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RECENSIONI

BARICCO

ALESSANDRO BARICCO, LA VIA DELLA NARRAZIONE, FELTRINELLI, MILANO 2022

Il saggio che Alessandro Baricco ha recentemente pubblicato da Feltrinelli, La Via della Narrazione, consiste nella trascrizione, opportunamente rielaborata, di una lezione tenuta alla Scuola Holden nel novembre del 2021, per l’inaugurazione di un seminario dedicato all’arte dell’insegnamento. Di arte, infatti si deve parlare, per ciò che riguarda la funzione maieutica dell’educare, cioè di sviluppare e trasmettere competenze e facoltà intellettuali e culturali, guidando e “tirando fuori” (dal latino e-ducere, estrarre) le potenzialità di un allievo.

Come fondatore nel 1994 della Scuola Holden, deputata appunto a insegnare storytelling e creative writing, Baricco in questo pamphlet si assume il compito di sostenere e difendere obiettivi e programmi, ormai diffusi a livello mondiale, mirati a indirizzare e addestrare i giovani aspiranti scrittori alla tecnica narrativa. Lo fa, nei primi tredici icastici capitoletti iniziali, suggerendo al lettore cosa siano “le storie”, quelle che meritano di essere condivise e raccontate, “tessere del reale… campi di energia” che vibrano “di intensità particolare, anomala”, muovendosi intorno a un’illuminazione iniziale, a uno choc di partenza. Le storie fondamentali della letteratura mondiale ruotano tutte su quattro perni fondamentali: il mistero, la riparazione, il gorgo, la diserzione. Creano, in chi legge o ascolta, interesse, emozione, turbamento, partecipazione. Il magnetismo da cui prendono avvio è più importante dei personaggi in cui successivamente si articolano, traduzione antropomorfa della corrente che le anima.

La storia, per arrivare al lettore, deve essere raccontata, trasformandosi da sfera a linea, da spazio a sequenza temporale: “C’è dunque una riduzione da fare”, che si ottiene attraverso l’espediente tecnico dell’invenzione di una trama. La trama si dispone non solo come successione di eventi, ma anche come rappresentazione di ambienti complessi.

Si può insegnare a narrare? Numerosi affermati romanzieri e poeti insorgono di fronte a quest’ipotesi considerata utopistica se non addirittura truffaldina. Baricco afferma invece, con consapevolezza priva di presunzione: “Sappiamo esattamente dove possiamo intervenire e dove no. Possiamo insegnare a costruire una trama, perché sia mappa completa e geroglifico leggibile. Non possiamo insegnare lo stile, ma possiamo rassicurarlo, difenderlo, farlo crescere. E se non possiamo insegnare ad avere una voce, possiamo insegnare a cantare a quelli che ce l’hanno”.

Tre elementi sono indispensabili alla costruzione di un racconto: storia, trama e stile, per non scadere in una narrazione di puro intrattenimento (senza stile), o in un’esibizione narcisistica (senza trama), o ancora nella saggistica (senza storia). Illusorio aderire alla teoria ingenua e riduttiva esposta dallo sceneggiatore americano Christopher Vogler nel famoso manuale di scrittura Il viaggio dell’eroe del 1992, in cui si indicavano regole e schemi precisi da seguire per ottenere un sicuro successo nel mercato editoriale. “Chi racconta diventa. Non si limita a organizzare il passato ma suscita il futuro”, e scrivendo trasforma la propria esistenza insieme a quella degli altri.

Una scuola di scrittura avvia in maniera professionale alla prassi di un mestiere, ma non solo. “Chi insegna a narrare è chiamato a condividere una clandestinità e a difendere un’insubordinazione, rigenerando quote di libertà, rimuovendo blocchi e paure”, disvelando insomma zone d’ombra della realtà e di sé stesso. Il saggio di Alessandro Baricco si intitola “La Via della Narrazione” echeggiando altri percorsi di conoscenza dell’io, praticati nella maggior parte delle filosofie analitiche e di meditazione trascendentale: “La cura della tecnica, l’attenzione per i dettagli, la fatica della correzione sarebbero allora quel protocollo di cura che è presente in tutte le Vie, dove il più alto traguardo spirituale passa sempre attraverso la riuscita di un gesto della mano, dell’occhio, del corpo”.

Come ci si educa a essere migliori, si può essere educati a scrivere bene, imparando con pazienza, umiltà e costante applicazione le strategie che rendono un testo più efficace.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 19 settembre 2022

 

RECENSIONI

BARILE

LAURA BARILE, AMELIA ROSSELLI – NOTTETEMPO, ROMA 2014

Laura Barile propone ai lettori una lettura ravvicinata e partecipe di alcuni testi di Amelia Rosselli, poeta tra i più essenziali e difficili del nostro novecento, artefice di una «lingua terremotata», di uno «sperimentalismo linguistico e metrico, audace e rigoroso al tempo stesso». Nell’introduzione, Barile offre una rispettosa e non invasiva ricostruzione della biografia rosselliana, dalla nascita a Parigi nel 1930 agli esili londinesi e newyorkesi (in fuga dalla persecuzione fascista che l’aveva brutalmente resa orfana di padre e zio), per soffermarsi sugli studi linguistici e musicali, e sull’approdo italiano – prima a Firenze, in seguito a Roma. Una formazione tormentata e dolorosa, che incise profondamente su Amelia, «dotata di un carattere estremo e di un fragile sistema nervoso, inquieta e inquietante adolescente», fino a minarne per sempre la salute psichica, costringendola negli anni ’50 ai primi ricoveri e a una serie di elettroschock. Fedele alla riservatezza nel privato del poeta («Tendo all’eliminazione dell’io»), Barile si concentra soprattutto sulla sua produzione in versi, a partire dal poemetto  La Libellula del 1958, che viene commentato nelle sue fonti ispiratrici – musicali e filosofiche – e nella sua originalissima struttura lessicale, che si serviva dell’onomatopeia come di frequenti calembours etimologici, di derivazioni e contrazioni e «parole fermentate». La metrica particolare di questa composizione comportava la chiusura del verso con un’interruzione secca, e frequentissimi enjambements, dettati dalla costrizione in 11-13 centimetri fissata dal suono del campanello «che nelle vecchie macchine da scrivere segnalava la fine del rigo». Questo monologo interiore, «fluido snodarsi di suoni e immagini in movimento, che si generano sulla base di processi associativi e musicali», vide la luce solo nel 1969, in un’edizione anomala di fogli A4, con caratteri tipografici che riproducevano quelli della macchina da scrivere. Le edizioni Nottetempo hanno scelto di impaginare i testi rosselliani ruotati orizzontalmente rispetto all’orientamento consueto, proprio per non spezzare i versi, aderendo così all’invenzione metrica del poeta, «che partecipa dell’immagine visiva e della partitura musicale». «E io / lo so ma l’avanguardia è ancora cavalcioni su / de le mie spalle e ride e sputa come una vecchia / fattucchiera, e nemmeno io so dove è che debbo / prendere il tram per arricchire i tuoi sogni, / e le mie stelle».

Altri testi fondamentali presi in considerazione e commentati da Laura Barile sono tratti da Variazioni belliche del 1964, e da Documento del 1976. Del primo libro si sottolineano sia la struttura musicale della lingua «rotta e scorretta», sia la «forma-cubo», lo spazio quadrato in cui Amelia Rosselli comprimeva «la tensione fra l’impulso corporeo e quello logico della scrittura», in un intreccio di serie e variazioni derivate dalla tecnica dodecafonica e dalle produzioni post-weberniane. Testi che intrecciano «passione amorosa, passione musicale e passione civile», dall’esaltazione femminile della sessualità alla tragedia collettiva della storia e della lotta di classe («Caduta sulla linea di battaglia. La bontà / era un ritornello / che non mi fregava ma ero fregata da essa! / La linea / della / demarcazione tra poveri e ricchi»): poesie spesso di difficile decifrazione, ma da seguire «col corpo», aderendo fisicamente ad esse, e «abbandonando la pretesa di capire tutto». Dell’ultimo volume pubblicato in vita da Amelia, vent’anni prima della sua scelta di morte volontaria, «tormentata dalla malattia nervosa, da allucinazioni uditive e da una forma di mania di persecuzione di tipo politico», Laura Barile commenta pochi versi programmatici, che è qui giusto e commovente riportare: «Conto di farla finita con le forme, i loro / bisbigliamenti, i loro contenuti contenenti / tutta la urgente scatola della mia anima la / quale indifferente al problema farebbe meglio/ a contenersi. Giocattoli sono le strade e / infermiere sono le abitudini distrutte da / un malessere generale. / La gola nella montagna si offrì pulita al / mio desiderio di continuare la menzogna indecifrabile / come le sigarette che fumo».

 

«succedeoggi», 20 marzo 2015   e  «Leggendaria» n.111, maggio 2015

RECENSIONI

BARSOTTI

DIVO BARSOTTI, SOLO L’AMORE CONOSCE – NERBINI, FIRENZE 2016

Del sacerdote Don Divo Barsotti (1914-2006) sono state pubblicate in anni passati diverse plaquette di poesie, che ora l’editore fiorentino Nerbini riunisce in un’unica raccolta, Solo l’amore conosce, introdotta dall’affettuosa prefazione che Geno Pampaloni scrisse nel 1982. Il famoso critico, legato da ammirata amicizia al religioso toscano, si confessava affascinato dal suo riserbo, dalla discrezione e dalla fermezza che trapelavano dalla sua persona, dalla sua “parola sobria” (coltivata nella meditazione e nel colloquio interiore) che tanto sapeva consolare e arricchire chi ricorreva a lui. E della poesia di Barsotti, intessuta di assoluto, trasparente nella semplicità, Pampaloni scrisse: “sgorga senza mediazione apparente dal momento meditativo. È una parola racchiusa entro un margine di silenzio”.

Davvero alcuni di questi versi raggiungono l’altezza vertiginosa, la pregnanza espressiva dell’ispirazione mistica di un Meister Eckhart, di San Juan de la Cruz, avvicinandosi inebriati anche all’esaltazione verbale del nostro Ferdinando Tartaglia: senza tuttavia rasentare mai l’eresia di quest’ultimo, ma mantenendosi fedeli all’ortodossia cattolica e al magistero ecclesiale. “Accoglimi nel tuo cuore / Tu che solo sei eterno”, “Ma Tu più intimo di tutti / e di tutti più inaccessibile Dio”, “Nel mio nulla io ti guardo: Tu sei. / Non so più nulla, non conosco che Te”, “Se non sono in Te, dove io sono? / Come, senza perderti, ti cerco?”, “In me ti dici, o Dio”.

Quello di Divo Barsotti è un dialogo continuo con il Creatore: non una ricerca, perché ha già trovato. Ma una lode, un ringraziamento e una incessante interrogazione personale sul rapporto che l’uomo deve instaurare con l’Assoluto. I suoi versi sono costellati, infatti, da punti di domanda, che non riguardano l’esistenza di Dio, di cui si ha certezza, quanto piuttosto il modo di conciliare la finitezza umana con l’infinito, il mistero con la rivelazione, la parola con il silenzio: “Chi sono io cui fa bisogno / l’infinita tua perfezione, o Signore?”, “vivere è perdersi o Dio?”, “Sei la Presenza: come ti sei nascosto?”.

L’eco dei Salmi, addirittura il loro calco stilistico è evidente, come risulta palese la progressiva maturazione letteraria dalle prime prove degli anni ´30 – più didascaliche – a quelle più recenti. Sempre rimane inalterata, comunque, la fede nel colloquio con l’Altro e con gli altri, il confronto con i Santi e con i poeti, il dovere di non dimenticare, nello scavo silenzioso della propria interiorità,
la vita concreta e quotidiana: “Se il mondo è più grande di te, sei perduto; / ma in te il mondo deve divenire ogni giorno più grande”.

Un forte e ancora attuale richiamo alla spiritualità, all’autenticità dell’esistenza, all’incontro “Cor ad cor” traspare da questi versi, e ci emoziona, ci interroga.

 

© Riproduzione riservata          

www.sololibri.net/Solo-l-amore-conosce-Barsotti.html      31 ottobre 2016

«Poesia» n.323, febbraio 2017

 

 

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BASAGLIA

ALBERTA BASAGLIA, LE NUVOLE DI PICASSO – FELTRINELLI, MILANO 2014

«…quel personaggio che mi era capitato come padre, all’epoca, fine anni settanta, era nell’occhio di tutti i cicloni possibili: quello scientifico, quello mediatico, quello politico-legislativo, quello culturale…». Alberta Basaglia, psicologa a Venezia, tratteggia un affettuoso, ammirato, ma anche intelligentemente ironico ritratto di suo padre Franco, psichiatra di fama internazionale, autore nel 1968 del fondamentale saggio  L’istituzione negata, e soprattutto coraggioso iniziatore della rivoluzione scientifica e ideologica che condusse alla chiusura dei manicomi con la legge 180 del 1978, legge che porta il suo nome. Ma Alberta in questo volume scrive principalmente della sua particolarissima infanzia, di se stessa bambina-adolescente-studentessa universitaria, segnata da un doloroso deficit visivo congenito, che dalla nascita l’ha resa “diversa”, accomunata solidalmente nella sofferenza ai pazienti in cura nell’ospedale psichiatrico di Gorizia. «Strana», con la testa piegata sulla spalla per cercare di vederci meglio, con tante baby sitter inglesi che si occupavano di lei e del fratello per ovviare alle assenze e ai fagocitanti impegni di lavoro e di studio dei loro importanti genitori, Franca e Franco Basaglia. Di famiglia veneziana altoborghese, antifascista, anticonformista, il giovane Franco, partigiano («non ha mai smesso di esserlo») imprigionato negli ultimi anni di guerra, conobbe forse proprio in carcere la degradazione umiliante dell’isolamento, facendosi da subito paladino degli ultimi, degli esclusi per eccellenza dalla comunità: i malati di mente. Erano anni di grandi utopie, che sognavano riscatto sociale e liberazione, e «il suo era un lavoro di studioso che intrecciava in modo sacrilego la filosofia alla psichiatria». Con la moglie e molti amici intellettuali, le serate passavano discutendo i lavori di Marcuse, Heidegger, Sartre: progettando silenziose rivoluzioni in medicina e in politica. I due bambini, Enrico e Alberta, venivano educati spartanamente, con vacanze alternative, senza televisione, senza concessioni alle mode, tra molte letture e musica classica. Vivevano a Gorizia nel Palazzo della Provincia, poco accogliente come casa, ma aperto alla frequentazione di ospiti da tutto il mondo, e di matti. Desolina, Carletto, Velio, la puzzolente signora Pierina, malati «ripuliti a festa» nelle domeniche danzanti nel parco dell’ospedale: «Queste diverse presenze erano il mio quotidiano. Questa è stata per me la rivoluzione più normale del mondo… Basta solo riconoscere il diverso da te e non farti fagocitare dall’ansia che costringe a incasellare tutti e tutto in regole e categorie precise che pretendono di dare un ordine tranquillizzante al mondo».

Accettare tutti, era la parola d’ordine della famiglia Basaglia, dando dignità a ciascuno.
E Alberta, con le sue minime disubbidienze infantili (le canzoni di Caterina Caselli, il desiderio di vestiti alla moda, le fughe alla Standa per ascoltare i Beatles o in portineria per sbirciare Carosello, il dipingere nuvole così belle da far invidia a Picasso) assorbe l’atmosfera intellettuale di famiglia, fa sua l’istanza di ribellione contro la violenza e il conformismo, e decide di dedicarsi professionalmente alla cura di chi soffre. Si laurea in psicologia dell’età evolutiva, saccheggiando l’archivio del manicomio di Gorizia, e studiando gli impietosi faldoni che testimoniano le torture inflitte a bambini malati, le diagnosi superficiali e crudeli dei medici, gli inevitabili decessi precoci colpevolmente censurati dalla burocrazia psichiatrica.
Scritto con la collaborazione della giornalista Giulietta Raccanelli, questo libro di agevole e stimolante lettura ci accompagna alla scoperta di una famiglia eccezionale, di idee in costante fermento in anni vivaci, molto lontani dall’apatia e dall’acquiescenza attuali. E soprattutto ci fa conoscere il coraggio e la dolce, simpatica fermezza della sua autrice, la sua fedeltà a un sogno di libertà e uguaglianza.

 

«Leggere Donna» n. 163, 2014

RECENSIONI

BASHO

MATSUO BASHŌ, SOTTO LA LUNA UN BRUCO – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE 2020

Alessandro Clementi degli Albizzi, fra i nostri migliori nipponisti, ha curato una nuova edizione di 69 haiku di Matsuo Bashō, massimo maestro nella composizione di questo genere lirico.

Nato nel 1644, Bashō ebbe molti allievi che conservarono la sua feconda produzione in sette raccolte, di cui questo volume offre una meditata antologia. Meditata perché il curatore non solo commenta ogni testo presentato, ma offre ai lettori una approfondita introduzione all’origine, alla trasformazione e diffusione dei ku, oltreché alla biografia del poeta.

Lo haiku come lo conosciamo noi, ai tempi di Bashō non aveva una forma autonoma. Si trattava di un esercizio collettivo, un dialogo poetico tra amici e appassionati, o tra maestro e allievi, “in cui il ku di avvio, forniva ispirazione e ambientazione per il secondo che poi a sua volta aggiungeva elementi per il terzo e così via”. Quattro secoli fa il poeta non si rivolgeva a un pubblico, ma alle persone della sua cerchia, che lo soccorrevano nella creazione, essendo al corrente di tutte le sue ragioni e intenzioni. Haikai significa “motto di spirito”, e per essere efficace imponeva di stupire i lettori, spiazzandoli con un finale imprevisto, o deformando i contenuti (paesaggi, situazioni, personaggi) con lo scopo di divertirli. Carattere fondamentale dell’haiku era la musicalità, il tono aggraziato e rasserenante che in genere veniva d’improvviso turbato da una parola o da un’immagine dura e respingente.

Ecco alcuni dei ku più suggestivi, con il commento suggerito dal curatore Alessandro Clemente degli Albizzi. Si tratta di delicate immagini paesaggistiche, di scene di vita paesana, di momenti comunitari o di testimonianze affettive di particolare intensità:

“Notte silenziosa / sotto la luna un bruco / si fa strada dentro una castagna”: nel silenzio della notte illuminata dalla luna, il lieve rosicchiare del bruco insinua nell’atmosfera qualcosa di inquietante.

“Sul ramo spoglio / si è ora poggiato un corvo / crepuscolo d’autunno”: le immagini del ramo e del corvo sono basate sul canone pittorico classico.

“Mani di donna staccano carne di baccalà /all’ombra di un mazzo di azalee / appena raccolte”: considerato uno dei primi ku che catturano l’istante, sembra ispirato da una scena vista in una locanda di campagna, in cui l’elemento prosaico è accostato a una visione floreale.

“Sfilarsi un indumento / e metterselo in spalla / il mio cambio di stagione”: il cambio del guardaroba esprime con libera noncuranza la leggerezza d’animo del viaggiatore, che si lascia alle spalle il passato.

“Sentore putrido / sorrette da giacinti d’acqua / viscere di pesce”: gli intensi calori estivi accelerano la putrefazione delle interiora del pesce, e la sgradevolezza dell’odore è contrapposta al profumo dei fiori.

“Stringo forte spighe di grano / a reggermi / nel momento dell’addio”: in questo malinconico saluto agli amici prima della partenza, Bashō chiede aiuto alle spighe di grano, incerto sostegno a cui affidare la sua debolezza fisica.

“Il viaggio interrotto dalla malattia / il sogno che corre libero / per le brulle distese”: alle due del pomeriggio Bashō, improvvisamente destatosi nel suo letto di morte, detta a un allievo il suo ultimo ku.

 

 

© Riproduzione riservata          https://www.sololibri.net/Sotto-la-luna-un-bruco-Basho.html  

 2 novembre 2020

 

 

RECENSIONI

BASHŌ

BASHŌ, ELOGIO DELLA QUIETE – SE, MILANO 2023

Con un ricchissimo apparato di note e l’accurata ricostruzione biobibliografica della curatrice Lydia Origlia, l’editrice SE ha ristampato il volume Elogio della quiete di Bashō, pubblicato per la prima volta nel 2001. Composto da otto brevi saggi, perlopiù consistenti in note di viaggio, appunti diaristici o riflessioni morali, il libro offre al lettore sia un autoritratto del monaco buddhista, sia delicate immagini della natura – primaverile o notturna, principalmente – e inviti a un’elevazione spirituale mirata a conquistare la serenità dell’anima, l’eliminazione di ogni inutile inquietudine, il superamento dell’inadeguatezza caratteriale.

Bashō nacque nel 1644, figlio di un samurai di campagna, nella città di Ueno, a circa trenta chilometri dall’antica capitale Kyōto. Trentenne, destinato a diventare anch’egli samurai, si trasferì a Edo, l’odierna Tōkyō, iniziando un’esistenza indigente e ascetica, illuminata dalla filosofia Zen e dedicata alla poesia, descrivendo con sensibilità e grazia anche i più umili aspetti della vita quotidiana, la bellezza del paesaggio e le sue peregrinazioni alla ricerca della verità e della pace interiore. Scrive Lydia Origlia: “il poeta si sente alleviato da ogni ansia e desiderio: non teme di venir derubato poiché nulla possiede, ignora la fretta poiché è libero da ogni impegno, procede a piedi, gusta i cibi più semplici, gode dell’incontro con casuali passanti che, se dotati di una qualche sensibilità d’animo, gli paiono come pepite d’oro in uno stagno”. Muore a cinquant’anni di stenti e fatica, ma attorniato dalla stima di discepoli e poeti e dall’affetto di molti amici.

Pur riconoscendo umilmente la fragilità del proprio carattere, il monaco-poeta sapeva che ogni cosa e persona vive in continua trasformazione, può redimersi e innalzarsi al di sopra di qualsiasi miseria morale e fallimento economico: “Quanto a me, non sono né monaco né laico, sono una sorta di pipistrello, fra il topo e l’uccello”, “I miei sogni non sono né di un santo né di un gentiluomo. Per l’intera giornata disperdo il mio spirito nelle fantasie e così accade nei miei sogni notturni”. Lodava il silenzio, la riservatezza e la solitudine, che conducono alla meditazione e alla quiete del cuore: “Non v’è nulla di più attraente di una vita solitaria: ‘La mia tristezza / in solitudine trasforma, / romito uccello”, “Il piacere di un anziano consiste nel vivere sereno, libero dalla schiavitù di profitti e perdite, dimentico della distinzione tra vecchiaia e giovinezza”.

Consapevole dello scarso ruolo sociale rivestito dalla poesia, tuttavia ne amava il richiamo ed era felice di potersene dichiarare suddito fedele, obbediente all’ispirazione dell’arte più che a qualsiasi lusinga del potere: “Le mie poesie sono simili a un fornello in estate e a un ventaglio in inverno. Contrarie al senso comune e prive di utilità alcuna”. E ai suoi versi demandava soprattutto il compito di veicolare la bellezza, nella descrizione degli ambienti naturali, del cielo e della vegetazione, delle acque e degli animali: “Il chiarore della luna, che pareva essersi offuscata, penetra ora da una breccia del muro, s’infiltra tra le fronde, mentre qua e là si odono i rumori dei crepitacoli per gli uccelli e le grida per allontanare i cervi”, “La montagna è quiete e nutre lo spirito, l’acqua è movimento e mitiga le passioni”, “Il lago somiglia a un liuto ed è pervaso dei fruscii dei pini e della melodia delle onde”, “Apro dunque con tristezza la finestra per mitigare almeno un poco la malinconia del viaggio e contemplo il tenue chiarore della luna dopo il crepuscolo, e il Fiume d’Argento in mezzo al cielo e il vivido bagliore delle stelle”. Contento del poco che possedeva, perennemente grato a ciò che osservava intorno a sé, come di un dono immeritato e gratuito, da omaggiare nei suoi ispirati haiku.

 

© Riproduzione riservata      19 maggio 2023

SoloLibri.net › Recensioni di libri › Elogio della quiete di Matsuo Bashô

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BASSANI

GIORGIO BASSANI, L’AIRONE – FELTRINELLI, MILANO 2013

Nel primo dopoguerra, in un nebbioso dicembre che invade le campagne ferraresi anestetizzandole con la sua penetrante umidità, il proprietario terriero Edgardo Limentani decide di riprendere un’abitudine abbandonata da molti anni, dedicandosi a una solitaria battuta di caccia sulle sponde limacciose del Po. Ma già durante la meticolosa preparazione mattutina viene sopraffatto da un’invincibile stanchezza e ripugnanza per tutto ciò che lo circonda, a cominciare dal suo stesso corpo: “Come era meschino e antipatico anche il suo viso, come era assurdo!”, descritto con implacabile e disgustata severità nelle sue esigenze fisiologiche.
Anche la vicinanza della moglie volgare e avida, la bambina indifferente, la madre senescente e smemorata, i domestici pigri, le trattorie fumose e dozzinali non fanno che aumentare il suo fastidio insopprimibile per la vita: “non c’era più niente che non lo urtasse, non lo ferisse…”. Immerso in un “cupo pozzo di tristezza accidiosa”, qualsiasi cosa gli provoca “il consueto, amaro senso di estraneità, quasi di repulsione”, e la giornata di caccia in cui non riesce a sparare un colpo (mentre osserva la natura, gli uccelli, l’agonia di un airone ucciso con crudele e gratuita noncuranza), diventano metafora della sua banale esistenza: “Come diventava stupida, ridicola, grottesca, la vita, la famosa vita… E come ci si sentiva bene, immediatamente, al solo pensiero di piantarla con tutto quel monotono su e giù di mangiare e defecare, di bere e orinare, di dormire e vegliare, di andare in giro e stare, in cui la vita consisteva!”

La realtà ambigua, l’opportunismo politico di ogni ambiente, i tradimenti coniugali, la cupidigia economica da cui si vede assediato vengono osservati dal protagonista come attraverso una spessa lastra di vetro, che lo difende e insieme lo separa da tutto: e Giorgio Bassani, in questo bellissimo romanzo, L’airone, che gli valse il Campiello nel 1969, accompagna il lettore con essenziale misura verso un finale inevitabile e tragico.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/L-airone-Giorgio-Bassani.html     12 settembre 2016

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BASSANI

GIORGIO BASSANI, UNA LAPIDE IN VIA MAZZINI – FELTRINELLI, MILANO 2017

Il racconto Una lapide in Via Mazzini, pubblicato in e-book da Feltrinelli nel 2017, fa parte del libro Cinque storie ferraresi con cui Giorgio Bassani vinse il Premio Strega nel 1956. Rielaborati in continuazione per decenni, fino a rientrare in una definitiva edizione del 1980 con il titolo Romanzo di Ferrara, i cinque testi sono ambientati nella città natale dell’autore, che ha fatto da sfondo anche al suo capolavoro, Il giardino dei Finzi Contini.

Geo Josz, figlio primogenito di un commerciante in tessuti, torna inaspettatamente e incredibilmente vivo dal campo di concentramento di Buchenwald dove era stato deportato nel 1943, insieme ad altri 182 membri della Comunità israelitica ferrarese. È l’agosto del 1945, la città emiliana ha pagato un grosso tributo di terrore e sofferenza durante gli anni torbidi del fascismo, e vorrebbe ora tornare, dopo la liberazione, a un clima di ritrovata serenità e compostezza. I molti notabili del luogo che si erano compromessi con il regime, si nascondono oppure ostentano indifferenza, pronti a offrire i loro servigi ai nuovi rappresentanti del potere democratico. I militanti comunisti e i partigiani chiedono giustizia promettendo vendetta contro gli ex gerarchi e i loro sostenitori in camicia nera. Quand’ecco che riappare Geo Josz “basso, tarchiato, il capo coperto fin sotto gli orecchi da uno strano berretto di pelliccia. Come era grasso! Sembrava gonfio d’acqua, una specie di annegato”. Si ferma in Via Mazzini, dove un operaio sta attaccando una lapide commemorativa sulla facciata del Tempio Israelitico: e scoppia a ridere beffardamente, leggendo il proprio nome tra quello delle altre 183 vittime dell’olocausto.

L’arrivo inatteso di Geo Josz è accolto con diffidenza e fastidio, quasi fosse un fantasma tornato a turbare i sonni finalmente tranquilli della rispettabile cittadinanza: “Veniva da molto lontano, da assai più lontano di quanto non venisse realmente. Tornato quando nessuno più l’aspettava, che cosa voleva adesso? … A quanto asseriva, aveva fatto parte di quella schiera di centottantatré larve inghiottite da Buchenwald, Auschwitz, Mauhausen, Dachau, eccetera: possibile che lui, solo lui, se ne tornasse adesso di là, e si presentasse bizzarramente vestito, è vero, però ben vivo, a raccontare di sé e degli altri che non erano tornati, né sarebbero, certo, tornati mai più? Dopo tanto tempo, dopo tante sofferenze toccate un po’ a tutti, e senza distinzione di fede politica, di censo, di religione, di razza, costui, proprio ora, che cosa voleva?”

Tra i concittadini del reduce serpeggia incredulità e malevolenza, si ipotizzano suoi imbrogli e sotterfugi per ottenere vantaggi economici o politici in risarcimento delle sofferenze patite. Ma Geo Josz assume una tattica di sfrontata e polemica resistenza, riallacciando i rapporti con due zii rimasti vivi e operosi nel ghetto, e pretendendo con il loro appoggio di tornare in possesso della casa paterna, occupata dai partigiani dell’ANPI durante la guerra, deciso ormai a riavviare l’attività paterna. Tuttavia il suo conflitto interiore, e l’ansia di rivincita nei confronti della società, prendono il sopravvento sulla volontà di pacifica reintegrazione, e trovano un improvviso sfogo in un atto inconsulto e provocatorio. Un pomeriggio, incontrando casualmente in Via Mazzini l’anziano conte Lionello Scocca, che per anni era stato informatore dell’OVRA, lo schiaffeggia violentemente “con due ceffoni secchi, durissimi”, provocando uno scandalo e grave irritazione nelle classi abbienti della città.

Evitato da tutti (per disprezzo, paura o commiserazione), porta in giro la sua “faccia di malaugurio”, e il suo sarcastico sorriso, coprendo l’improvviso brusco dimagrimento sotto abiti sporchi e sdruciti, o intabarrato come il giorno del suo rientro dal lager, quasi per rinfacciare alla comunità le colpevoli collusioni col fascismo e l’antisemitismo. Siede al centrale Caffè della Borsa, concionando su politica e morale, nel disinteresse annoiato dei presenti.

Poi, imprevedibilmente, sparisce, e di lui non si sa più nulla. Sulle ipotesi fatte dai concittadini, Bassani non si sofferma molto. Quello che gli interessa far intendere ai lettori non è tanto la vicenda sconclusionata dell’infelice Geo Josz, quanto la reazione difensiva di un’intera città, timorosa di ripiombare nell’incubo di un passato incancellabile.

 

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5 agosto 2021

 

 

RECENSIONI

BASSI

SHAUL BASSI, PIANETA OFELIA: FARE SHAKESPEARE NELL’ANTROPOCENE

BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2024

 

Una bella occasione per rileggere (e rimeditare) le più importanti opere shakespeariane ci viene offerta dall’interessante volume di Shaul Bassi, docente di Letteratura inglese a Ca’ Foscari: Pianeta Ofelia, che audacemente propone un’interpretazione ambientalistica di sei testi chiave del Bardo: Amleto, Sogno di una notte di mezza estate, La tempesta, Re Lear, Il mercante di Venezia e Otello.

Perché offrire un’ipotesi critica tanto attuale e insolita prendendo in esame capolavori scritti più di quattro secoli fa? Ma perché Shakespeare non solo possedeva un’eccezionale potenza immaginativa, in grado di illuminare passato e futuro, ma sapeva penetrare con particolare acutezza nella psicologia dei suoi personaggi, inserendoli in strutture sociali e ambientali puntualmente analizzate. Aveva inoltre una spiccata sensibilità verso il mondo naturale, con profonde conoscenze della botanica e della zoologia, e una giusta diffidenza verso la capacità umana di comprendere, rispettare e sfruttare positivamente la ricchezza del mondo non-umano: “Ma l’uomo, l’uomo superbo, rivestito di una piccola e breve autorità, del tutto ignaro di ciò di cui più dovrebbe essere sicuro – la sua specchiata essenza – si esibisce come una rabbiosa scimmia in tali trucchetti stravaganti davanti all’alto cielo da far piangere gli angeli; i quali, se avessero la nostra milza, morirebbero dal ridere” (Misura per misura III.1.78-80).

Queste caratteristiche del genio di Stratford ce lo rendono contemporaneo, e incoraggiano un dialogo con le sue opere per ripensare noi stessi e le nostre relazioni col mondo, oggi pericolosamente minacciato sia dagli squilibri climatici sia dalla crisi della cultura antropocentrica. Shakespeare infatti

da un lato affronta esplicitamente problemi ambientali del suo tempo (deforestazione ed eventi meteorologici estremi) che nella nostra epoca si sono esacerbati; dall’altro crea situazioni e personaggi che si prestano a nuove e stimolanti interpretazioni ecologiche.

Bassi non individua il teatro shakespeariano come precursore dell’ambientalismo o profeta della fine dei tempi, ma invita ad approfondire tracce e suggerimenti per ripensare alla radice i comportamenti distruttivi dell’umanità, utilizzando riferimenti critici tratti dall’arte, dal cinema, dalla letteratura di tutti i tempi. Troviamo nelle pagine citazioni di filosofi contemporanei (Cacciari, Cavarero, Agamben, Derrida, Braidotti, Coccia) e antichi (Giordano Bruno); di poeti e scrittori come Leopardi, Primo Levi e Cormac McCarthy; di ecologisti come A. Ghosh, B. Latour, S. Iovino, D. Haraway, J.J. Cohen, O. Laing,

Lasciamoci quindi condurre da questo fil rouge che attraversa epoche e luoghi, per sottrarci alla provocatoria ammonizione di Re Lear: “È la piaga dei tempi quando i pazzi guidano i ciechi” (IV.1.46), cercando di aprire gli occhi sul domani che ci aspetta, anche con l’aiuto della letteratura.

Nella tragedia di Amleto, da secoli simbolo della condizione umana, possiamo riscontrare due concetti contrapposti di ecofobia ed ecofilia: il primo incarnato dal protagonista, ossessionato dall’idea di marciume e putrefazione del mondo naturale (l’aria è “una immonda e pestilenziale congregazione di vapori”, “il sole genera vermi in un cane morto”, “la marcia corruzione, che tutto mina dentro, infetta non veduta”). Risponde in controcanto l’ecofilia di Ofelia, immersa in un paesaggio floreale e in visioni acquatiche, capaci di conciliare cielo terso e terra fertilmente produttiva.

Il rapporto tra natura e cultura balza in primo piano soprattutto nel Sogno di una notte di mezza estate, dove la simbiosi tra umano e non umano crea combinazioni impreviste tra luoghi magici e boscosi, ambienti popolari, specie sovrannaturali e ceti aristocratici, in una continua metamorfosi il cui principale interprete è Puck, folletto che varca e intreccia i domini umano, animale e vegetale. L’elogio della biodiversità implicito in questa commedia suggerisce anch

e una celebrazione del polimorfismo sessuale, che ha offerto l’estro a recenti ambientazioni teatrali basate su nuove versioni queer, e riflessioni sulla coesistenza, interdipendenza, ibridazione degli umani e delle creature più-che-umane, aldilà di ogni rigida schematizzazione.

La tempesta, unica opera di Shakespeare che prende il titolo da un fenomeno atmosferico, è la più carica di significati politici, poiché testimonia un momento di passaggio da un oceano mitologico, divino e ostile, a un oceano reale che spiana la strada ai commerci transatlantici e alla conquista di nuove terre. Ambientata tra il mare minaccioso e sconfinato e la misteriosa segregazione di un’isola, si situa in un orizzonte lontano dallo spazio urbano e civile, evidenziando le potenzialità mai del tutto conosciute e dominabili degli elementi naturali, ben presenti nell’immaginario dell’uomo dell’Antropocene, consapevole degli stravolgimenti climatici provocati dalle attività industriali ed economiche prive di controllo.

Re Lear è l’opera di Shakespeare in cui ricorre con maggior frequenza la parola ‘natura’ con i suoi derivati (34 occorrenze), pur in una molteplicità di significati: carattere, destino, vita, età, paesaggio.

Solo in questa tragedia un personaggio shakespeariano si rivolge direttamente a un elemento atmosferico, in termini di incontenibile furore, quasi augurando una sorte di apocalisse vendicativa: “Soffiate, venti, e spaccatevi le guance! Infuriate! Soffiate! Voi, cateratte e trombe marine, sgorgate finché non avrete infradiciato i nostri campanili e annegato i galli segnavento! Voi fuochi sulfurei e rapidi come il pensiero, avanguardie dei fulmini che spaccano le querce, strinate la mia testa bianca! E tu, tuono che tutto scuoti, spiana la spessa rotondità del mondo, schianta gli stampi della natura, distruggi d’un colpo tutti i semi che fanno l’uomo ingrato”.

La Venezia di Shakespeare si ripete due volte, la prima come commedia e la seconda come tragedia, ne Il mercante di Venezia e in Otello, due opere sensibili a tematiche attuali, in quanto mettono in luce il rapporto necessario che intercorre tra ecologia, spazi urbani e comunità. Il capoluogo veneto è città cosmopolita, esattamente come nel 1600: multirazziale e multiculturale, epicentro mondiale del turismo, del commercio, dei trasporti e delle comunicazioni, ricco di esperienze artistiche ma segnato pure da sentimenti xenofobi e dall’ansia per i mutamenti climatici, che lo vedono spesso protagonista in negativo di inondazioni, inquinamento delle acque, abusivismo edilizio.

Ecco dunque che, seguendo i suggerimenti di Shaul Bassi, anche Shakespeare (“prospettiva e rifugio, monito e speranza, angoscia e consolazione”), può essere letto da noi abitanti dell’Antropocene riattualizzandolo con gli occhi del presente, alla luce delle trasformazioni che ci spaventano, per aiutarci a immaginare un futuro migliore.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 12 ottobre 2024

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BATTAGLIA

FILIPPO MARIA BATTAGLIA, HO TANTI AMICI GAY – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2017

“Non ho niente contro i musulmani, però…”, “Ammiro le donne, ma…”, “Ho molti amici gay, tuttavia…”. Sono le premesse usuali di chi, prima di iniziare un discorso in realtà fobico e discriminatorio, si trincera dietro un paravento di pretesa liberalità, sfoderando poi micidiali armi di attacco contro “i diversi”. Sono altrettanto numerosi coloro che, vantando la propria apertura mentale nei confronti di chi compie scelte di vita appena fuori dall’ordinario, utilizzano il preambolo “Io non ti giudico se…”, ignorando che un secolo di psicanalisi ha sancito che chi giudica ha nei fatti già condannato.

Filippo Maria Battaglia (trentatreenne giornalista d’assalto, attualmente redattore a Sky Tg24) suggerisce in questo suo pamphlet una riflessione approfondita sugli stereotipi in cui ci asserragliamo, in difensiva, quando siamo chiamati a esprimerci riguardo ad argomenti che creano fastidio, imbarazzo o diffidenza. Se recentemente si è venuti a sapere dell’esistenza in Cecenia di lager in cui vengono rinchiusi, torturati e “rieducati” gli omosessuali, e si è gridato mediaticamente allo scandalo invitando alla riprovazione e alla condanna del fenomeno, continuiamo a fingere di ignorare che il nostro cattolicissimo paese discrimina legalmente, socialmente e politicamente i gay, e vanta una delle classi dirigenti più omofobe d’Europa.

Esibendo una puntuale documentazione riportata nel cospicuo apparato di note, che occupa quasi la metà del volume, l’autore elenca una lunghissima serie di censure, persecuzioni, processi e condanne, espressioni offensive, interviste, trasmissioni televisive, articoli giornalistici e dichiarazioni ufficiali che dagli inizi del ‘900 ad oggi hanno preso di mira l’omosessualità, decretandone in concreto il biasimo collettivo, l’ostracismo o, nei migliori dei casi, un silenzioso e farisaico occultamento. Così, se Mussolini poteva affermare che al fascismo non servivano leggi punitive contro “gli invertiti” (detti anche froci, busoni, culattoni, capovolti, finocchi, terzo sesso, pervertiti…), ma sarebbero bastate “le mani e i piedi degli squadristi”, non più teneri ed eleganti furono i politici della ritrovata democrazia del dopoguerra. Battaglia ce li sciorina davanti agli occhi tutti, i nomi venerati dei Padri della Repubblica e dei parlamentari di destra di centro e di sinistra, con le loro affermazioni sessuofobe e sghignazzanti, innalzanti vessilli di conclamato pudore, onore, amor di patria e di famiglia, cattolicesimo integerrimo. Una specie di crociata che nei decenni trascorsi ha preso di mira sia i comportamenti privati di singoli cittadini, sia le opere di artisti, scrittori, registi, poeti di riconosciuta genialità, e che ancora oggi non teme di manifestare platealmente il suo oscurantismo. Accanto a questo verificato florilegio di triviali idiozie, l’autore documenta però anche una crescita della sensibilità e dell’attenzione rispettosa nei riguardi degli orientamenti sessuali dei cittadini, così come è stata incoraggiata dalle iniziative di singoli e di associazioni, di femministe e del clero più illuminato, di intellettuali e di personaggi dello spettacolo: da Pasolini ad Angelo Pezzana, da Testori ai radicali, da Franco Grillini a Niki Vendola, da Paola Concia a Vladimir Luxuria. Un affinamento e una maturazione ideologica collettiva che hanno portato alla recente approvazione del ddl sulle unioni civili proposto dalla senatrice dem Monica Cirinnà, secondo cui le coppie omosessuali potranno essere riconosciute come tali davanti alla legge e alla società, con gli stessi diritti e doveri, obblighi di legge e tutele reciproche delle coppie eterosessuali. Tardi rispetto al resto dell’Europa, ma comunque un’importante rivoluzione sociale e culturale per il nostro paese.

 

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www.sololibri.net/Ho-molti-amici-gay-Battaglia.html;      14 aprile 2017