente analizzava le pieghe più riposte del testo”), Francesco Petrarca si rifugia ora nei ricordi gloriosi della sua carriera letteraria e diplomatica, conscio di aver rappresentato per la cultura europea e per la Chiesa un luminoso esempio e un vanto ineguagliabile. Ma è tormentato dalla consapevolezza di non riuscire più a scrivere con l’entusiasmo e la grazia ispirata degli anni giovanili (si ripete “tu petrarcheggi, sei la scimmia di te stesso”), e di godere nel presente solo dell’eco di una fama leggendaria acquisita in passato. Rimpiange i viaggi e la frequentazione delle corti, le molte donne avute e la virilità perduta, la meditazione raccolta che gli offriva lo studio dei classici a Valchiusa, la privazione dell’affetto di una famiglia, impostagli dal voto di celibato ecclesiastico e dalla sua missione culturale. Con rimorso, ma sempre assolvendosi, rilegge i tormentosi rapporti con i due figli Giovanni e Francesca, nutrendo tacitamente il dubbio che anche il giovane e dotatissimo copista sia nato da una sua fugace relazione. Nella solitudine in cui è immerso, fedele compagnia è quella dell’anziana servetta analfabeta e deforme, che si muove nelle stanze ronzando leggera come un insetto, e poi quella offertagli da rari visitatori: l’amico Boccaccio, che lo implora di ricordarlo nelle opere che scrive, e il Signore di Padova, il colto Francesco da Carrara, suo fervido ammiratore e protettore.

Marco Santagata, in una scrittura elegante e forbita, si rivela molto attento alla ricostruzione dell’ambiente medievale (dalle suppellettili all’abbigliamento), e puntuale nelle citazioni dei versi del poeta aretino. Il suo romanzo assume un ritmo più coinvolgente quando affronta la crisi intellettuale attraversata dal protagonista, nel momento in cui decide di riprendere una canzone in sei quadri, in precedenza solo abbozzata e poi dimenticata, per raccontare la morte di Laura, musa ispiratrice di tutto il Canzoniere.

Nel corso della rielaborazione, Petrarca non solo prende coscienza della falsità della raffigurazione mitica della donna angelicata (“la nostra matrona sfiancata dalle gravidanze? … quel culone ballonzolante e quella pancia gonfia che neppure si distingue dalle tette?”), e quindi della propria passione illusoria e artificiosa, ma si scopre tormentato da ben più angosciosi rovelli spirituali, che lo inducono a interrogarsi sull’immortalità dell’anima e persino a rinnegare la fede cristiana.

Santagata ripercorre la composizione della canzone per Laura (la 323 dei Rerum vulgarium fragmenta) nelle varianti, commentandone le figure retoriche e intrecciandola con episodi e personaggi, spesso di fantasia, dell’infanzia e della maturità del poeta. Arrivato alle soglie della morte, Petrarca scopre, in una disperazione fredda ma serena, “che l’anima non esiste, che la vita non avrà né premio né castigo”. Nemmeno il riconoscimento di una fama dichiarata universalmente riesce a riscattare la sua intera esistenza dall’insignificanza: la stessa poesia è “labile consolazione”, favola, inganno che allontana dal vero, e l’amore è una costruzione della mente, un abbaglio della fantasia. L’ultimo verso vergato a conclusione della canzone per Laura suona dunque sconfortato e disilluso: “o mondo rio, nulla in te dura!”

Ma sarebbe opportuno sconfessare la propria opera, sacrificare la celebrità raggiunta per proclamare al mondo con assoluta sincerità quel suo nuovo orientamento intellettuale, scettico e irreligioso? “Sessant’anni di fatica, di lavoro, di sopportazione, una vita passata a sgusciare tra cardinali, signorotti, papi e imperatori, essere diventato Francesco Petrarca, conte Palatino per merito dell’ingegno, e poi distruggere tutto così, stupidamente, per quattro versi nati dalla fantasia di un ubriaco”.

La decisione del poeta è umanamente comprensibile, anche se non eticamente giustificabile: “Salviamo la gloria, che è l’unica via per sopravvivere”. I versi finali della canzone a Laura vanno modificati, in ossequio all’onore del mondo e alla fede cristiana.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 15 maggio 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SANTAYANA

GEORGE SANTAYANA, CHE COS’È L’ESTETICA? ‒ MIMESIS, MILANO 2019

Le cinquanta paginette di questo piccolo volume di George Santayana comprendono un’introduzione e una postfazione di Giuseppe Patella, una esaustiva bibliografia, le indispensabili informazioni biografiche e il testo di un breve e singolare saggio, Che cos’è l’estetica?
“Santayana chi?”, ironizza il curatore nel titolo della prefazione: perché di questo prolifico e raffinato filosofo-scrittore (nato a Madrid nel 1863, trasferitosi bambino negli Stati Uniti, stimato professore a Harvard per decenni, poi rientrato in Europa e stabilitosi a Roma, dove morì nel 1952 in un convento di suore, pressoché dimenticato da tutti), non è rimasta che una vaga eco di gravità teorica e morale.
La sua poderosa ed eclettica produzione letteraria (comprendente interventi critici su vari aspetti dello scibile umano, epistolari, poesie, articoli militanti, una biografia, il romanzo bestseller L’ultimo puritano) in Italia è stata tradotta e commentata in misura molto limitata. Secondo Patella, questa indifferenza a uno dei maggiori scrittori americani del XX secolo è dovuta in parte alla difficoltà di inquadrare la sua figura intellettuale in uno schema ben definito: estraneo a ogni scuola, cattolico poco tradizionale, rivoluzionario e conservatore insieme, solitario e bohémien, serenamente rigoroso negli atteggiamenti, era insofferente di ogni mondanità e accademismo.

Anche il saggio ora pubblicato da Mimesis, scritto nel 1904, non è facilmente classificabile come dissertazione filosofica. Infatti, Santayana nega all’estetica la definizione di categoria scientifica, separata da altri specifici rami del sapere. Essa può essere ritenuta un ramo particolare della psicologia, dell’etica, della storia dell’arte, della critica letteraria: eppure travalica tutte queste discipline, pur essendo apparentata a ciascuna di esse. “L’esperienza estetica è così estesa, multiforme e così sottilmente diffusa in ogni aspetto della vita che, come la vita stessa, estende la riflessione in diverse prospettive”.

Poiché riguarda la bellezza, appartiene sia al mondo reale che a quello ideale, agli oggetti concreti come alle loro immagini e al loro valore astratto. Musica e poesia non si possono toccare, un dipinto si può solo guardare: eppure i nostri sensi vengono sollecitati, l’immaginazione è stimolata, la ragione viene coinvolta in un giudizio quando ci rapportiamo ad essi. “I regno del bello non è un recinto scientifico; al pari della religione è un campo di esperienze sublimate che diverse scienze possono parzialmente attraversare, ma nessuna può interamente ricoprire”. Il piacere estetico, sia che nasca dall’ osservazione o invece dalla creazione, perfeziona e nobilita qualsiasi altro valore, anche quello utilitaristico, perché si basa sempre su qualcosa di sostanziale e razionale, e integra ogni attività umana, affermandone con pienezza la vitalità e la spontaneità immaginativa. Pertanto, l’estetica per George Santayana non ha validità e spessore come disciplina autonoma, bensì come esperienza che coinvolge ogni aspetto della vita, rendendola più armoniosa, più giusta, bella e buona, in sintonia con la felicità a cui deve tendere il moto perpetuo dell’esistenza universale.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Che-cos-e-estetica-Santayana.html        20 settembre 2019

RECENSIONI

SANTI

FLAVIO SANTI, MAPPE DEL GENERE UMANO – SCHEIWILLER, MILANO 2012

Il titolo di questo volume di Flavio Santi (1973) è senz’altro accattivante: «al confine tra la cartografia che uccide l’incanto dei mondi sconosciuti, e la genetica, che chissà cosa uccide», scrive nella sua generosa e ammirata prefazione Emanuele Trevi. Che definisce Santi «un pantografo in versi della nostra condizione di folli ridotti in cattività… stimolato da una dolente e sarcastica musa civile». Lo stesso autore poi esplicita la sua idea di poesia come «potenziale possibilità di mappare il genere umano, in un movimento dall’interno sempre più verso l’esterno, dall’Io all’Altro, in cerchi vorticosamente più concentrici». Con queste premesse, il lettore si avvicina alle pagine di Santi con trepidazione e grandi aspettative, sperando di venire folgorato da qualche metafora, soluzione stilistica, idea illuminante e rivelatrice che ci salvi dalle tenebre che ci sommergono. Ecco quindi il poemetto iniziale, dedicato a due icone nazionali di una generazione inquieta e travolta dalle sue stesse aspirazioni (Marco Simoncelli e Pietro Taricone) in cui il poeta si finge ironicamente clone di un grandissimo di due secoli fa: «mi sono ritrovato anch’io, / per chissà quale oscuro evento, / a nascere Giacomo Leopardi oggi, / che responsabilità, a culo scoperto in pratica». Quindi il dialogo-rispecchiamento-sbeffeggiamento con le figure, i temi, il mondo e la filosofia leopardiana diventa un irriverente e polemico scontro con la tradizione, la storia passata, i maestri celebrati che più nulla sembrano avere da insegnare alla disperazione attuale: «vaghe stelle e solitarie notti da masturbare, / e tu luna che fai tu luna? / Abbandonato, occulto / tutta la notte con in mano il rasoio / del proprio cazzo e con l’altra a cercare / buchi di talpa nella rete / quando davanti non passa / un concilio, un papa, un Pio benedicente, / nemmeno un’etica erotica o pornografica / ma solo il proprio stare qua, in questo / natio sito selvaggio, investito / dalla luce del video, / le mani umide / di chi si è appena fatto, / non mi sono ancora pulito ,/ qualche goccia sulle dita / naufragare il corpo…».

E ancora: «O Nerina, Nerina mia. / La prima della serie: gambe aperte. / Le braccia conserte sui seni, / niente ostensione ascellare. / Nerina, hai la figa slabbrata / ma io ti chiaverò di solo pensiero». Il percorso che il poeta traccia dall’Io all’Altro è quindi scandito nelle varie tappe della sua crescita fisica, culturale, professionale e sociale: dai primi turbamenti sessuali dell’adolescenza, (con un’ esibita ossessione onanistica), agli scontri con l’ambiente familiare ottuso e asfissiante («Odio questo / Papà / fatto di dialisi e di fernet / che ha un inferno nel ventre. / Papà, cacca.»), alla satira rabbiosa contro il sistema universitario, le sue umilianti trafile burocratiche, i compromessi accettati o subiti per arrivare alla cattedra. E il cerchio della denuncia civile si allarga via via fino a comprendere l’ufficialità culturale («borghesi illustri / pieni di letame, morite o vivete / siete sassi, tanto è uguale»), il sindacato («Il sindacato poi è stato / un imbarazzante equivoco, / visto che si sono comportati / come i peggiori fascisti ai ministeri / più inetti. Mandarini dallo stomaco / ostruito, gerarchi bavosi, / pieni di rogna e piegati / sul proprio piccolo cazzetto o / a grattarsi l’ano e soffiare scoregge / che divulgano per lotte di classe»), il mondo intero, corrotto e mefitico. A cui Flavio Santi propone qualche sua ricetta di filosofica analiticità, qualche suggerimento di riscatto: «la storia è fatta di strati / di merda e gemme d’onice», «Il cazzo è condiloma dell’anima, / sua antenna, escrescenza / e mucosa. Dialogare col cazzo / è dialogare con l’anima».
E impietoso è anche il giudizio su se stesso e i suoi imbelli coetanei: «Siamo la generazione perlana / offuscata dagli strapiombi, / dalle risse per vedere Moana», «scopro che ci siamo laureati, / ma non cresciuti, siamo uguali / ai nostri padri», «tuo figlio, guarda, ha il cuore spezzato / e il latte ai testicoli e tanto pantano / ma intanto -piccola normalità- / caga dall’ano».

Emulo probabilmente di un Pasolini ben più temprato di lui nella versificazione e nell’indignazione civile, Flavio Santi ci lascia con due versi che sono davvero e finalmente, i più riusciti del volume , in una poesia dedicata a un misero Bertolt Brecht (e non «Bertold»!) che non ha più niente da dire all’umanità: «vita assassina come farò / a chiamarti bellissima?». Da riflettere, allora, sulle parole del prefatore Emanuele Trevi: «Non credo di esagerare affermando che queste  ‘Mappe’  sono un’opera di altissima ispirazione, un risultato poetico che non assomiglia a nessun altro». Forse (forse) esagera.

 

«criticaletteraria», 2 aprile 14

RECENSIONI

SANTONI

VANNI SANTONI, TUTTI I RAGNI – DUE PUNTI, PALERMO 2012

La casa editrice palermitana :duepunti ha in catalogo un’originale collana dedicata a scritture “zoologiche”, in cui vengono pubblicati racconti che hanno come protagonisti gli animali.
Si tratta di libriccini stampati con inchiostri ecologici su carta riciclata al 100%: una proposta, quindi, rispettosa dell’ambiente, in linea con i contenuti narrativi che presenta. Nel caso di cui occupiamo, lo scrittore toscano Vanni Santoni (Montevarchi, 1978) ha dedicato una sessantina di paginette, simpatiche e veloci, a Tutti i ragni.

Se l’aracnofobia sembra essere la paranoia più diffusa tra gli italiani, secondo approfondite indagini statistiche, Santoni confessa di esserne rimasto vittima solo in età adulta. Perché da bambino i ragni lui li amava: li cacciava e catturava con i suoi amichetti (Federico, Tommaso, Francesca… ), nella casa di campagna, nelle cantine, nei boschi. E poi li torturava, staccando loro le zampette, soffocandoli nel miele, asfissiandoli in barattoli. Li trovava ovunque: in bagno, sotto le lenzuola, addirittura nel brodo preparato dalla nonna; ne studiava le caratteristiche e le abitudini sui libri, o li sceglieva come protagonisti dei videogiochi. Piccoli, grossi, pelosi, neri-gialli-marroni-rossi-rosa, filiformi o tozzi, spaventati o aggressivi, solitari o in colonie, velenosi come la vedova nera e il ragno eremita, giganti come la tarantola e la migale. Al liceo e all’università il futuro scrittore scopre i ragni nel cinema, nei fumetti, nei giochi di ruolo: e poi se li ritrova ovunque durante i viaggi in Nord Europa, in Texas, in India, nei campeggi o nelle camere d’albergo con le fidanzate.
Finché avviene la tragedia che trasforma negativamente il suo rapporto con la specie degli aracnidi: viene punto al mignolo da un ragno velenoso, al pronto soccorso lo anestetizzano e gli asportano la parte necrotizzata, ricucendola poi con cinque punti. Amore e interesse si convertono allora in diffidenza, paura, rabbia, odio cieco, sentimenti che possono essere riconosciuti e neutralizzati magari con l’esercizio di una scrittura ironica.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Tutti-i-ragni-Vanni-Santoni.html       30 maggio 2016

RECENSIONI

SAPIENZA

GOLIARDA SAPIENZA, L’UNIVERSITA’ DI REBIBBIA – EINAUDI, TORINO 2012

Einaudi ristampa dopo trent’anni il romanzo che Goliarda Sapienza (intellettuale, attrice, femminista siciliana: donna libera e anticonformista) scrisse dopo la sua detenzione a Rebibbia per furto. Si tratta di pagine dense e veloci, dettate da un’ansia di resoconto e confessione che sopraffa anche la riflessione su ciò che significano colpa e castigo, pena e riscatto. «A sirene spiegate» l’autrice viene introdotta nel carcere, dapprima in una cella isolata, costretta in un silenzio e in un’immobilità innaturali che debilitano da subito anima e corpo e annullano qualsiasi fantasia o progettualità di futuro. Quindi trasferita in una cella comune, costretta a una promiscuità fisica e di pensiero che dapprima la sconcerta e spaventa, ma lentamente finisce per conquistarla a una consapevole, riconoscente solidarietà. Le sue compagne di prigionia appartengono in genere al popolo, si esprimono in romanesco, con un gergo colorito e iniziatico: sono condannate per spaccio di droga, furto, rissa, prostituzione, omicidio. Ma ci sono anche le detenute politiche, con una loro rabbiosa coscienza critica e utopistica. Hanno soprannomi di fantasia: Marilyn, Mamma Roma, James Dean, Annunciazione, Suzie Wong… Si amano e si odiano tra di loro, si picchiano e si denunciano alle guardiane, si invitano vicendevolmente nelle celle a prendere il tè, organizzano un loro mercatino interno, scrivono leggono cantano e imprecano, o vivono in una sorta di immobile catatonia. Ma le differenze di classe e di cultura rimangono inalterate come nel mondo di fuori: «Qui dentro noi privilegiati dalle famiglie, protetti fin da bambini dal bisogno vero, restiamo larve anemiche, né buoni né cattivi, né onesti né disonesti, a confronto di questa masnada di bucanieri che in un modo o nell’altro non s’è piegata ad accettare le leggi ingiuste del privilegio».

Una scuola di vita, anzi un’ università da cui si esce marchiati per sempre, diversi, e convinti che non si esiste se non nella collettività.

 

«Leggendaria» n.93, maggio 2012

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