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RECENSIONI

TORREGROSSA

GIUSEPPINA TORREGROSSA, ADELE – NOTTETEMPO, ROMA 2012

Con questo sapido e intrigante monologo teatrale, ambientato in una rigorosa e oppressa Sicilia degli anni ’60, Giuseppina Terragrossa ha vinto il Premio Roma 2008  Donne e teatro. Protagonista è Adele, una sessantenne sciatta e rancorosa, che ha vissuto e sprecato la sua esistenza nelle mura domestiche, assediata da presenze maschili mal sopportate, ondeggiando tra nevrosi e sadismo.
Rimasta incinta diciottenne di un uomo che l’ha abbandonata, sposa «’u manciato», un chimico violento, marchiato da una disgustosa malattia cutanea, che tuttavia riconosce come suo il bambino di lei, Ciccio, e anzi si lega a lui con un affetto protettivo e paterno. Adele vive il rapporto con il figlio e il marito con una sorta di nauseata e imposta dedizione, odiando se stessa, i corpi maschili che la circondano, e senza riuscire ad ammorbidire il suo livore nemmeno con la nascita del secondogenito, Gabriele. «’U manciatu s’era fatto pretenzioso, voleva trovare la tavola conzata, il picciriddo curcatu, un silenzio di chiesa e la pasta nel piatto…».

Con un ritmo narrativo incalzante, e un linguaggio reso assolutamente vivido ed espressivo dalle numerose interferenze dialettali («ammucciavano il sole con il crivo!»), Giuseppina Torregrossa riesce a rendere senza pietismi e con partecipe adesione l’abbattimento morale di questa donna, che si riduce e parlare con i suoi fantasmi mentali, chiusa nelle sua cucina, spettinata e ciabattona, ammorbando l’esistenza soprattutto al figlio maggiore, mai desiderato eppure profondamente amato, fino a fargli del male fisicamente, ad allontanarlo da casa, per poi perderlo definitivamente con un’ultima, crudele, ferita quando pensava di averlo riconquistato.

 

«Leggendaria» n.97/98, gennaio 2013

RECENSIONI

TORRINI

VALENTINA TORRINI, LADY CINEMA – LE PLURALI, MORLUPO (RM) 2021

La giovanissima e intraprendente casa editrice femminista Le Plurali ha pubblicato un vivace saggio di Valentina Torrini dedicato ai film girati, prodotti, e fruiti dalle donne: Lady Cinema. Guida   pratica   per   attivare   le   tue   lenti   femministe, con prefazione di Marina Pierri.

È evidente che nessuna/o può pretendere di cancellare un secolo di cinema maschilista, ma sarebbe oltremodo opportuno imparare a guardare i film attraverso occhi più consapevolmente disincantati, più razionalmente analitici, più intuitivamente solidali con una lettura di genere. Valentina Torrini, forte della sua più che decennale esperienza nel settore dello spettacolo, propone quindi un percorso critico che attraversi la storia del cinema delle donne (per, su, contro le donne) a partire dai suoi albori, cioè da Alice Guy, regista del primo film narrativo nel 1896, La fée au choux, fino al New Queer Cinema, passando per la Feminist Film Theory. Il volume (corredato da una ricca filmografia, una puntuale bibliografia, indirizzi internet e una trentina di schede di approfondimento su film, attrici, sceneggiatrici, montatrici, produttrici e registe famose o di nicchia), si presenta come un’ironica e provocatoria guida alla storia delle donne che hanno agito o sono state agite dietro e davanti allo schermo, con la precisa volontà di scardinare pregiudizi e di ridicolizzare gli stereotipi più scontati. Il cinema è stato, dalla sua nascita fino ad ora, il frutto del cosiddetto male gaze, lo sguardo maschile: generalmente di maschio etero, bianco, per lo più americano. Ne sono derivate alcune ovvie e ribadite tipicità nella descrizione di virtù e difetti femminili: dolcezza, timidezza, contegno, capacità di curare e accudire, mitezza, remissività, debolezza, eleganza, oppure (al contrario) perfidia, infedeltà, doppiezza, pusillanimità, curiosità, ocaggine, sciatteria, avidità, gelosia, seduzione. Principessa o strega, Cenerentola o Crudelia, novizia o dark lady.

A questi luoghi comuni non si sono sottratte anche altre figure rese “in modo macchiettistico, marginale e stigmatizzato, con caratteri poco definiti e molto estremizzati”. Donne non conformi ai canoni estetici, con disabilità fisiche o mentali, androgine o lesbiche, afro o sudamericane, orientali, indiane: relegate a ruoli di supporto, grotteschi, servili. Come si sa, “Il male gaze si manifesta su tre diversi piani: lo sguardo di chi sta dietro la macchina da presa, quindi il regista; lo sguardo diegetico, cioè quello dei personaggi maschili all’interno della trama; lo sguardo extradiegetico, cioè quello dello   spettatore che osserva la rappresentazione”.

Il libro di Valentina Torrini si articola in due sezioni: la prima, più teorica, ripercorre la storia del cinema dal punto di vista delle protagoniste, delle spettatrici e della critica, a partire dagli anni Venti fino ad oggi. Quindi le grandi dive (da Marlene Dietrich a Audrey Hepburn a Susan Sarandon, ad Angelina Jolie…), le registe più impegnate nella descrizione di una complessità e problematicità del pensiero, del carattere e della quotidianità femminile (tra le tante nominate, Ida Lupino, Agnès Varda, Chantal Akerman, Marguerite Duras, Sally Potter, Kathryn Bigelow, Chloé Zhao, Anna Biller,  Ava Marie Du Vernay,  Safi Faye, Petra Costa), le più agguerrite critiche cinematografiche femministe (Julia Lasage, Laura Mulvey, Katha Pol litt), impegnate a denunciare il sessismo oltre che nella forma e nei contenuti dei film, anche nei meccanismi dell’industria cinematografica e della distribuzione, rivalutando nel contempo le opere di autrici colpevolmente trascurate.

La seconda parte del volume, più leggera ed empirica, analizza alcuni strumenti pratici da applicare per giudicare il grado di adesione al femminismo dei vari lungometraggi, con una quotazione simbolica che varia da zero a cinque. Almeno sei i metodi utilizzati per valutare con criteri precisi la presenza e la rappresentazione dei   personaggi femminili, non come mere appendici di quelli maschili, ma con un loro specifico rilievo nello svolgimento della vicenda narrata. Il più noto e utilizzato da decenni è il Bechdel test, improntato però su criteri più quantitativi che qualitativi, e quindi non del tutto attendibile.

Nella classifica dei primi della classe proposta da Torrini, svettano Persepolis (2007) e Rafiki (2018), seguiti da molti altri: Joy, Camille Claudel, A private war, The United States vs. Billie Holiday, Tonya, Una giusta causa, Maria regina di Scozia, Malala, Miss Potter, Suffragette, Frida, Una canta l’altra no, Caramel, Le meraviglie, Piccole donne, Whip it!, Una donna promettente.

Non solo Puffette, Miss Piggy e Minnie; non solo insipide presenze di appoggio a super eroi, geni, campioni sportivi o banditi, né eccitanti lusinghe di godimento sessuale o lacrimevoli ricatti affettivi. Esiste un cinema in cui le donne sono caratterizzate da reale complessità, esibiscono le loro ambizioni, soffrono di conflitti interiori, lottano per ottenere il giusto riconoscimento al proprio valore.  Il libro di Valentina Torrini ne mette in luce la troppo sottovalutata rilevanza, nella consapevolezza che il cinema non avendo solo funzione di intrattenimento, necessita di venire analizzato attraverso “lenti femministe” che aiutino a percepirne il fondamentale compito formativo.

Quest’anno è nata Lynn, nuova divisione della casa di produzione cinematografica Groenlandia, intesa a promuovere    e a sovvenzionare esclusivamente progetti audiovisivi di donne. Si tratta di un’iniziativa coraggiosa e da incoraggiare, perché scommette sull’ideazione e fruizione di una settima arte davvero inclusiva.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 10 settembre 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TOSCANO

ANNA TOSCANO, DOSO LA POLVERE – LA VITA FELICE, MILANO 2012

Anna Maria Carpi, nella prefazione a questa plaquette di circa trenta poesie, definisce la giovane autrice «disadorna Anna», sottolineando di lei l’uso parco di artifici retorici, e il disincanto emotivo che accompagna i suoi versi. E veramente Anna Toscano sembra voler controllare molto sensazioni e sentimenti, eludere coloriture ed effetti speciali, come è già possibile intravedere dalla scelta indovinata del bel titolo Doso la polvere: quasi a indicare una severa regola di vita e di estetica, tesa a liberarsi da scorie, inessenzialità, eccessi. L’autrice, studiosa di Scienze del Linguaggio a Ca’ Foscari, è anche appassionata fotografa, e predilige gli scatti in bianco e nero. Così sono anche le poesie, che descrivono con tratti recisi, mai ammorbiditi da allegrezza o vivaci entusiasmi, ambienti, città, persone, affetti. La sua Venezia è raccontata nella lentezza di un passato celebrato e immobile («Il futuro non esiste / il futuro non arriva / nella mia città…// Noi si sta, felici, in uno specchietto retrovisore»), i passi che la portano in giro per il mondo non conoscono la spavalda gioia di vivere che meriterebbero i suoi giovani anni («Ho contato i passi, / passi lunghi cauti orizzontali»), il domani non sembra indicare possibilità di salvezza («i sogni / li ho infranti tutti / con una lancia sola»). La poesia di Anna Toscano esibisce una continua e malinconica constatazione di precarietà, come in questi espliciti versi tratti da Tutto è in affitto: «siamo grucce per cappotti / manichini per cappelli / forme per i guanti», e nemmeno l’amore concede scampo a questa negativa prospettiva di vita futura: «Fantastico, mi dicevi. / Fantastico, mi dico, / come non mi preservo, / come mi scialacquo»; «Non vi è nessuna sortita / questa è la fine della vita». A questa disposizione morale di immobile resistenza al tempo, l’ autrice fa corrispondere scelte formali raramente innovative, “dosate” su un minimalismo descrittivo di pura decifrazione dell’esistente.

 

«Leggere Donna» n.162, gennaio 2014

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TOSCANO

MARIO ALDO TOSCANO, POESIE MIGRANTI – ASTERIOS, TRIESTE 2020

Lo storico e sociologo Mario Aldo Toscano ha raccolto, interpretato, ridefinito una ventina di Poesie migranti, pubblicandole nella collana “Volantini militanti” della casa editrice triestina Asterios, con il sottotitolo di Antologia della sofferenza ribelle.
Si tratta di un’operazione intellettualmente lecita, culturalmente valida? Si possono riscrivere “poeticamente” (creando ex-novo ritmi, scansioni metriche, figure retoriche) testi anonimi di migranti, registrati come confessioni, sfoghi, espressioni di rabbia, protesta, nostalgia?
Direi di sì. Si è sempre fatto. Abbiamo letto spiritual dei neri schiavizzati nelle piantagioni americane, composizioni di popoli oppressi, canzoni di soldati in guerra, ballate di prigionieri, stornelli folclorici, canti religiosi popolari, derivati da una sensibilità collettiva anche se prodotti da un unico innominato autore.

Si tratta in genere di testi privi di velleità letterarie, ma dettati da una forte volontà comunicativa e dall’esigenza emotiva di far conoscere il proprio stato d’animo. Toscano in una lunga introduzione motiva la sua scelta partendo da una enunciazione di cosa si debba intendere per poesia. Principalmente, “un agire mediante il linguaggio per creare emozioni”, “una forma di conoscenza che si avvale di espressioni evocative”.
Critici e “poeti laureati” storcerebbero il naso, forse, di fronte a questa definizione, richiamandosi a precise tradizioni e regole testuali. Ma al curatore di questa antologia interessa soprattutto sottolineare come i testi in essa presentati siano stati raccolti: in base a un percorso di indagine sociologica e di vicinanza solidale con la sofferenza di gruppi di migranti, ripercorrendo le situazioni da loro vissute. Il distacco dal paese d’origine, le persecuzioni e le violenze patite, i lunghi viaggi per mare, i ricordi, le paure e le speranze.
I migranti non conoscono la poesia; conoscono la tragedia”. Le loro espressioni sono state ricostruite e rese nella loro intensità, rimodulate nelle ripetizioni e negli intercalari, restituite nell’efficacia visionaria delle immagini. Ne è risultato un prodotto letterario che vale soprattutto come testimonianza di “una condizione umana insostenibile”, di persone (“viandanti”, come li chiama Mario Aldo Toscano) che raccontano le loro storie, vicende intessute di sfruttamento, dolore e fatica, usando gli strumenti espressivi che hanno a disposizione.
La paura è probabilmente il sentimento più acuto che provano, insieme alla volontà di trasmettere e far conoscere il dramma vissuto, sperando di venire capiti e amati.
Queste venti Poesie migranti sono state raccolte in diversi luoghi e momenti, attraverso varie modalità. Parlano del deserto e del mare, del bisogno di un contatto fisico sicuro e non minaccioso con l’acqua e con la terra; parlano di fame e sete, di gambe indolenzite e piedi ulcerati, di madri spose e figli abbandonati, di notti fredde e interminabili, di città estranee e indifferenti, di felicità improvvise per una doccia calda o un giro in bicicletta:

“Il motore andava e non si vedeva che mare / mare e onde e facce di tutti noi / vicini e lontani come le nostre terre / di cui ricordiamo solo la polvere”, “Secchi fuori, secchi dentro / come gli alberi della savana / siamo noi nella notte”, “Camminiamo ma non sappiamo dove andare. / Le automobili corrono sulla strada a fianco a noi / e nessuno si ferma per parlare con noi”, “Sono qui / e prego cinque volte al giorno. / Qui nessuno prega”, “Ho perduto tutto. / Ho solo il mio nome, / solo il mio nome Wanjala Ugabungke”.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Poesie-migranti-Toscano.html               18 febbraio 2020

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TOSCO

ORSO TOSCO, FIGURE AMATE – INTERNO POESIA, LATIANO (BR) 2019

Orso Tosco (Ospedaletti, 1982) ha esordito come romanziere con il volume Aspettando i naufraghi, pubblicato lo scorso anno da Minimum Fax e molto lodato dalla critica: racconto apocalittico e distopico, con sconfinamenti nel fantastico, che invita il lettore a meditare sulla sofferenza e sulla speranza, sulla depressione e sulla salvezza dalla depressione. Ora pubblica presso Interno Poesia il suo primo volume di versi, Figure amate, in cui ancora esplora i territori del dolore dell’anima, nel distacco graduale dal padre molto amato, fino all’addio definitivo. Trenta poesie attraversate, secondo la prefatrice Franca Mancinelli, da una “corrente lirica e visionaria”, in cui “gli aghi e le parole si confondono”: aghi di iniezioni e di flebo, parole che curano e condannano.

Dalla sofferta esperienza biografica vissuta nel 2015, Orso Tosco aveva tratto suggestioni e stimoli già per la sua prova narrativa, qui ripercorsa con il desiderio filiale di recuperare un vissuto, dando testimonianza dell’“amore irrimediabile” verso chi se ne sta andando. Il corpo malato, osservato nella sua materialità più concreta, smembrato negli organi interni solitamente meno menzionati in un testo poetico (bile, intestino, teschio, scroto, ghiandole, prostata), quasi costringendosi a un’osservazione asettica che argini la commozione, viene continuamente correlato all’ambiente ospedaliero in cui è ingabbiato. “Letti di carta”, “piastrelle feroci”, liste di farmaci e strumentazioni mediche (benzodiazepine, morfina, cateteri, pitali, clisteri): i parcheggi di cemento osservabili dalle finestre si oppongono crudelmente al ricordo del mare ligure, profumato di lavanda, in un interscambio spietato tra l’infermità interna e l’impossibile salvezza dell’esterno: “Costruire la forma della morte come fosse un luogo, / una stanza da rivivere”. Dentro e fuori, presente e passato, speranza e rassegnazione si inseguono nell’esplorazione dei lineamenti tormentati del padre, figura cristica con “il palmo delle mani verso l’alto”, occhi gonfi, caviglie fredde, faccia come “un portacenere ruvido”, il corpo “lisca allucinata”.

La descrizione volutamente obiettiva in terza persona cui si obbliga il figlio, cede tuttavia presto il passo all’abbraccio di un colloquio diretto, dapprima rabbioso e incredulo (“Tu sei la melodia dei versamenti / pericardici, delle occlusioni / della progressione dei carcinomi”), e poi sempre più intenerito e affettuoso, e allora il padre adorato è accudito con pietosa dedizione, e poi consolato in un clemente invito all’abbandono del sonno: “Puoi lasciare, adesso, puoi lasciare / se sei stanco, se sei troppo stanco / per il troppo male, puoi lasciare”, “non preoccuparti, lasciati dormire / sotto le carezze, non avere paura, / ne abbiamo così tanta noi, lasciala a noi”. Un rapporto che è stato intenso non può finire, continuerà a riaffiorare nella memoria che è l’unica sopravvivenza possibile: “Tornerà il mare e torneranno / le mie mani di bambino / aggrappate alla tua schiena enorme. / Torneremo giovani… // torneremo / a stringerci / a occhi aperti nel respiro, / immergendoci torneremo / a stringerci, dolcemente”.

Con questi versi che sono una preghiera laica, Orso Tosco restituisce a sé stesso e ai lettori “Figure amate”, strette in una relazione inscindibile e sempre recuperabile, aldilà di qualsiasi fisica interruzione.

 

© Riproduzione riservata        

https://www.sololibri.net/Figure-amate-Tosco.html            26 aprile 2019

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TOWARNICKI

FREDERIC DE TOWARNICKI, RITORNO AD HEIDEGGER – DIABASIS, PARMA 2015

Nel breve romanzo Ritorno ad Heidegger, recentemente ripubblicato dalle edizioni Diabasis, il poeta e giornalista francese Frèdèric de Towarnicki (1920-2008) narrava un trentennio di conoscenza, amicizia e discepolato con il filosofo Martin Heidegger, dal primo incontro avvenuto nel 1945 nei dintorni di Friburgo fino all’ultima visita del 1969. Il volume, con prefazione di Beppe Sebaste e nota finale di Gianni Scalia, corredato da alcune interessanti fotografie, ci restituisce “non un supposto, bensì un vivente Heidegger”, come chiosa il postfatore: un omaggio riconoscente di un allievo al suo maestro, l’espressione della gratitudine dovuta al mentore che seppe illuminare la sua giovane intelligenza, inquieta e interrogante, in “una quête che era anche ricerca di se stesso”.

Chi era Frèdèric de Towarnicki? Di origine polacca, e madre ebrea viennese, Sebaste lo incontrò a casa sua, in un sobborgo di Parigi, descrivendolo nel 1996 come «appassionato e istrionico, umoristico e sincero…amico di pittori, uomini e donne di teatro, scrittori, filosofi…da Brecht a Ernst Jünger, da Mircea Eliade a Max Ernst, da Chagall a Picasso… la sua erranza poetica fu costellata di incontri e interrogazioni con maestri». Il più fondamentale dei quali fu, appunto, Heidegger: «La bellezza del loro incontro consisté proprio nell’improbabilità, nella discontinuità e disomogeneità dei linguaggi e dei modi».

Originale, anticonformista, vulcanico l’allievo; meditativo, austero, criptico il filosofo.
Nel capitolo iniziale del libro, Frèdèric si descrive come un ventenne che negli anni della seconda guerra mondiale si aggirava per Saint-Germain-des-Prés desideroso di incontrare i protagonisti della cultura parigina dell’epoca, in un clima di nascente esistenzialismo: Sartre, in primo luogo, nel cui L’être et le néant ebbe a scoprire per la prima volta i nomi di Husserl e Heidegger. E poi tutta la cultura contemporanea che aveva fatto del confronto polemico con il presente, dell’engagement più bellicoso una sfida e un obiettivo imprescindibile. La fenomenologia tedesca, bollata come «canto del cigno di una piccola borghesia minacciata», veniva accusata di aver spostato l’indagine dall’esistenza incardinata nella storia e nella contemporaneità verso la struttura puramente ontologica dell’uomo, e al senso ultimo dell’essere, all’essenza stessa della verità. Incuriosito dalle teorie heideggeriane, il venticinquenne Towarnicki (arruolato nel servizio sociale di documentazione “Rhin et Danube”, e inviato in missione nella Germania meridionale in disfatta), ebbe l’opportunità insperata di avvicinare il tanto ammirato filosofo tedesco, caduto in disgrazia per la sua complicità con il nazismo, e costretto a nascondersi in una baita a Totdnauberg, nella Foresta Nera. Il giovane e arguto poeta francese divenne così il «messaggero segreto» di Heidegger, il suo «visitatore impossibile, senza orologio né calendario», che seppe romperne l’isolamento culturale, creando un collegamento filosofico tra gli scritti di lui e la cultura francese, nelle persone di Sartre, Camus, Queneau, Merleau-Ponty, La Senne, Raymond Aron, Jean Beaufret, Emmanuel Lévinas. Il romanzo è quindi una sorta di diario degli incontri tra il giovane Frèdèric e Heidegger, a partire dal primo, nell’autunno del ’45, avvenuto nella casa di Zähringen, alla presenza di Alain Resnais e del capitano Fleurquin: «Entra. Sorprende il suo aspetto. Piccolo, piccolissimo, in costume regionale grigioverde dai risvolti ricamati, indossa dei knickers. Mi sconcerta il suo aspetto di contadino un po’ tarchiato, vestito a festa. Capelli d’argento, l’occhio nero, lo sguardo acuto, appare stanco. Una certa tristezza si legge sul viso dalle guance scavate, qualcosa di tragico… Un provinciale curioso che non si sarebbe mai avventurato fuori dalla sua terra natale».

Con questo “provinciale” che lo interroga sulle abitudini sociali e culturali europee, che irride l’ esistenzialismo e il marxismo, che si difende (insieme alla querula moglie Elfride) dalle accuse di collaborazione col nazismo, che gli consegna scritti inediti e fotografie e gli suggerisce di leggere i presocratici e i tragici greci, Nietzsche e Hölderlin, de Towarnicki instaura un rapporto di rispettosa ma non sottomessa amicizia, condividendo con lui la concezione dell’uomo inteso come «essere di slancio e progetto», ma interrogandosi se davvero la filosofia dovesse definirsi «un sapere inutile nell’immediato». Raccontò anni dopo il poeta Renè Char, amico di Martin Heidegger dal 1955, che ai seminari di Thor negli anni Sessanta, ogni volta che il filosofo udiva il nome di Towarnicki, il suo volto «si illuminava di un largo, lungo sorriso». Tornato a Parigi, dove «di caffè in caffè si ricostruiva il mondo», Frèdèrick divenne commentatore delle pagine culturali di Le Figaro, e continuò nel suo pervicace impegno di difendere il pensiero spesso incompreso del Maestro e la passione pedagogica di lui, tentando anche di giustificare il suo travisamento ideologico del nazismo. Poi, di nuovo partecipe dell’impegno culturale francese di sinistra, collaborò con la redazione sartriana di Les Temps Modernes, lavorando a fianco dei dissidenti sovietici. Per un decennio trascurò sia la frequentazione sia la lettura di Heidegger, irretito forse da quella che il filosofo tedesco definiva «l’epoca calcolante dominata dallo spirito della tecnica», oppure «il circo…il girotondo tirannico ed effimero dell’attualità». Il richiamo del pensiero heideggeriano, quindi Il ritorno ad Heidegger, tornò tuttavia a farsi prepotente in lui, e negli anni della protesta sessantottesca lo riportò sulla strada di Friburgo, dal Professore ormai vecchio, deluso, isolato. Solo allora, Frèdèric de Towarnicki osò chiedergli il motivo del suo tragico errore nel 1933. «Dummheit», rispose Heidegger. «Stupidità».

 

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www.sololibri.net/Ritorno-ad-Heidegger-de-Towarnicki.html         20 aprile 2016

RECENSIONI

TRANSTROEMER

TOMAS TRANSTRÖMER, I RICORDI MI GUARDANO – IPERBOREA, MILANO 2011

Con un titolo molto lirico, I ricordi mi guardano, Iperborea ha pubblicato otto brevi prose (l’unica prova narrativa nelle vita dell’autore, uscita in Svezia nel 1993) del premio Nobel Tomas Tranströmer, il poeta più tradotto al mondo.
Produzione letteraria e biografia si nutrono vicendevolmente in ogni scrittore, e a vicenda si illuminano di epifanie che aiutano il lettore a meglio penetrare nel mondo di chi si racconta sulla pagina. Ed è sempre l’infanzia la miniera di ricordi e sentimenti a cui si ricorre per comprendere e descrivere se stessi agli altri: «Il nucleo, la parte più densa, sono quei primissimi anni in cui vengono definiti i tratti fondamentali della nostra esistenza».

Quindi Transtroemer narra i suoi anni dalla primissima infanzia al liceo, che nel volume sono illustrati anche da ritratti fotografici: dai tre anni, segnati da una sensazione di fierezza per aver raggiunto un’età di quasi consapevolezza, al divorzio dei genitori: «Io non avevo un papà da mostrare… sentivo fortemente il pericolo di essere considerato un diverso perché nel fondo di me stesso sospettavo di esserlo», alla coscienza di una sua sostanziale estraneità nei riguardi dei coetanei: «Ero divorato da interessi che nessun bambino normale avrebbe avuto».

Quali potevano essere, dunque, gli interessi di un ragazzino futuro poeta premio Nobel? «Scoprire, raccogliere, esaminare». La passione per i musei e le collezioni di insetti: «Senza rendermene conto feci molte esperienze di bellezza. Mi muovevo nel grande mistero». E poi la lettura, lo studio della storia e della geografia, la passione della politica come senso etico della giustizia e della lotta contro i soprusi. Ma anche la scoperta dell’angoscia, della malattia, della morte come esperienza del buio, dell’annullamento, della perdita. Del tempo che passa e incide solchi nel corpo, lo muta e stravolge. E infine la musica, la filosofia e soprattutto la poesia come àncora di salvezza: la rilettura dei classici antichi, il rispetto della “forma” come nitidezza e onestà di vita e scrittura.

 

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www.sololibri.net/ricordi-guardano-Transtroemer.html     22 maggio 2016

RECENSIONI

TRANSTROMER

TOMAS TRANSTRÖMER, POESIA DAL SILENZIO – CROCETTI, MILANO 2011

Tomas Tranströmer (1931-2012) fu il più importante poeta svedese della seconda metà del ‘900, tradotto in 46 lingue, citato e imitato da numerosi epigoni europei e americani. Insignito del premio Nobel nel 2011, di formazione e professione era psicologo, per vocazione e passione valente pianista: entrambe queste doti e caratteristiche culturali segnarono la sua produzione in versi, profondamente attenta alle sfumature emotive del pensiero, e modulata musicalmente.

L’antologia con testo a fronte pubblicata da Crocetti, Poesia dal silenzio, è introdotta da una presentazione di Maria Cristina Lombardi, che giudica lo stile del poeta di Stoccolma caratterizzato essenzialmente da «densità semantica e concisione formale… potenza lirica e prepotente fecondità delle immagini». In effetti, la scrittura di Tranströmer, espressa in dodici esigue raccolte di testi perlopiù brevi, esprime tutta la sua originalità proprio nei punti enucleati dalla prefatrice all’interno del suo interessante commento iniziale. Il fantastico e l’immaginifico, in primo luogo, resi in metafore fulminanti e condensate, che apparentano il mondo fisico (animali, vegetali, fenomeni atmosferici) alle sensazioni interiori, siano esse sogni, incubi, o visioni illuminanti: «Su un binario morto un vagone vuoto. / Fermo. Araldico. / I viaggi nei suoi artigli», «Pezzi di ghiaccio: gotico capovolto. / Mandria astratta, mammelle di vetro», «Un albero vaga nella pioggia, / ci passa in fretta davanti nel grigio scrosciante. / Ha un affare da sbrigare. Prende vita dalla pioggia / come un merlo in un frutteto».

L’eredità degli studi psicanalitici si avverte in un reiterato interesse per lo scandaglio nel profondo buco nero dell’inconscio, per l’attività onirica, per il rimosso che affiora disturbante: «È un travestimento. / Il profondo che prova e scarta diverse maschere», «In sogno scesi in un fosforescente bacino sotterraneo, / una messa fluttuante», «Il teatro nella profondità autentica! // … Domani tutto sarà cancellato».

La fascinazione musicale ritorna nelle tonalità modulate in accordi strumentali, e in riferimenti concreti all’esistenza di compositori classici: «Due vecchi, suocero e genero, Liszt e Wagner, abitano sul Canal Grande», «Mi porta la mia ombra, / come la sua nera custodia / un violino», «Presenza di Dio. / Nel canto degli uccelli / s’apre una porta».

Lo stile in cui si esprimono i versi ‒ essenziali, contratti e lucidi ‒ di Tranströmer è paratattico, fatto di brevi frasi coordinate, in cui però ogni termine assume una pregnanza di significato tutta da esplorare, nella ricerca di significati plurimi, di nessi logici non immediatamente intuibili: una poesia non facile, quindi, e mai banale, che richiede al lettore un’adesione attenta e partecipe, anche perché non ama giocare con tranelli e trucchi linguistici, con sperimentalismi fine a sé stessi.

Il silenzio, da cui nasce la sua scrittura, è base imprescindibile per mettere in luce il miracolo da cui nasce la parola. Proprio ad essa il poeta deve il massimo rispetto, e suprema riconoscenza. Soprattutto se avvicina al mistero dell’esistenza, al momento tragico della morte, come nell’ultima raccolta La gondola a lutto, composta dopo l’ictus che ridusse il poeta alla paralisi e al mutismo: «E il Vuoto gira il suo volto verso noi e sussurra: ‘non sono vuoto, sono aperto’», «Il sole è basso. / Ombre nostre giganti. / Sarà tutt’ombra», «Buona sera, meraviglioso profondo! / La gondola è greve, carica di vite, è semplice e nera».

Ma la parola serve anche a denunciare la persecuzione del potere, quando il tacere diventa non una scelta ma un obbligo, nei regimi dittatoriali sparsi per il mondo: ha quindi una responsabilità civile, a cui Tomas Tranströmer non si è mai sottratto, nel suo confronto leale e coraggioso con ogni viva  e presente realtà, e con la storia universale.

 

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https://www.sololibri.net/Poesia-dal-silenzio-Transtromer.html        25 marzo 2018

 

 

RECENSIONI

TRAVI

IDA TRAVI, DIOTIMA E LA SUONATRICE DI FLAUTO – LA TARTARUGA, MILANO 2004

Nella partecipe prefazione di Luisa Muraro, filosofa e storica del femminismo, l’atto tragico di Ida Travi intitolato Diotima e la suonatrice di flauto, pubblicato nel 2004 da La Tartaruga, trova la sua origine e destinazione nel rapporto fruttuoso che la nostra contemporaneità mantiene con il pensiero e la letteratura greca. Ida Travi (Cologne, BS, 1948) è poeta che della scrittura in versi ha da sempre sottolineato la forte valenza orale e scenica. Come affermava in un suo importante testo teorico del 2000, anticamente “la poesia fu un dono orale, un’enciclopedia del mondo, un’epica. Ed è evidente ancora: sotto la crosta della scrittura permane un flusso continuo, sonoro, vitale”. Travi è molto attiva in spettacoli teatrali in cui agisce esprimendo emozioni più coinvolgenti rispetto alla semplice lettura di versi, con l’utilizzo della voce nelle sue varie e dissonanti tonalità, accompagnata dalla musica, dal movimento sulla scena, dalla danza.

Diotima e la suonatrice di flauto è un atto unico ambientato ad Atene nel 416 a.C., e prende spunto dalla rilettura del Simposio di Platone e del breve scritto Diotima di Mantinea di Maria Zambrano. L’autrice narra di come durante il banchetto offerto dal poeta Agatone per celebrare la sua vittoria in un concorso tragico, i celebri convitati (tra cui Socrate, Alcibiade, Fedro, Aristofane) si confrontassero formulando le loro idee sul tema dell’Amore. Socrate non espone direttamente la sua opinione, ma riferisce il pensiero della sua maestra Diotima di Mantinea, che non è presente alla cena. La suonatrice di flauto Anna, incaricata di allietare la riunione con la musica, viene subito allontanata, per non distrarre l’esposizione degli ospiti, tutti uomini.

A questo punto Ida Travi immagina un incontro notturno lungo il sentiero degli ulivi tra la giovane musicista e la saggia Diotima, entrambe tenute lontane dal banchetto filosofico maschile, e accomunate dallo stesso destino di assenza e silenzio, di esclusione dalla storia degli uomini. Il nome scelto per la flautista, Anna, è volutamente estraneo alla tradizione greca, e ha la particolarità di presentarsi palindromo, leggibile da entrambi i sensi, a indicare una simultaneità e intercambiabilità di spazi e tempi, tra passato e presente, dentro e fuori.

L’atto unico (che Travi definisce “tragedia lampo, quasi un trasalimento”), conserva la struttura della tragedia: ingresso e uscita del coro, episodi, stasimi. Si snoda soprattutto come un monologo di Anna, la quale racconta di come sia stata allontanata dal convito per non disturbare le dotte conversazioni degli uomini, ma le abbia comunque ascoltate nascosta nel vestibolo, rimanendo colpita dalle parole di Socrate: “Diotima, la mia maestra, pensa che muovendo dalla povera bellezza dei corpi si possa salire, su, su, fino alla bellezza delle anime e poi da lì, su fino alla bellezza delle leggi, e poi ancora fino alla bellezza delle scienze, per arrivare alla visione di una Bellezza ultima, assoluta”. Rivela a Diotima di essersi proposta volontariamente come flautista, al fine di mettere in atto una personale vendetta. Avrebbe voluto infatti avvelenare Aristide, padre fedifrago di sua figlia, e confessa la delusione e lo sconforto per non esserci riuscita. La sua interlocutrice le risponde illustrandole la differente natura dei caratteri maschili e femminili, dei pregiudizi e delle sottovalutazioni degli uomini sulle donne, dei loro egoismi riguardo al ruolo di cura che spetta alle loro compagne: “Il latte delle donne nutre i piccoli nei corpi e poi, più avanti, la scienza delle donne diventa nutrimento trasparente”. C’è, nel testo di Ida Travi, questa fondamentale rivendicazione di generosa grandezza della femminilità, anche quando la gravità delle cose terrene le costringe troppo spesso a procedere a “passi misurati, lenti”, rinunciando al volo. L’aspirazione della giovane flautista a ritrovare la propria eccellenza viene patita come una colpa, e la tragedia si compie nella decisione di uccidersi non appena viene informata della morte improvvisa della sua bambina.

La conclusione drammatica del testo teatrale viene ribadita dall’appendice che chiude il sottile volume, intitolata La Verità, in cui l’autrice racconta un episodio biografico che sembra ricalcare quello vissuto dalla flautista, e che le ha fornito l’ispirazione per scrivere l’atto tragico di cui ci stiamo occupando: un invito a cena nell’abitazione elegante di una coppia di intellettuali, tra commensali eruditi che si interrogano sul significato della Verità (non dell’Amore, come durante il banchetto di Agatone). La poetessa rivive con un senso di umiliazione lo stesso sentimento di inappartenenza ed esclusione provato da Anna, ed estraniandosi dalle futili e pompose conversazioni degli ospiti, riflette su quanto la cultura e la bellezza dell’antica Grecia possa ancora nutrire la sensibilità del mondo contemporaneo, offrendo spunti di riflessione sulla storia del mondo da cui le donne per millenni sono state estromesse.

Il testo di Ida Travi, messo in scienza in diversi teatri, è stato trascritto come libretto d’opera e musicato nel 2011 dal Maestro Andrea Battistoni.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net        18 aprile 2023

RECENSIONI

TRAVI

IDA TRAVI, POETICA DEL BASSO CONTINUO. LA SCRITTURA, LA VOCE, LE IMMAGINI

MORETTI & VITALI, BERGAMO 2015

Prima ancora che se ne occupasse con grande consenso di pubblico un’altra poeta italiana, Mariangela Gualtieri, facendo della voce lo strumento principe della risonanza emotiva della poesia, Ida Travi (Cologne, Brescia,1948) già dagli anni ’90 rifletteva teoricamente sull’oralità della scrittura in versi, mettendo in atto materialmente – a teatro, in radio, nei festival, in video – performance recitative di notevole suggestione.

In L’aspetto orale della poesia, edito nel 2000, ristampato più volte, commentato e studiato in numerosi interventi critici, proponeva un utilizzo della vocalità capace di recuperare la tradizione classica, da Omero e dai tragici greci, ampliandosi fino ai suggerimenti della psicanalisi e alle ricognizioni della fisica del suono, per circoscrivere nascita e sviluppo del linguaggio umano tra canto, narrazione e resa poetica.

La riflessione sull’eredità degli antichi veniva approfondita nel testo successivo, Diotima e la suonatrice di flauto, del 2004, in cui la lettura del Simposio di Platone fungeva da avvio per una rappresentazione scenica dell’esclusione della donna dalla storia scritta dai maschi.

Di nuovo, nel 2009, le “Poesie per la musica” di Neo-Alcesti reinterpretavano il ruolo dell’eroina di Euripide, simbolo del sacrificio per amore, all’interno di uno spazio-casa in cui la memoria si faceva destino, il dolore si riscattava nell’offerta di una resurrezione.

In Tà, Poesia dello spiraglio e della neve del 2011, l’idea di confine tra realtà e sogno diventa passaggio, fessura, taglio: tà, tà, tà, come le lancette dell’orologio, che inesorabili trasbordano dalla spiritualità dell’infanzia alla materialità pesante dell’età adulta (“io tenevo il tuo spirito in braccio / tu tenevi il mio viso in mano / oh carità com’era / come eravamo spirituali / quando eravamo piccoli”.

Ma è in Poetica del basso continuo del 2015 che la riflessione di Ida Travi torna a interrogarsi in maniera approfondita sul rapporto tra scrittura e voce, includendovi l’apporto fondamentale delle immagini e del movimento. Vi sono raccolti scritti di diversa natura: articoli, brevi saggi, evocazioni e quattro importanti interviste rese dall’autrice nell’arco di doversi anni. I vari testi approfondiscono l’indagine sulla lingua parlata all’origine, alla ricerca della sorgente del suono, nel suo differenziarsi dal silenzio, dal primo balbettio dell’infante rivolto alla figura materna fino all’innalzarsi solenne che si espande nella rappresentazione teatrale, nella ribellione all’abitudinarietà e alla regola, nell’estasi e nella follia.

Il basso e continuo indica l’andamento ostinato e costante del dire, la sua funzione di sostegno armonico al dettato, quasi un breviario quotidiano umilmente rivelatore del vero: “In basso nel pericolo e nella fragilità comincia la rivoluzione del linguaggio poetico, è il linguaggio del battito cardiaco con qualche inciampo, prima del discorso, è il linguaggio più vicino all’agire, lì succede qualcosa”. Altrimenti verrà detto: “Fa in modo che le parole non facciano / pensare a una poesia, ma lo siano”, compito enorme, esorbitante affidato all’espressione poetica. Secondo il critico Tommaso Di Dio “E così che ogni voce in Ida Travi parla e parla veramente: non parla di cose, non dice del mondo: dice mondo, fa corpo con il fluire del mondo; fa corpo con la scomparsa di ogni mondo che accade nel punto esatto del suo stesso nascere”.

Da dove arriva, quindi, la visione poetica? Forse da “un reperto, il frammento di una lingua perduta, erosa dal tempo, oppure l’annuncio d’una lingua a venire”. Ha origine nella “prima lingua – parlata ‘sul nascere’ – quella lingua tenace, musicale, diretta e soprattutto orale, che non muore mai. Si ritrova per esempio nel gioco, nella lingua amorosa, nell’imprecazione come nella preghiera. L’aspetto orale della poesia si nutre di questa lingua, ma con essa non coincide; è ancora un’altra cosa, perché… la poesia disubbidisce sempre, si discosta”, e “dice qualcosa che non finisce”.

Per riuscire a compiere il miracolo che trasforma il verbo in essere, forse non basta più la voce, ma è necessario affidarsi anche alla forza delle immagini, che arriva da un dovunque spazializzato (dalla storia, dalla pittura, dal cinema), da un ammaestramento evocato e preteso: “Un maestro indiretto non è il tuo maestro, è quello che insegna nell’altra classe. Il suo insegnamento ti arriva da un altrove. Una maestra indiretta non ti è davanti, ma ogni tanto ti arriva la sua voce. Tu fai letteratura e senti che di là stanno parlando di storia, tu fai storia e senti che di là fanno disegno. Tu fai disegno e senti che di là scoppia la musica”. Il linguaggio che si propone come svelamento e profezia di una verità, come assedio e violenza fatta al silenzio, si formula e riordina allo stesso modo delle sequenze visive di un film. E proprio dal cinema, dalla magistrale lezione di Godard, Travi ha tratto materia e disciplina del comporre: a lui sente di rivolgere la sua gratitudine di allieva. Altri maestri indiretti richiamati nel volume sono registi come Bresson e Tarkovskij, poete come Antonia Pozzi, pensatrici come Maria Zambrano, Hanna Arendt, Simone Weil, Chiara Zamboni e la comunità di Diotima, filosofi classici e contemporanei, psicanalisti. La poesia insegna a nominare il mondo, abbandonandosi liberamente a un onirismo nutrito da simboli concreti, ricavati dalla memoria o dall’abbaglio miracoloso dell’osservazione di una casa, di una tazza sul tavolo, del mare in lontananza, di una mosca.

Raccontarla, pronunciarla è farla vivere e rivivere in chi legge e ascolta, nel mistero della genesi primordiale della parola.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 4 maggio 2023