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RECENSIONI

SITI

WALTER SITI, IL REALISMO E’ L’IMPOSSIBILE – NOTTETEMPO, ROMA 2013

Nella nota finale a questo smilzo e coltissimo saggio, Walter Siti gioca al ribasso: “Nel presente libretto la precisione filologica non è garantita, le citazioni sono a orecchio e spesso di seconda mano; volevo che conservasse il carattere di una confessione di laboratorio, se avessi lasciato entrare il demone dell’accademia certo questo mi avrebbe dissuaso dall’affrontare un argomento così impegnativo”. Ci vuole infatti coraggio e una certa dose di improntitudine per prendere di petto la questione dibattutissima del realismo in letteratura con la verve, l’ironia e la consapevole, istrionesca nonchalance di cui Siti si serve per calcare le orme di un gigante come Auerbach, spaziando attraverso la letteratura mondiale di tutte le epoche (da Plinio il Vecchio a Dante a Shakespeare, fino a Philip Roth e a Easton Ellis; da Balzac e Zola a Sartre e Genette; da Dostoevskij e Proust al “minimalismo fabulatore” dei nostri Ugo Cornia e Paolo Nori); attraverso le citazioni cinematografiche di Visconti, Ken Russell e Jodorowsky, e la pittura di Lotto, Velázquez, Courbet, Picasso e Warhol: per concludere con esempi concreti tratti con “una bieca ammissione di poetica” dai suoi stesso romanzi.

Cosa si propone lo scrittore realista “nell’impresa scriteriata e arrogante di ricreare la vita coi segni”? Secondo l’interpretazione provocatoria ma un po’ vaga dell’autore, non “un rispecchiamento piatto e subalterno, ma uno svelamento impossibile”, “realismo come trasgressione e rottura di codici…attitudine a sconvolgere gli stereotipi culturali…anti-abitudine”: specchio sì, ma “concavo che concentri in una fiamma i raggi sparsi della realtà”. Il saggio di Siti termina con questa intensa e poetica affermazione: “Se dovessi trovare, per il realismo come lo intendo, un verbo riassuntivo, indicherei il verbo ‘sporgersi’ “. Sporgersi, quindi, affacciarsi: fuori, al di là, oltre.

IBS, 21 marzo 2013

RECENSIONI

SMITH

ZADIE SMITH, L’AMBASCIATA DI CAMBOGIA – MONDADORI, MILANO 2015

Mondadori, che nel 2001 aveva pubblicato Denti bianchi della giovanissima Zadie Smith (nata a Londra nel 1975 da padre inglese e madre giamaicana), romanzo divenuto subito un best-seller internazionale, propone oggi una novella della stessa autrice, certamente non allo stesso livello della sua opera d’esordio. Si tratta di un racconto scandito in 21 capitoletti, quanti sono i punti di una partita a badminton, perché proprio sui colpi cadenzati (poc, smash; poc, smash…) di questo gioco si modula la narrazione. Protagonista è la giovane ivoriana Fatou, arrivata a Londra dopo aver attraversato Africa e Italia in cerca di un futuro decente, e dopo aver subito una violenza sessuale in Ghana da parte di un turista russo, insieme a molte altre umiliazioni nei più disparati posti di lavoro. A Londra presta servizio presso una ricca famiglia araba, occupandosi delle pulizie e dei tre figli spocchiosi e aggressivi. Non riceve nessuno stipendio, e le viene nascosto il passaporto perché non possa scappare. Suo unico diversivo è recarsi a nuotare nella piscina di un centro benessere con i biglietti omaggio dei suoi datori di lavoro. Per farlo, ogni lunedì passa davanti all’ambasciata di Cambogia, un villino circondato da un alto muro di mattoni rossi, dall’interno del quale sente sempre arrivare i colpi di volano del badminton. Fatou ha un unico amico, uno studente nigeriano che la istruisce sommariamente con elementari lezioni di storia, raccontandole qualcosa della dittatura cambogiana e dei Khmer Rossi, abbozzando pensieri di una banalità quasi sconcertante: «C’è sempre qualcuno che vuol essere l’Uomo Forte, e arraffare tutto, e dire a tutti come pensare e cosa fare. Quando in realtà è lui quello debole. Ma se un Uomo Forte vede che tu vedi la sua debolezza, non gli resta che distruggerti. Questa è la vera tragedia».

La vicenda, tutto sommato piuttosto inconsistente e senza alcun approfondimento di tipo sociologico, si conclude con l’immotivato licenziamento di Fatou, salvata alla fine dall’ amico nigeriano che le presta generosamente il suo solidale soccorso economico ed esistenziale.

 

«Leggendaria» n.111, maggio 2015

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SMITH

PATTI SMITH, A BOOK OF DAYS – BOMPIANI, FIRENZE-MILANO 2023

Come preludio e introduzione ai prossimi tour in Italia di Patti Smith (sarà a Parma e a Gorizia il 4 e 5 ottobre, quindi tra novembre e dicembre in una serie di concerti acustici in teatri e luoghi sacri) l’editore Bompiani pubblica A Book of Days, un prezioso volume che raccoglie riflessioni, brani di diario, appunti e 366 fotografie scattate dall’autrice, a testimonianza del suo credo estetico e di una vita totalmente dedicata all’arte. Cantautrice, performer, visual artist, scrittrice, poeta, Patricia Lee Smith (Chicago30 dicembre 1946) è stata una protagonista atipica e rivoluzionaria del rock, del proto-punk e della New Wave degli anni settanta: il suo eccezionale carisma interpretativo e la potenza dei suoi testi le hanno fatto guadagnare il soprannome di ”sacerdotessa del rock”. La rivista Rolling Stone la inserisce al quarantasettesimo posto nella classifica dei cento migliori artisti e all’ottantatreesimo nella lista dei più grandi cantanti. Prima di quattro figli di un macchinista e di una cameriera-cantante jazz, entrò giovanissima a contatto con la musica. Trasferitasi a  Manhattan nel 1976, iniziò una tormentata ed intensa relazione con il fotografo Robert Mapplethorpe, i cui ritratti furono spesso utilizzati come copertine per i suoi album. Il primo grande successo fu  Horses, a cui seguì un’altra decina di album, e quindi un lungo periodo di ritiro dalle scene per motivi familiari e per una lunga depressione seguita ai gravi lutti patiti. Le sue canzoni si nutrono dei drammi del mondo contemporaneo, e il suo attivismo politico l’ha vista a fianco delle più importanti manifestazioni internazionali contro la guerra e per i diritti civili. Nel 2010 ha dato alle stampe il libro autobiografico Just Kids, vincitore del National Book Award.

Tutti questi complessi e intensi avvenimenti esistenziali hanno lasciato traccia nel volume edito da Bompiani, che nel risvolto di copertina viene definito “un viaggio caleidoscopico nella mente visionaria di un’artista suggestiva e inconfondibile, una lettura senza tempo per tempi molto incerti, una mappa ispiratrice della sua vita come della nostra”.

Patti Smith nella primavera del 2018 ha iniziato a pubblicare su Instagram le sue fotografie, sia quelle più antiche, scattate con la vecchia Polaroid Land 250, sia le recentissime, catturate in giro per il mondo con lo smartphone. In A Book of Days si susseguono, intercalando così atmosfere struggenti e nostalgiche con testimonianze appassionate di storie private e collettive, talvolta dolorose e drammatiche, oppure ironiche, spiazzanti, polemiche. Ogni foto è accompagnata da una breve didascalia scritta dall’artista su un taccuino o direttamente sull’i-phone. L’assemblaggio, intensamente meditato dal punto di vista dell’accostamento estetico delle immagini, è stato compiuto nei giorni di imposto isolamento della pandemia, e pensato come omaggio non solo alle persone che vi sono ritratte (a quelle vicine e viventi, a quelle perdute e rimpiante, a donne e uomini famosi che hanno fatto la storia e vengono immortalati nelle loro tombe, nei monumenti, negli autografi), ma anche alla bellezza dei giorni che a ciascuno è dato di vivere\. Camus e Murakami, Joan Baez e Bob Dylan, Giovanna d’Arco e San Francesco, Kurosawa e Werner Herzog, Borges e William Burroughs, Yoko Ono e Kurt Cobain… E poi la tazza del caffè mattutino, gli stivali consumati, la chitarra del marito, il gatto amato, i regali di Robert Mapplethorpe, la madre e le sorelle, i figli nelle diverse età, piazze e stazioni, spiagge e montagne. Regali, insomma, a chi volesse entrare nel mondo di Patti, provando a guardaridimensionando rlo attraverso i suoi occhi. “Trecentosessantasei modi di dire ciao”, come ha tenuto a scrivere nella prefazione, un po’ minimizzando, un po’ sottolineando la bellezza contagiosa dell’antologia.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 29 settembre 2023

 

RECENSIONI

SNEGIRËV

ALEKSANDR SNEGIRËV, LA STRADA FANTASMA – GATTOMERLINO, ROMA 2022

Del romanzo La strada fantasma di Aleksandr Snegirëv, il traduttore Raffaele Marchi mette in luce nella postfazione “la struttura svagata, la prosa asciutta, quasi schiva, sicuramente restia alla descrizione ma non assente da lirismo, l’ironia solforica, l’individualismo nervoso”. Si tratta infatti di uno stile particolare, quello utilizzato dall’autore, per narrare vicende altrettanto particolari, divaganti tra storia, cronaca, fantasia, sperimentazione. Pubblicato in Russia nel 2019, è la prima opera di Snegirëv uscita in Italia, per le edizioni romane Gattomerlino. Alexandr Snegirëv (pseudonimo di Alexei Vladimirovich Kondrashov) è nato nel 1980 a Mosca. Autore di testi narrativi tradotti in molte lingue, si occupa di belle arti e insegna letteratura nella sua città natale. Nel 2015, ha vinto il Russian Booker Prize per il romanzo Vera.

In questo testo (una cinquantina di capitoli brevi, suddivisi in stringati paragrafi che parcellizzano il racconto utilizzando frasi minime e costanti a-capo) il protagonista si esprime in prima persona, soggettivamente, per poi esternarsi in uno sguardo astratto, narrando di una realtà che da vissuta interiormente si fa collettivamente oggettiva. Aprendosi in uno spazio assolutamente domestico, l’io narrante si svela come scrittore di successo, inquieto e bulimico di rapporti interpersonali, analizzati e descritti con ironia e autoironia, ma anche con lo stupefatto, continuo interrogarsi sulle motivazioni dell’agire umano nella quotidianità e negli eventi storici. Vive con una compagna sensuale e svampita, che tratta con buona dose di maschilismo già nell’attribuzione del nomignolo sprezzantemente misogino: “I nostri orari sono regimentati dalla sfasatura: io dormo – Micetta fuma, io mi sveglio – Micetta dorme. Un piccolo zig-zag nel reciproco timing mantiene saldo il rapporto… Annuso Micetta come un cane annusa un tesoro edibile. La afferro come un cuoco afferra l’impasto. La accarezzo, la sculaccio e la rivolto. E come lei risorge dal sogno, io, al contrario, cado addormentato”. Con loro, un cane razzista che abbaia agli islamici, due artigiani chiamati a riparare i perduranti guasti dell’abitazione, un vicino erotomane appassionato di storia, una vicina platinata diva di Instagram, che “riesce a gustare la dolcezza dell’interattività e al contempo guadagnare”, avendo come motto “Vivi come se dovessi postare”. Il diario quotidiano del protagonista elenca non solo varie comparse e le loro attività, ma anche i vorticosi pensieri di chi scrive, le sue fantasie e allucinazioni, cambiando continuamente punto di vista e materia di osservazione, con un pungente senso dello humor che aborre sia il patetico sia gli stereotipi.

Erede dello sguardo ferocemente caustico dei suoi connazionali Gogol’ e Bulgakov, Snegirëv tratta la storia passata e quella recente con lo stesso disincanto: se la strada in cui abita è stata percorsa dall’armata di Napoleone in ritirata, la cronaca politica attuale pone sugli altari Kim Jong-un e i vari Congressi del Partito Cinese. Il conflitto con l’Ucraina (al momento della composizione del romanzo limitato al Donbass), viene raccontato attraverso una lettura sarcastica degli imbonimenti propagandistici dei due paesi nemici: “Tutto ha avuto inizio nella prima fase operativa della guerra ucraina. Allora la gente teneva lo sguardo fisso sulle vicende e si strappava i capelli per una parte o per l’altra. C’erano dei profughi: alcuni andavano a ovest, verso Kiev, altri a est, in Russia”.

È comunque il presente a imporsi, ma un presente immaginoso, inventato e inventivo, paradossale negli accadimenti che si incalzano, cancellandosi e ricreandosi in continuazione, perché “La realtà si è sdoppiata”, e lo scrittore spavaldamente può annunciare: “È il mio libro e faccio quello che mi va”. Se il narrato si rivela falso, ebbene diventa vero dopo essere stato scritto: omicidi per gelosia, squartamento di cuori, tentativi di liquefare un cadavere nell’acido, resurrezioni improvvise, l’adozione di un’orfanella pestifera, lo smaltimento dei rifiuti, una Mosca post-moderna e cibernetica, nel vertiginoso accavallarsi di eventi inverosimili. L’autore-demiurgo vanta in continuazione la propria autonomia di ideare e depennare personaggi e situazioni, nella necessità di rendere sulla pagina il caleidoscopico trasformarsi della società e degli individui: “Merda, io sono uno scrittore, merda, e ho bisogno di un’idea”.

Quello che risalta nel magma incontrollato del racconto, è l’idea liberatoria della letteratura e dell’arte come emancipazione dalla verità, diritto all’immaginazione, indipendenza assoluta della creatività.

Nel flusso continuo di associazioni e immagini proposto da Snegirëv, domina l’introspezione maniacale, venata da incertezza e insoddisfazione (“La cosa più dura è abituarsi a sé stessi”), soprattutto per ciò che riguarda il proprio ruolo di intellettuale e di narratore. “A dirla tutta, volevo scrivere qualcosa di importante. Qualcosa di originale e di saggio. Ma l’ho dimenticato. Ho dimenticato quel che volevo scrivere. Riempio queste pagine con una grafia a volte piana, a volte convulsa, ironizzo sul passato, lo metto persino in dubbio, e oltre a ciò penso al futuro. Penso a come accoglierà il mio lavoro il redattore, come lo valuteranno i critici. Mi rinfacceranno il disprezzo di una struttura consueta, mi daranno la colpa d’aver rovesciato sui lettori un gran mucchio di avanzi del mio pensiero sbrindellato. Ho raccolto un po’ di tutto in bocconi diseguali, poi l’ho buttato giù in tocchi alla maniera di un’insalata”.

Un romanzo spiazzante, La strada fantasma, con tratti di comicità pura e altri di scandalosa provocazione, che il giovane slavista Raffaele Marchi ha tradotto in una prosa limpida, sciolta e accattivante.

 

© Riproduzione riservata                  «Gli Stati Generali», 13 agosto 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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SOCCI

LUIGI SOCCI, PREVENZIONI DEL TEMPO ‒ VALIGIE ROSSE, VECCHIANO (PI), 2017

Del poeta marchigiano Luigi Socci (Ancona 1966) è stato pubblicato finora un solo libro (Il rovescio del dolore, Italic Pequod 2013), ma molto della sua produzione è presente in varie antologie, in plaquette, su riviste e in rete: inoltre di lui sono note l’attività di organizzatore di eventi artistici e manifestazioni poetiche, e le frequenti e applaudite esibizioni in performance e letture pubbliche, o in festival di poesia in giro per l’Italia. Prevenzioni del tempo, uscito quest’anno per i tipi di Valigie Rosse e vincitore del Premio Ciampi 2017, offre un’anticipazione del volume cui Socci sta lavorando. L’acuta postfazione, affidata a Paolo Maccari (che anche in queste poche pagine si conferma essere uno dei più notevoli critici letterari del panorama letterario italiano) mette in luce le caratteristiche fondamentali di questi testi: l’ironia “molesta”, l’understatement, la malinconia “sorniona”, la leggerezza parodica, l’inventività fonica, l’originalità destrutturante della sintassi.

Nessuno sperimentalismo linguistico fine a se stesso (forse, qualche eco di un divertito Palazzeschi, di un epigrammatico Caproni, di un istrionesco Scialoja), ma sempre un esplicito intento comunicativo, che ambisce a un richiamo etico mai didascalico, e nemmeno pedantesco: semmai oscillante tra una rassegnata accettazione del reale e un utopistico inseguimento dell’ideale. L’osservazione di ciò che ci circonda, lo sguardo attento e disincantato sugli oggetti più banali della nostra quotidianità (sedie, maniglie, parcheggi, acqua dei rubinetti, armadi, tagliacarte…) rivelano al poeta ciò che è «Assurdo e ovvio / allo stesso tempo», davanti a cui si può esprimere solo meraviglia, stupore quasi fanciullesco, e divertita incredulità: «Il trucco sta nel farsi / colpire a effetto / sorpresa trasecolare per tutto / restare a bocca aperta con le mosche / che ci volano dentro esterrefatti / per la scoperta dell’acqua calda».

Le cose, le persone, il linguaggio stesso che usiamo rivelano una misteriosa e quasi buffa inconsistenza, che ci lascia attoniti e immobili a chiederci ragione e fini del loro esistere. Se il poeta cammina «contromano per le strade / come su un nastro trasportatore / cammina un camminatore / dalla parte sbagliata del marciapiedi», lo fa in quanto avverte la falsità dei rapporti, la stupidità dei luoghi comuni, l’inessenzialità della parola quando diventa abusata, superflua. L’elenco dei modi di dire, svuotati di significato, ridicolmente sfruttati, è impietoso («non c’è più religione», «non ci sono più le morte / stagioni di una volta»), quanto la satira dei Poetry Slam e della poesia visiva: «adesso vi faccio vedere una cosa // … adesso vi faccio veder un video / adesso vi faccio vedere i filmini / del viaggio di nozze scherzavo / adesso vi faccio vedere un audio // … adesso vi faccio vedere tutto / adesso vi faccio vedere ecco»; «‒ Mi giro i pollici / perché abbastanza corti / facile no? / Provo a girarmi gli indici / per scoprire che non si può. // … ‒ Sto aspettando che venga un verso / come una bocca che aspetta un morso».

I tre disegni di Riccardo Sevieri che corredano il volume richiamano nella loro schematica essenzialità sia l’infantile sbigottimento dei versi di Socci, sia il loro beffardo interrogativo sulla precarietà di ciò che si spaccia per vero e reale: «Questa cosa che manca / che si inventa di sana pianta / non hai vinto ritenta / di riconoscerla da un’impronta». Le poche, labili tracce che lasciamo dietro di noi sono illusorie e in qualche modo risibili. Luigi Socci, clemente e insieme severo censore dell’attualità, lo ricorda sornione a tutti: «Che cos’hai da non dire?»

 

© Riproduzione riservata             

www.sololibri.net/Prevenzioni-del-tempo-Socci.html        22 dicembre 2017

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SŌDERGRAN

EDITH SŌDERGRAN, NOTTURNO E ALTRE POESIE – MAURO PAGLIAI, FIRENZE 2009

Alla poeta finno-svedese Edith Södergran (San Pietroburgo, 1892Raivola, 1923) l’editore Mauro Pagliai ha dedicato nel 2009 l’antologia Notturno ed altre poesie, con testo a fronte e cura di Bruno Argenziano. Considerata la fondatrice del modernismo finlandese, Södergran ha influenzato la lirica nord-europea fra le due guerre mondiali attraverso la sua delicata ma intensa voce poetica, che raccoglieva le eredità del Simbolismo francese, dall’Espressionismo tedesco e dal Futurismo russo, filtrandole con “raffinata sensibilità e prorompente vitalità”. Esordì nel 1916 con la raccolta Poesie, alla quale seguirono altri quattro volumi di versi, in cui sempre si evidenziava un’acuta percezione visiva e affettiva della natura.

“Di tutto il nostro assolato mondo / desidero soltanto una panchina da giardino / dove un gatto prende il sole…”; “Gli amari garofani allignano lungo la via / dove impenetrabile si fa la penombra dell’abete”; “Me ne sto sola fra gli alberi del lago, vivo in amicizia coi vecchi abeti della riva / e in segreta concordia con tutti i giovani sorbi”.

Nata a San Pietroburgo, Edith visse con la famiglia tra la capitale russa e Raivola (oggi Roshchino), piccolo centro a pochi chilometri dal mare e dal confine con la Finlandia, scelto come meta estiva dalle famiglie borghesi della zona. Educata in prestigiosi collegi, si esprimeva perfettamente in russo, in tedesco, e ovviamente nella lingua materna, lo svedese parlato in Finlandia. Leggeva testi sia nelle lingue classiche, sia in francese, inglese, italiano. Dai temi di ispirazione elegiaca delle prime raccolte, l’interesse della giovane poeta si orientò verso interessi politici e filosofici, frutto di approfondite letture, soprattutto da Freud e Nietzsche, con una precoce e risentita attenzione nei riguardi del ruolo subalterno delle donne nella società. Quindicenne si ammalò di tubercolosi, la stessa malattia che aveva portato alla morte suo padre, e che la costrinse a lunghi periodi di cura in sanatori svizzeri, uccidendola a soli trentun anni. Il presentimento della morte velava i suoi versi di malinconia e pessimismo, insieme al nostalgico desiderio di un amore e di un futuro che sapeva irrealizzabili:

“Il futuro getta su di me la sua ombra beata; / non è altro che fluente sole: / trafitta di luce morirò, una volta calpestato tutto il fortuito, / con un sorriso volgerò le spalle alla vita”; “Tra breve vorrò stendermi sul mio giaciglio, / i folletti mi copriranno di bianchi veli / e rosse rose spargeranno sulla mia bara. / Muoio – perché son troppo felice”; “Amavo una volta un uomo, non credeva in nulla… / Venne un freddo giorno e gli occhi eran vuoti, / se ne andò un plumbeo giorno e c’era oblio sulla fronte”.

Recentemente, non solo nel mondo scandinavo ma anche in Italia, le poesie di Edith sono state lette, recensite e citate con grande interesse dalla critica femminista, che ha trovato nella poeta finno-svedese un’intelligente anticipatrice delle tematiche più cogenti della lotta di liberazione della donna. L’orgoglio della propria femminilità la rendeva erede delle grandi figure del mito, e contemporaneamente proiettata in un mondo di gioiosa indipendenza fisica e intellettuale:

“A piedi / mi toccò attraversare il sistema solare, / prima di trovare il primo filo del mio abito rosso. / Ho già il presagio di me stessa. / In qualche posto nello spazio è appeso il mio cuore, / faville si sprigionano da esso, e l’aria si scuote, / verso altri smisurati cuori”.

 

 

© Riproduzione riservata            «SoloLibri», 6 luglio 2024

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SOFRI

GIANNI SOFRI, L’ANNO MANCANTE – IL MULINO, BOLOGNA 2021

Gianni Sofri (Staranzano, 1936), storico e saggista, considerato uno fra i maggiori studiosi italiani di Gandhi, ha dedicato un volume alla figura del noto medievista Arsenio Frugoni (1914-1970), suo docente alla Scuola Normale di Pisa negli anni ’50. Si tratta di un’affettuosa ricostruzione biografica mirata a esplorare non solo il lato pubblico dell’esistenza di un noto e stimato intellettuale, ma anche a descriverne il profilo morale e l’integrità politica, facendo luce soprattutto su un episodio rimasto a lungo oscuro, un intero anno (L’anno mancante, recita il titolo del volume) di cui Frugoni non volle mai parlare, e che Sofri ha ricostruito attraverso minuziose ricerche documentali e numerose testimonianze di parenti e amici del protagonista. Già nella descrizione fisica del maestro si avverte l’ammirazione dell’allievo per la signorilità della sua figura: “Era un uomo alto, con gli occhiali, affascinante, molto elegante non solo nel vestire, ma anche nel gestire, nel parlare, nel misurare le pause. E nell’ironia”.

Nato a Parigi da famiglia bresciana, rimasto orfano del padre a un anno, Arsenio Frugoni si era laureato in Lettere alla Scuola Normale Superiore di Pisa nel 1938, perfezionandosi in seguito a Heidelberg e insegnando per un biennio in un liceo pisano. Sposatosi nel ’39 con una compagna di scuola, Pia Chiappa, ne ebbe due figli: Chiara, oggi celebre medievista, e Giovanni. Vicedirettore dell’Istituto italiano di cultura di Vienna dal 1941 al 1943, rientrò in Italia a 29 anni e si stabilì con la famiglia in un paesino del bergamasco. All’interno di quella piccola comunità aveva apertamente manifestato “una forte estraneità al fascismo e alla sua cultura”, mantenendo saltuari rapporti con i partigiani della zona, e adattandosi a praticare lavori umili, quali il conciatore di pelli e il fabbricante di burattini, per contribuire al fabbisogno domestico.

Ma “in un giorno di maggio, o forse di giugno, del 1944, il dottor Arsenio Frugoni uscì dalla casa di Solto Collina, in provincia di Bergamo, nella quale abitava con la sua famiglia. Inforcò una bicicletta e pedalò per 125 chilometri: tanti occorreva percorrerne per scendere a Brescia e poi, da lì, raggiungere Gargnano, sul lago di Garda, dove si erano richiesti degli interpreti. Qui rimase, sia pure tornando abbastanza regolarmente a Brescia o a Solto, più o meno per un anno”.

A Gargnano, nel cuore della maggiore concentrazione di forza militare fascista e nazista, era stanziato l’Ufficio di collegamento fra l’Alto comando della Wehrmacht e la Repubblica sociale, e risiedeva Mussolini, con i parenti e i collaboratori più stretti. Quale sia stato l’effettivo ruolo svolto da Frugoni nel periodo di poco precedente alla caduta del fascismo è quanto intende verificare la ricerca di Gianni Sofri. Fu mediatore politico-militare tra la Repubblica di Salò e il Comando tedesco? Informatore segreto degli ambienti della Resistenza? Incaricato di salvare la vita a oppositori incarcerati e condannati a morte?

Assunto con la qualifica di traduttore e insegnante di italiano del Colonnello di Stato Maggiore Hans Jandl, addetto militare dell’Ambasciata, il professore era entrato in confidenza con il Capitano Otto Joos, che in una lettera spedita a Chiara Frugoni da Berlino il 26 dicembre 1994, lo definiva “uomo di cultura, di gentilezza e di franchezza”. L’ufficiale tedesco si dichiarava convinto dell’antifascismo di Frugoni, sapendo che aveva rifiutato qualsiasi incarico istituzionale all’interno della RSI, e platealmente evitava il saluto romano al passaggio di Mussolini. Era a conoscenza di come coltivasse intensi rapporti culturali e di amicizia con il cattolicesimo bresciano – in particolare con l’Oratorio della Pace dei padri Filippini, con il Liceo Calini dove insegnava lettere, con Monsignor Montini (futuro Papa Paolo VI) e con i partigiani delle Fiamme Verdi. Sempre secondo la sua testimonianza, Arsenio Frugoni aveva lasciato improvvisamente e segretamente Gargnano nell’aprile del 1945, spostandosi verso Como, dove forse ebbe parte alla cattura di Mussolini a Dongo, fatto tuttavia non comprovato.

Frugoni non fu mai iscritto al Partito Fascista Repubblicano, né venne inserito nelle liste di epurazione del dopoguerra: anzi i familiari rivelarono di avere trovato documenti relativi alla sua appartenenza a gruppi partigiani lombardi, tra cui una tessera rilasciata dal CLN di Brescia e diverse sue dichiarazioni autografe sul proprio impegno attivo nella lotta contro la dittatura.

Dopo la Liberazione, il professore preferì osservare un composto riserbo riguardo al periodo trascorso a Gargnano, evidentemente amareggiato dai silenzi, dalle titubanze e dai commenti non sempre benevoli espressi da conoscenti e colleghi, “quando alcune delle solidarietà e delle coperture che lo avevano accompagnato cedettero il campo ad altri atteggiamenti, che andavano dall’ignorare o misconoscere il suo operato fino a farlo oggetto di biasimo ipocrita”.

Pur non essendo mai entrato direttamente nell’agone politico con l’iscrizione a qualche partito, Arsenio Frugoni nel dopoguerra assunse precise e coraggiose posizioni di denuncia nei confronti di un potere accademico e giudiziario illiberale e discriminatorio. Titolare della Cattedra di Storia alla Scuola Normale di Pisa dal 1954, morì in un incidente d’auto insieme al figlio Giovanni nel 1970, lasciando un ricordo ammirato e riconoscente della sua figura umana e intellettuale.

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 20 settembre 2021

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SOVENTE

MICHELE SOVENTE, CUMAE – QUODLIBET, MACERATA 2019

Il quarto libro di Michele Sovente (Monte di Procida, 1948-2011), Cumae, è il primo in cui si  esprime compiutamente il trilinguismo ‒ italiano, latino e dialetto campano ‒ che ha fatto del suo autore un caso unico e originale nella letteratura italiana. Vincitore del Premio Viareggio-Rèpaci nel 1998, oggi viene riproposto da Quodlibet in un’edizione filologicamente esemplare, curata da Giuseppe Andrea Liberti, con un puntuale commento a ogni poesia, che ne sottolinea le scelte formali e stilistiche, i vari riferimenti testuali, la cronologia di composizione e pubblicazione.

Già nell’esposizione della biografia soventiana, il curatore mette in luce gli snodi fondamentali che hanno influito in maniera indelebile sulla sua scrittura: a partire dalla nascita, avvenuta a Cappella di Monte di Procida il 28 marzo 1948, ultimo di sette figli di una famiglia proletaria, con il padre piastrellista, emigrato prima a Marsiglia, poi nel Maghreb, dove il piccolo Michele imparò elementari rudimenti del francese. Morto il padre nel 1957, poco dopo il rientro in Campania, al ragazzo fu imposto di entrare in seminario fino alla maturità, ottenuta la quale si iscrisse nel 1968 alla facoltà di lettere di Napoli, dove si laureò discutendo una tesi su Eugenio Montale. Gli anni liceali e universitari lo introdussero non solo allo studio approfondito della cultura classica, e in specie del latino, ma soprattutto alla conoscenza della poesia contemporanea e della filosofia del ’900. Anni di grande fermento politico e sociale, quelli trascorsi nel capoluogo partenopeo, partecipando alle lotte studentesche e operaie con il movimento di Lotta Continua, e collaborando alle pagine culturali del quotidiano “Il Mattino”. Sovente insegnò per tutta la vita all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dapprima Letteratura, quindi Antropologia: materie i cui fondamenti costituirono la linfa della sua produzione poetica.

Cumae fu pubblicato da Marsilio nel 1998, vent’anni dopo l’esordio con L’uomo al naturale (1978), seguito da Contropar(ab)ola (1981) e da Per specula aenigmatis (1990). Il libro è diviso in sei sezioni (anticipate da un testo proemiale), connotate ciascuna da un tema specifico: la storia, l’eros, il mondo animale, il territorio campano, la forma linguistica, il dialetto cappellese.

Ricorrenti in Cumae sono i topoi di un simbolismo archetipico letterariamente collaudato: acqua, fuoco, specchio, luna, cerchio, offrono un repertorio di immagini ereditate dalla cultura classica e popolare, ma filtrate sia dalla lente della psicanalisi junghiana, sia dalla riflessione sui testi di Giordano Bruno, Giambattista Vico ed Ernesto De Martino. Sovente riteneva il suo interesse antropologico «scaturito da un impulso interno, dal bisogno di portare alla luce schegge sonore, barlumi di una età lontana dai contorni fiabeschi e primitivi, manifestazioni di energia vitale, di fisicità, figure e gesti elementari, nuclei di pensiero e di visionarietà che configurano un universo dove fascino e paura, sortilegio e smarrimento, solitudine e fusione con la natura procedono sempre all’unisono». E riguardo al suo co-linguismo si era così espresso: «non è nato da alcun calcolo letterario ma come intuizione poetica, attraverso la quale poter esprimere e riferire soprattutto a me stesso uno stato di assoluta crisi storica, di distanza dalla modernità intesa come supermercato di codici, norme, valori obbligati, tecnicismi che a nulla più servono se non a far circolare un esercito di tanti pseudo-poeti e pseudo-artisti, garanti di ferro, a loro insaputa, dell’oceanico bla-bla dei mass-media».

Latino, italiano e dialetto rimangono distintamente autonomi, senza combinarsi all’interno di una stessa poesia. L’italiano ricorre a un lessico essenziale, concreto, moderno; il latino vive di reminiscenze classiche, medievali ed ecclesiastiche, ma è attualizzato in un’originale inventività di metri e figure retoriche; il vernacolo campano viene svincolato da tutta la banalità melodica e decadente della tradizione neo-dialettale. Lo stile è inoltre coraggiosamente innovativo, con il ricorso frequente a distorsioni sintattiche, inversioni, invenzioni fonetiche, appaiamenti di termini, commistioni di termini aulici, tecnici e colloquiali.

Proemio alla raccolta è il testo bilingue Rudera / Ruderi, che fornisce la chiave di lettura stilistica e linguistica del libro, nel suo proporsi in latino e in italiano, e nel collocarsi in uno scenario cupo di silenzio e morte, testimoniato dalle rovinose vestigia lasciate dallo scorrere del tempo: «Ex imis humi larvis / ex altis umbris parvis / temporis labor erumpit / vitaeque cruor incumbit / iactura est scissura / formarum se volventium / ad mortem ad silentium…» (Dalle remote larve della terra / dalle anguste-alte ombre / la fatica schizza del tempo / e la linfa cupa del vivere / tra erosioni e deflagrazioni / si evolvono forme verso / la morte e il silenzio…). In questa introduzione ci sono già tutti i temi fondamentali dell’intera raccolta: l’ascolto del passato che si fa voce presente attraverso i resti archeologici, l’immagine della terra scavata da larve vive e tomba di presenze defunte, le erosioni e i movimenti sismici e vulcanici, il lavorio del tempo che tutto corrompe, lo sfaldarsi della memoria da cui derivano perdita e limitatezza, l’evoluzione non verso un seducente progresso ma verso un inevitabile smarrimento di sé.

Sovente è stato definito “poeta sismografo”, per la sua attitudine a registrare e decrittare i sommovimenti del territorio flegreo, sintomo e allegoria degli squilibri sociali di uno spazio scosso da violenze e sfruttamento: «Uno spazio nel quale si sovrappongono da secoli grida di mercanti e voci sovrannaturali, il mistero del futuro e la memoria del passato, la storia e la magia, il mito e la morte», secondo Liberti. La prima sezione del volume è appunto dedicata allo svolgersi della Storia («la storia che devia»), riletta nel suo misterioso e umbratile celarsi «in gurgite temporis», decifrata anche attraverso il lascito di leggende mitologiche e di tradizioni ancestrali, sospese tra fede religiosa e superstizione. Emblematicamente, la prima poesia della prima sezione si intitola Di sbieco, e indica la prospettiva secondo cui avvicinarsi alla realtà, con sguardo sbilenco e velato: «L’occhio strabico strazia / piumaggi e fossili. Si vive / si scrive di sbieco». Il mondo è qui definito «confuso», non facilmente definibile da una «lingua di grumi ingombra / e asfittica pianta».

Lingua-pianta da rivitalizzare, quindi, servendosi di energetici innesti e indispensabili lacerazioni: «Vacua lucet / lingua in frigore, varia / aequora eam incurrunt, nunc / linguafurca decidit-recidit / in vacuo inscripta infinito» (Vuota balugina / nel freddo la lingua da acque / e specchi inseguita, adesso / la linguaforca decide-recide / inscritta nel vacuo infinito). Lo stesso manovratore dello strumento espressivo, il poeta, rimane intimorito ed esaltato dal suo potere di creazione: «Ignaro del fortunale imminente / insisto a enumerare / le radiose oltraggiose strategie. / Avido animale / seguo l’occhiuta preda. / Mi uncinano le carte. / Brusiscono nell’afelio i palinsesti».

Michele Sovente, nell’interpretare l’interno di sé e l’esterno da sé, si affida alla reattività dei sensi. All’udito, in primo luogo, ma poi anche al tatto e alla vista, reclamando il primato della fisicità del proprio corpo che lo fa simile a quello di tutti gli esseri animati. Mihi sunt: «Brachia mihi sunt oculi / tengo et video albas / per aquas alas, caudas / paulatim in somno…» (Ho io: Braccia ho occhi io / tocco e vedo candide / ali nell’acqua, code / nel sonno intermittenti / finestre oscure sento / nuvole miei legami, rami / ho vertebre io, perciò / schegge mi scuotono / di nascosta luce, pustole / inquiete mi incidono / e unghie mi devastano, / foglie mille volte ho / sul confine arse io). Ne deriva un sentimento panico della natura, descritta sia nei fenomeni atmosferici e negli elementi cosmici (neve, gelo, nebbia, luna, pianeti, maree), sia nell’osservazione del mondo animale, in una «visione dell’unità metamorfica del tutto». Animali istinto, animali affetto, gioia-sofferenza-leggerezza-gratuità-morte. Siano lepri o insetti, volatili o gatti, pesci o galli, la loro natura è sentita dal poeta come umana o addirittura sovrumana: nell’agonia insopportabile di un micio, nella corsa della lepre trasformata in vento, nel tarlo misteriosamente nato dal legno, Sovente avverte la fragilità e caducità di ogni esistenza.

Una sequenza nel suo bestiario è dedicata agli uccelli, portatori di luce e colori, immagine di vitalità antropologicamente collegata al sogno antichissimo del volo; comunicando con l’uomo attraverso uno stridio acuto simile a quello di porte cigolanti, gli uccelli raccontano il destino che accomuna le creature del cielo e della terra. Aves: «Cum avibus aves / aethera dividunt, luces / cupidinesque per alas / hieme et vere ferentes. / Suas poenas, sua itinera / in ventorum nequitia, / diutius quam ianuae limosae / stridentes, avibus / aves sub noctem suaves / enarrant subtiliter.» (Gli uccelli: Si dividono l’aria / gli uccelli tra loro, d’inverno / e a primavera luci e brame / sulle ali portando. / Ciò che vedono e soffrono / nel tumulto dei venti, / più delle porte fangose / a lungo stridendo, gli uccelli / sulla soglia della notte gli uccelli / soavi e precisi raccontano).

Anche l’amore per una donna non si sottrae all’inevitabile scacco della perdita: nel tenero e commovente micro-canzoniere che il poeta dedica a una innominata «cara compagna / d’infantili giochi» è il rimpianto a costituire l’elemento tematico predominante: «vai / tuttora da un’isola / all’altra inseguendomi / blandendomi, caro dado, / amaro guado, non sai / quanto ti amai», recuperando l’eredità della nostra tradizione letteraria  che da Virgilio e Petrarca arriva a Montale, alle sue Liuba, Clizia, Volpe, Mosca.  «Ti assomiglio spesso al filo, / al foglio bianco, al mare, tu / fibra tu labile rima tu balenante / ingorgo». E ancora «Cerco di sciogliere la tua figura / dai fili, dal rancore, dal freddo che / la tengono avvinta, mando da lontano a te, / da lontanissimo, un lampo / un gutturale / suono, sfida all’occhio abissale / delle flegree frane». Prendendo spunto dalla dolorosa esperienza della separazione dall’amata, Sovente proietta la drammatica transitorietà del sentimento erotico sull’aspro e instabile scenario flegreo in cui è nato e vissuto.

Il paesaggio mediterraneo dei Campi Flegrei è un cronotopo, scrive Liberti, in cui il bradisismo e la vulcanicità riportano alla luce tracce del passato greco-romano, personaggi mitici come Ulisse, Proserpina e la Sibilla, divinità come Demetra e Venere, città fantasmatiche come Napoli e Cuma, insieme a tragici squarci di un presente violento e corrotto. Ecco quindi le sezioni finali, dedicate al paesaggio campano, ai suoi abitanti e alla sua lingua. Donna flegrea madre, Le antiche donne cumane, Acqua mediterranea, Fosforo e zolfo, Neapolis, Camminando per i Campi Flegrei, Tu, Cumae…, indicano quanto Michele Sovente sia stato debitore alla sua terra di immagini e colori, sogni e incubi, memorie personali ed echi letterari, testimonianze politiche e rabbie civili. «Diletti miei phlegraei campi / infetti dove sine die l’immobilismo / si allea con il bradisismo!», «Hanno infinite / insidie e vite queste / napoletane strade piazze alture / in cui lunatico mi perdo / estatico, dai rumori disfatto / da una vischiosavida / nube», «Zitte ogni sera stanno tra le antiche / ombre le antiche donne cumane //… i denti macchiati dall’acqua di pozzo / ascoltano il vuoto le donne di Cuma», «clamans infernalia / clinamina tu, Cumae, ad sideralia / fastigia fugitans dum letalia / leniter lingunt calcaria», «Acqua, mia / acqua antica e contemporanea, sii / tu il punto fermo, la via / che porta al miscuglio di lingue, / acqua mediterranea», «Me fótte ’a notte, me gnótte, / ‘a sete me guverna, ‘a famma / me tène comme a na mamma», «trase na luce ‘mmiez’ î rruvine, / ‘a luce r’ ‘a puisìa, nu rrevuóto / ‘i fiùre ca ‘nziéme mètteno / ‘a vita cu ‘a morte».

Questo volume «dalla lunga gestazione», prevedibilmente complessa ma portata a compimento con assoluta competenza e meritoria dedizione da Giuseppe Andrea Liberti, ci permette di valutare lo spessore intellettuale e la perizia compositiva di un poeta non abbastanza considerato nel suo effettivo valore: forse perché estraneo a scuole e correnti, o perché poco avvicinabile nella sua difficoltà interpretativa. Dobbiamo essere grati, oltreché al curatore, alle edizioni Quodlibet che hanno saputo allestire un prodotto librario raffinato, dalla grafica sorvegliata ed elegante.

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 16 febbraio 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SPADARO

ANTONIO SPADARO, CREATURE DI CALDO SANGUE E NERVI – ARES, MILANO 2020

Torna in libreria per le edizioni Ares il profilo di Raymond Carver che Antonio Spadaro aveva pubblicato nel 2001 (Carver: un’acuta sensazione di attesa), arricchito ora da un capitolo sull’attualità dello scrittore statunitense e da un diario del viaggio-omaggio alla sua tomba di Port Angeles. Il titolo del volume, Creature di caldo sangue e nervi, è una citazione tratta da Čechov, autore cult di Carver, esplicito riferimento alla sua inquieta ansia esplorativa di ambienti ed esperienze trasgressive.

Monsignor Antonio Spadaro (Messina, 1966) è un gesuita, direttore della rivista «La Civiltà Cattolica», teologo e saggista molto stimato e ascoltato da Papa Francesco, esperto di letteratura americana e fondatore dell’associazione culturale «Bombacarta».

Già nell’introduzione l’autore confessa: “Dopo vent’anni di ‘corpo a corpo’ con uno scrittore è possibile capire se e come la sua opera ci abbia ‘lavorato dentro’. E io non me ne sono mai liberato”. Citando la poesia scritta da Raymond prima di morire, Ultimo frammento (“E hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì. / E cos’è che volevi? / Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra”), afferma di aver ricavato dalla questa lettura una reale illuminazione emotiva. È stata proprio l’autenticità con cui Carver ha messo a nudo ogni aspetto della propria esistenza a conquistare Spadaro: senza allontanarsi mai dal proprio vissuto ha narrato storie minime e universali, in cui ciascuno si può ancora riconoscere, spaziando nelle tematiche dall’amore alla malattia, dalla passione per la pesca a quella per l’alcol, dal sesso al denaro, raccontate con “understatement of emotion”. Estraneo a ideologie, intellettualismi e astrazioni, arrivava al cuore delle cose parlandone con assoluta e disarmante sincerità, attraverso l’utilizzo di diversi registri formali (ironia ed empatia, rabbia e commozione), in uno stile “scabro, diretto, privo di lirismo”, con “incredibile rapidità ed essenzialità espressiva”.

Il volume si divide in tre capitoli, nel primo dei quali Spadaro ricostruisce la biografia di Carver mettendola in relazione al graduale comporsi della sua attività letteraria, soffermandosi anche sull’annosa questione degli invasivi interventi correttivi dell’editor Gordon Lish.

Successivamente, propone sia un puntuale commento dei racconti più noti, sia una lettura attenta alle intenzioni etiche e comunicative della scrittura carveriana. Dalla tragica incomunicabilità delle prime prove narrative, testimonianza di uno spaesamento esistenziale, Raymond Carver si aprì progressivamente a una positiva speranza di rinascita, soprattutto in seguito all’unione con la nuova compagna Tess Gallagher. Nella sua scrittura divenne più evidente il bisogno di incarnarsi nella realtà materiale dei corpi, attraverso uno sguardo di intenerita immedesimazione, privo di giudizio o condanna. Monsignor Spadaro, in linea sia con parte della critica americana, sia soprattutto con la propria visione ideologica, interpreta l’evoluzione della scrittura di Carver nel senso di una persistente esigenza di confessione e di redenzione, alla ricerca di “una dimensione trascendente dell’esperienza quotidiana”. Nel raccontare le sue giornate, e quelle della gente comune, Raymond metteva in luce “la santità dell’ordinario”; scoprendo la propria vulnerabilità rivelava la vulnerabilità di chiunque, non solo di amici e familiari, ma anche di chi agisce nell’illegalità e nella violenza.

La terza sezione del libro analizza specificamente la produzione in versi, in genere sottovalutata rispetto alla narrativa. In essa, Spadaro individua “una funzione di discernimento e di penetrazione radicale nel reale”, capace di privilegiare la densità espressiva, la sintesi folgorante più di qualsiasi descrizione in prosa. Con fierezza, Carver affermava infatti di sentirsi più poeta che narratore: “Io ho cominciato come poeta e così suppongo che sulla mia tomba dovrei essere molto contento se ci fosse scritto: ‘Poeta, scrittore di racconti e, occasionalmente, saggista’. In quest’ordine”. I suoi versi, privi di artifici e sterili sperimentalismi, utilizzavano gli stessi temi dei racconti, resi più penetranti dalla loro contratta essenzialità, e ammorbiditi da un’affettuosa colloquialità nella descrizione dei rapporti familiari, dell’ambiente domestico, della natura.

In conclusione del volume, tra il ricco apparato di note e l’altrettanto ricca bibliografia, Antonio Spadaro inserisce il reportage diaristico e fotografico del viaggio-pellegrinaggio compiuto nell’agosto del 2010 per visitare la tomba di Carver al cimitero di Port Angeles, nello stato di Washington. In questa cittadina lo scrittore aveva vissuto serenamente gli ultimi anni in compagnia di Tess, in una casa tranquilla e luminosa posta alla confluenza di due fiumi, in riva al mare: qui aveva composto e ambientato oltre 200 poesie. Nella stessa casa era morto per un cancro ai polmoni, il 2 agosto 1988, appena cinquantenne.

 

© Riproduzione riservata    15 novembre 2020

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RECENSIONI

SPAEMANN

ROBERT SPAEMANN, TRE LEZIONI SULLA DIGNITA’ DELLA VITA UMANA – LINDAU, TORINO 2011

Robert Spaemann (Berlino 1927) è ritenuto il più autorevole filosofo cattolico tedesco contemporaneo. In questo volumetto pubblicato dalla casa editrice torinese Lindau sono presentate tre conferenze che l’autore tenne al campus americano dell’Università Lateranense di Roma nel 2010, riguardanti argomenti di particolare interesse per la riflessione etica contemporanea: l’amore, la dignità umana, la morte cerebrale. In una prospettiva radicata nella tradizione cristiana, e saldamente fondata sull’autorità delle Scritture, Spaemann sottolinea l’irriducibile e insostituibile importanza dell’individuo, della persona (di qualsiasi persona!), sempre inserita in un rapporto essenziale con l’alterità (“Essere una persona significa occupare un posto nella comunità universale, trans-temporale delle persone”). Nel primo saggio, contestando la pessimistica affermazione di Hume secondo cui “non avanziamo mai neppure di un passo oltre noi stessi”, Spaemann distingue diversi tipi di amore (coniugale, parentale, patriottico, di amicizia…) e i suoi rapporti con l’innocenza e la fedeltà, con l’istinto e la gelosia, per concludere che “l’amore dà all’amato la possibilità di essere una persona e di esserlo in un modo unico, non intercambiabile”. Il secondo intervento è una vibrante difesa della dignità intesa come dimensione ontologica della preziosità dell’uomo, della sua sacralità: “ognuno conta” (e molto interessanti sono le riflessioni su “la dignità del Crocefisso anche in una situazione di oggettiva indegnità”). Il terzo capitolo è forse il più polemico e militante, in quanto concerne il dibattuto argomento della morte cerebrale, che l’autore considera dalla sua prospettiva di credente: “per ogni organismo vivente vale il fatto che è vivo fintantoché possiede un’unità interna”, contestando quindi l’affermazione che la morte del cervello coincida con la morte dell’essere umano: “in dubio pro vita”.

IBS, 19 novembre 2013