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RECENSIONI

VALLORTIGARA

GIORGIO VALLORTIGARA, DESIDERARE – MARSILIO, VENEZIA 2025.

Non appare facilmente definibile l’ultimo libro pubblicato dal Prof. Vallortigara (e prima sua prova narrativa), che si muove con elegante disinvoltura tra i modelli del saggio e del romanzo.

Giorgio Vallortigara (Rovereto, 1959), neurobiologo noto a livello internazionale, autore di innumerevoli articoli scientifici e di molti volumi divulgativi di successo, oggi è Professore di Neuroscienze al Center for Mind/Brain Sciences dell’Università di Trento.

La trama di Desiderare (verbo declinato all’infinito, quasi a esprimere un auspicio non quantificabile o limitabile, oppure un invito imperioso…) si sviluppa su due binari, uno inserito nella contemporaneità, l’altro riportabile all’epoca vittoriana inglese. I luoghi che fanno da sfondo alle vicende narrate sono infatti Brighton, Londra, Cambridge, Trieste, Padova, Capri, Erice, Rovereto. Gli ambienti in cui si muovono i molti personaggi sono decisamente esclusivi: grandi ville padronali, istituti e università scientifiche d’élite, alberghi di lusso, feste in salotti prestigiosi, congressi selettivi. Come afferma a un certo punto il protagonista principale Itzhak, alter ego dell’autore: “Alla nostra età siamo autorizzati all’agio e all’indisciplina ideologica”. L’agio raccontato nel testo è innegabile; l’indisciplina ideologica, meglio qualificabile come incontinente curiosità intellettuale, è altrettanto reale. Infatti i campi del sapere che vengono affrontati, discussi e sezionati con affilatissimi strumenti esplorativi, spaziano da quelli più peculiarmente scientifici (biologia, genetica, medicina, astronomia, fisica, chimica, psicanalisi) ad altri più distesamente umanistici (arte, architettura, letteratura, filosofia, teologia), con un’elencazione davvero impressionante di figure illustri, di aneddoti curiosi e pettegolezzi, di titoli, brani in prosa e in versi riprodotti a suffragare le tesi esposte nei vari capitoli.

Anche lo stile della scrittura di Vallortigara evidenzia un gusto raffinato per la ricercatezza di sostantivi e attributi, talvolta desueti o addirittura arcaici, spessissimo inerenti a una terminologia specialistica di ambito scientifico. Il lettore avverte affiorare qua e là toni ironici e pungenti, mentre diffusa ovunque è la sensibilità attenta ai dettagli, colti nella descrizione di esterni/interni e di persone. Luci, colori, arredamenti sono tratteggiati con cura; le espressioni dei visi e le posture dei corpi vengono delineati con cruda esattezza. Stupisce, ad esempio, l’interessamento costante che l’autore rivolge alle dita dei suoi personaggi: lunghe e affusolate, oppure tozze e respingenti; a ventaglio, unghiute, appoggiate delicatamente alla fronte o al naso, inanellate, intrecciate tra di loro, o esploranti le intimità più seduttive.

Chi è quindi Itzhak, questo personaggio eclettico, colto, che agisce nei dialoghi, nei gesti, nei pensieri con una sicurezza invidiabile, e un’inscalfibile padronanza di sé? Nativo di Ferrara, si definisce uno storico della scienza, ma in realtà rivela competenze eccezionali non solo nell’indagine del sistema nervoso, della memoria, e della coscienza negli esseri viventi, ma in tutte le ramificazioni della cultura. È interessato, fisicamente e intellettualmente, a Sylvia (giovane ex-matematica passata allo studio dei computer e assunta in una società farmaceutica per occuparsi di sicurezza investigativa), con cui vive una sessualità coinvolgente e disimpegnata, sfuggente nella sua saltuarietà. Intorno a Itzhak ruotano altre figure: il vicentino Pietro Ongaro, professore espatriato in Inghilterra, concreto e graffiante; il grande scienziato Patrick de Gray, misterioso e arrogante, protetto dall’alone sibillino della madre Contessa, dalle inclinazioni e potenzialità insolite; l’ombra del geniale amico Vittorio, suicidatosi in circostanze oscure, di cui un millantatore sconosciuto aspira a fare le veci. Sarà compito del protagonista Itzhak smascherare quali simulazioni e inganni si celano nelle vite di chi lo circonda. Altro suo incombente impegno è la stesura di un romanzo riguardante la personalità fascinosa di Douglas Spalding, biologo britannico che nell’ 800 studiava il comportamento degli animali, vivendo nella lussuosa dimora di Lord John Amberley Russell, come amante ufficiale della di lui moglie Kate e precettore dei loro figli Frank, Rachel e Bertrand Russell. Spalding fu lo scopritore del fenomeno dell’imprinting, cioè dell’interazione tra apprendimento e istinto nel comportamento animale, ben prima del suo epigono Konrad Lorenz: entrambi mitici riferimenti degli interessi scientifici di Itzhak. Interessi che emergono in quasi ogni pagina del libro, ne costituiscono l’ossatura portante, spesso arrivando ad appannare la trama puramente narrativa.

Così i discorsi tra amici diventano colte e talvolta polemiche dissertazioni accademiche, mentre i comportamenti di api, topi, opossum, anguille, maialini, gabbiani, zecche, e in particolare di pulcini e galline vengono analizzati con meticolosità chirurgica (è opportuno ricordare a questo proposito i recenti volumi divulgativi di Giorgio Vallortigara, Cervello di gallina e I pulcini di Kant).

Gli esperimenti di laboratorio descritti anche nella loro crudezza – dissezioni, perforazioni del cranio, mutilazioni – risultano coinvolgenti e insieme inquietanti per la loro trasferibilità sugli umani. L’indagine scientifica viene costantemente applicata dall’autore a ogni fenomeno più o meno rilevante dell’esistenza: dalla passeggiata sul lungomare di cui si contano i passi alle varie fasi del trasporto amoroso, dall’ancheggiamento delle modelle nelle sfilate di moda alla magica sonorità di un violino, dal colore dei fiori in un parco ai fluidi trasmessi con il bacio.

“Dopo che ha raddrizzato le spalle, sulla schiena le si forma una curva sigmoidea che si allaccia al principio dei glutei”; “Lo guarda di sottecchi, le palpebre abbassate riducono le sclere a ellissoidi che cercano di metterlo a fuoco”; “La ghiandola tiroidea dev’essersi risvegliata nelle ultime settimane: ne riconosce la firma quando le sue risposte motorie, gli effetti, sono così veloci da precedere la consapevolezza degli stimoli che ne sono stati la causa”.

La compenetrazione tra invenzione narrativa e informazioni scientifiche è talmente intensa e vitalizzante, che appare in tutta la sua veridicità la frase che l’autore fa pronunciare a uno dei suoi personaggi: “La scienza è sempre stata un’attività riservata a pochi: noi guardiamo dall’alto in basso anche Dio… Per quelli come me fare lo scienziato non è un lavoro, ma una condizione dell’anima”.

Giusto suggello a un romanzo sapiente, impegnativo, decisamente originale anche e soprattutto nei suoi effetti imprevedibilmente spiazzanti.

 

«Gli Stati Generali», 9 ottobre 2025

RECENSIONI

VAN GULIK

ROBERT VAN GULIK, IL DELITTO ALLO STAGNO DEI LOTI – OBARRAO, MILANO 2020

Lo scrittore olandese Robert van Gulik (1910-1967) era anche antropologo e musicista. Esperto conoscitore della Cina, delle sue tradizioni e dell’indole dei suoi abitanti, aveva trascorso l’infanzia a Giava, si era specializzato in sinologia all’Università di Leiden e, dopo aver conseguito il dottorato in Filosofia a Utrecht, aveva intrapreso la carriera diplomatica in India, Cina, Giappone, Malesia, in Africa e negli Stati Uniti. Tornato in Cina nel 1943, si era sposato con una ragazza di una nobile famiglia di mandarini. Definito dalla critica “un uomo occidentale con il cuore orientale”; conosceva alla perfezione varie lingue europee, asiatiche e africane. Queste sue eccezionali qualità e competenze gli diedero l’opportunità di cimentarsi non solo in una raffinata saggistica (Adelphi ha pubblicato due suoi testi fondamentali Erotic colour prints of the Ming period e La vita sessuale nell’antica Cina), ma anche con l’invenzione di numerosi romanzi e racconti gialli, ambientati appunto nel continente asiatico, e raccolti nella serie “I casi del giudice Dee”, oggi pubblicati dall’editrice milanese ObarraO.

L’ebook di cui ci interessiamo, Il delitto allo stagno dei loti, è un’elegante short story che narra di un caso avvenuto nell’anno 667 d.C. nell’antica cittadina lacustre di Han-yuan.

Il giudice Dee Jen-djieh, si ritrova a indagare su due crimini: la rapina di dodici barre d’oro al Messo del Tesoro Imperiale e l’assassinio del poeta sessantenne Meng Lan.  Costui, dopo la morte della moglie si era ritirato a vivere nella sua modesta proprietà dietro il Quartiere dei Salici, abitato promiscuamente da personaggi piuttosto equivoci. Aveva quindi comprato e sposato una cortigiana venticinquenne, con cui condivideva una tranquilla vita coniugale, frequentata da pochi amici, ma assillata dalle continue richieste di soldi del giovane fratello della donna. Il poeta era stato accoltellato al cuore mentre contemplava serenamente la luna dal padiglione del suo giardino, posto al centro di uno stagno cosparso di loti, in cui gracchiavano rumorosamente molte rane. Ed è proprio il gracidio delle rane a permettere al giudice Dee di risolvere i due misfatti, il furto e l’omicidio, che si rivelano intrecciati agli interessi economici di un rispettabile conoscente della coppia.

Il racconto, lontano dalle tipiche atmosfere di suspense dei gialli tradizionali, ha però il merito di essere scritto con raffinatezza e un sottile humor, attento alle sfumature caratteriali dei personaggi. Inoltre, introduce i lettori alla scoperta di un autore poliedrico e poco noto, e al lavoro della piccola e vivace editrice ObarraO, accurata nella grafica e innovativa nell’esplorazione delle culture orientali.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Il-delitto-stagno-loti-Dee-Gulik     3 marzo 2021

 

 

 

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, OLTRE IL CRISTIANESIMO – BOMPIANI, MILANO 2013

In questo importante saggio Marco Vannini, il più noto e stimato studioso italiano del misticismo e della tradizione spirituale cristiana, torna sui temi che va approfondendo da più di quarant’anni. Il volume, suddiviso in quattro sezioni, si apre con una puntuale e appassionata disamina delle tesi eckhartiane, il cui nucleo fondamentale si può riassumere in poche citazioni: «Nessuno è ricco di Dio, se non è completamente morto a se stesso»»; «Vigila su di te, e, non appena trovi te stesso, rinuncia a te stesso; questa è la cosa migliore che tu possa fare». La rinuncia, quindi, alla propria egoità, all’amor sui (volontà di essere e di avere), quale primo indispensabile passo verso la libertà, interiore ed esteriore, e verso il raggiungimento della gioia, della pace, della beatitudine.

«Il perfetto distacco non vuole né questo né quello… lascia essere tutte le cose davanti a sé, senza importunarle». Togliere dall’animo il desiderio di appropriazione: non solo delle cose e delle passioni, del successo e della considerazione di sé, ma anche della volontà di conoscere e persino del sentimento religioso.
«Prego Dio che mi liberi di Dio», scriveva Eckhart. Recuperando tutto un filone di pensiero spirituale che da Eraclito, Platone e Plotino, attraverso i Vangeli, S. Paolo e Sant’Agostino arriva alla mistica occidentale (Eckhart, appunto, e poi Taulero, Silesius, Margherita Porete), approdando infine ai pensatori moderni e contemporanei (Kant, Hegel, Hölderlin, Schopenhauer, Nietzsche e Simone Weil), Marco Vannini supera la concezione tradizionale di un cristianesimo corrotto dalla teologia, dai dogmi, dalle istituzioni religiose che hanno voluto impadronirsi di Dio per metterlo al servizio di una società, di una morale, di un singolo popolo, degradandolo così a falso mito da utilizzare secondo i propri bisogni e fini. Contesta anche l’idea più sentimentale e psicologica che ci facciamo della divinità, intesa solo come esperienza interiore arricchente o difensiva: un dio-ente, dio-idolo, storico e finito. Dio è invece «uno ed eterno, e perciò opposto a corpo, molteplicità, temporalità», è «spirito, che non ha un dove, non è nel tempo e nemmeno nell’estensione», non è creato né creatore: la sua esistenza «è tutta data, qui, nella luce, nella pace che è e che siamo». E’ l’inesprimibile libertà del tutto, trascendente e immanente insieme, estraneo a ogni dualità o alterità.
Quello che può aiutare l’uomo contemporaneo, sedotto dalle mille sirene dello psichismo e della realizzazione sociale (economica, culturale, sessuale…) a liberarsi dai condizionamenti di una fede fasulla e delle derive menzognere cui sono approdati i vari cristianesimi, è un’immersione nella spiritualità orientale, un “Passaggio in India”, che sappia recuperare la saggezza delle Upanishad, del brahmanesimo e del buddhismo, di cui in questo volume vengono illustrati i principi fondamentali: ancora una volta il distacco e la meditazione, per arrivare all’ illuminazione.
Esemplare in questo senso è stata la vita del monaco benedettino francese Henri Le Saux, di cui Vannini racconta nell’ultimo corposo capitolo l’appassionante vicenda umana e spirituale, usando come traccia il suo Diario. Nato in Bretagna nel 1910, Le Saux fu ordinato sacerdote nel 1935 e, dopo controverse vicende umane, si trasferì in India nel 1948, con l’intento di conciliare la regola benedettina con le forme della spiritualità hindū. Dall’India non fece più ritorno, e lì venne sepolto nel 1973. Ebbe occasione di frequentare i saggi Ramana Maharshi, Sri Poonja, Sri Gnanananda, convincendosi della superiorità delle Upanishad e della Bhagavadgita rispetto ai testi della tradizione ebraico-cristiana, fino ad arrivare a scrivere: «Ho vissuto le mie ore migliori da hindū. Il vedānta mi ha donato ciò che non mi ha mai donato la Chiesa». Combattuto da un doloroso travaglio interiore, rimase comunque cristiano: «Che lo voglia o no, io sono profondamente legato a Gesù Cristo e dunque alla koinonìa della Chiesa. E’ in lui che il ‘mistero’ si è rivelato a me dal momento del mio risveglio a me e al mondo…E’ nel suo specchio che io mi sono riconosciuto, adorandolo, amandolo, consacrandomi a lui».

Vannini ritrova in Le Saux la stessa illuminante e umile sapienza dei mistici medievali, lo stesso loro rifiuto della temporalità e della corporalità, l’esigenza del distacco dal fenomenico e dell’immersione nel fondo della propria anima: «Perché la nostra realizzazione è al di dentro. Noi non siamo per il domani, né per l’oggi, né per il futuro prossimo, ma per l’istante presente… La salvezza è ‘uscire dal tempo’. Accedere all’eternità». In nome di Dio («Amare Dio senza attaccamento») bisogna superare tutte le realizzazioni storiche della varie religioni, dei riti, delle formule, delle superstizioni, accogliendo in sé la Grazia, e l’unica vera proposta di libertà: quella dello Spirito.

 

«incroci on line», 22 luglio 2015

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, ALL’ULTIMO PAPA – IL SAGGIATORE, MILANO 2015

Il filosofo e teologo Marco Vannini ha dedicato il suo più recente – intenso e coraggiosissimo – libro a Joseph Ratzinger, che definisce, con affettuoso rispetto e ammirata solidarietà, «l’ultimo papa»: il solo che abbia tentato di salvare ciò che rimane del cristianesimo dalla barbarie attuale «dell’ignoranza, della volgarità, della menzogna», scegliendo con coerenza il cammino dell’interiorità, del logos, della cultura rispetto alla religione sociale, esteriorizzata, politicizzata, di cui sono stati e sono prometeici rappresentanti i due pontefici che l’hanno preceduto e seguito. Le sue dimissioni dal soglio papale, oltreché temerarie e scandalose agli occhi dei più, sono parse inevitabili:

«Benedetto XVI si è trovato stretto nella contraddizione tra la necessità di difendere la credenza tradizionale, soprattutto per le masse popolari, e il doveroso rigetto di una religione ridotta a mitologia, cui è ignota l’esperienza dello spirito… Far passare il cristianesimo da mitologia a conoscenza dello spirito nello spirito deve essergli apparso un compito quasi impossibile, o tale comunque da richiedere forze molto superiori a quelle di un vecchio papa».

Vannini è uno dei massimi studiosi e interpreti europei della mistica medievale, traduttore e commentatore di Meister Eckhart e di Silesius, profondo conoscitore di tutta la filosofia occidentale e orientale che si richiama alla spiritualità: dalle Upanishad al Buddhismo, da Platone a Plotino e Porfirio, da S. Paolo agli gnostici a Sant’Agostino, da Margherita Porete a Sebastian Franck a Spinoza, fino ai pensatori dell’ottocento (Hegel, Schopenhauer, Nietzsche) e del novecento (Wittgenstein, Simone Weil, Etty Hillesum, Le Saux).
Le sette lettere indirizzate a Ratzinger costituiscono una summa del pensiero di Vannini, e un invito all’approfondimento di temi e verità trascurate, censurate, diplomaticamente edulcorate dalla teologia contemporanea. Nella prima sono ribadite le tesi più note del filosofo toscano: il suo richiamo appassionato a una riscoperta del ruolo fondamentale dello spirito («la conoscenza dello spirito non è solo conoscenza dell’essenza di noi stessi, ma anche la conoscenza dell’universale, e dunque la conoscenza di Dio»); la necessità di svuotarsi del proprio sé, dell’egoità, dei desideri e delle volizioni; il dovere di vivere l’assoluto nel presente, nell’istante in cui siamo immersi; la fede come distacco dal molteplice e dalle opinioni comuni; una diversa concezione di Dio, «privo di ogni attributo, pura luce, …né padre, né signore, né creatore, né provvidenza, né altro»; il rifiuto di una Chiesa «che ha imboccato la strada di una credenza esteriore, storica, sociale, scartando quella dell’interiorità, del distacco, del vuoto, senza la quale non v’è spirito». Seguendo l’insegnamento dei mistici, dovremmo tornare all’Uno, lasciar morire il nostro illusorio io, cercare in noi stessi la quiete più profonda, semplicemente scegliendo di “essere”, in sintonia con il tutto.
Queste indicazioni di principio vengono riprese anche nelle altre sei lettere, che hanno come argomento l’amore (inteso come tenerezza, intimità, amicizia, rifiuto della passione e del possesso: «Chi lega l’amore a un oggetto è in realtà un servo»), la grazia e la libertà (e qui sono forse le pagine più poeticamente ispirate del volume), la giustizia e la vita eterna (con l’invito a riscoprirsi equi, a tutto comprendere senza mai giudicare, riconsiderando poi i concetti di spazio e tempo secondo le ultime acquisizioni della fisica per meglio intendere il significato di eternità e immortalità).
Ma ci sono due lettere, la terza e la sesta, sulla verità della fede e sulla fine delle menzogne, che Vannini scrive con particolare vis polemica, con appassionato fervore in difesa della verità. In entrambe esorta i cristiani a tornare alle radici del messaggio evangelico, a riscoprire la realtà storica di Gesù al di là di ogni falsificazione. Le celebrazioni di Natale e Pasqua vengono giustamente ricondotte nell’alveo di festività pagane legate a ricorrenze stagionali, altre credenze religiose (come la resurrezione dei corpi dopo la morte) sono bollate come miti consolatori, il persistere di alcuni riti risultano frutto di ataviche superstizioni, le leggende bibliche paiono ricostruzioni menzognere funzionali a scopi politico-sociali. Sono affermazioni forti, addirittura indignate, quelle a cui il rigore intellettuale di Marco Vannini si affida per ribadire la sua condanna di un cristianesimo ormai ridotto a erede del formalismo ebraico, «tutto appiattito sul sociale, tutto rivolto alla costruzione di una sorta di regno di Dio sulla terra, …precipitato nella chiacchiera», nella falsa dogmatica, nell’idolatria del potere, in «templi, immagini, feste, sacrifici e cerimonie» che nulla hanno più a che vedere con il Dio che è da cercare nel profondo di noi, nel dio che noi stessi siamo.
Per cui, «Caro papa Benedetto», è a te che l’autore rivolge il suo plauso: «come a chi, in tempi difficili, ha compiuto il proprio dovere», scegliendo di ritirarsi in silenzio per salvare la fede cristiana.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/All-Ultimo-Papa-Marco-Vannini.html     14 dicembre 2015

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, SULLA GRAZIA – LE LETTERE, FIRENZE 2008

In questo “piccolo libro”, come viene definito dall’autore nella nota conclusiva, sono raccolti sessanta pensieri “debitori a molti autori, antichi e moderni”, dagli Evangelisti, a San Paolo, ai mistici (Eckhart in primis, ma anche san Giovanni della Croce) fino ai filosofi greci e moderni. Marco Vannini propone qui una fenomenologia della grazia, “via che conduce al divino”, “kindly light”, come la chiama John Henry Newman nella delicata poesia che funge da esergo al volume. Cos’è quindi la grazia, questa “mirabile forza che trasforma il finito nell’infinito, il relativo nell’assoluto”? E’ novità (“una vita nuova, un nuovo sguardo, un uomo nuovo, una nuova nascita, una natura nuova…”); è verità, universalità, carità e libertà; è gratuità (“è senza perché…non ha un fine estraneo e diverso dal suo essere stesso grazia, bellezza e dolcezza”); è affidamento e fiducia (“confidenza nel Bene al di sopra di ogni volizione egoistica”); è gratitudine (“è solo un grazie. Nella grazia non v’è preghiera, ma solo un rendere grazie”). Rapporto con l’eterno, amore dell’Assoluto, capacità di ascolto e attenzione a tutte le cose, distacco dal proprio volere sono altri suoi fondamentali attributi; come la letizia, eliminazione di ogni pena: “tutto diventa per così dire festivo, come se ogni giorno, ogni istante fosse una festa”. E in un senso più concettuale, “La grazia libera da ogni opinione, da ogni legame. Essa risolve, dissolve ogni contenuto… libera da ogni ‘religio’ in quanto credenza, preteso sapere che è estremo legame ed estrema affermazione dell’ego”. Vita nel presente, senza rimpianti per il passato o attese del futuro, essa “va, per Dio, oltre Dio”, il dio-idolo che divide e serve al nostro potere, dio della legge e della superstizione, dio dell’istituzione. “Oceano di luce” che oltrepassa i confini di spazio e tempo, e supera ogni individualità particolaristica: in un’eternità in cui, bernanosianamente, “tutto è grazia”.

IBS, 7 marzo 2014

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, MISTICA, PSICOLOGIA, TEOLOGIA – LE LETTERE, FIRENZE 2019

“Non ci sono date oggi che menzogne”, scriveva Simone Weil. Questa sua lapidaria e sconfortata constatazione viene riportata come esergo nell’ultimo libro di Marco Vannini, in cui si contestano due false scienze della contemporaneità, la psicologia e la teologia, assurte a mito e/o verità rivelata nell’immaginario collettivo, nei media e nella pubblicistica culturale totalizzante (o totalitaria?).

Marco Vannini (San Piero a Sieve, 1948) è oggi considerato il più importante studioso italiano di mistica cristiana e di Meister Eckhart, di cui ha curato tutte le opere, latine e tedesche. Si è occupato e ha tradotto molti autori spirituali (Agostino, Giovanni Gerson, François de Fénelon, Margherita Porete, Giovanni Taulero, Anonimo Francofortese, Martin Lutero, Angelus Silesius), indagando la fenomenologia mistica dal punto di vista teoretico e storico anche in altre religioni: induismo, buddismo, ebraismo, islamismo. Del cristianesimo ha messo in rilievo il rapporto con la fede popolare e con la ragione, collaborando a inchieste condotte con autori dichiaratamente atei, come Corrado Augias e Massimo Polidoro. L’ottica originale e innovativa con cui ha guardato all’esperienza mistica ‒ svincolandola da tutte le dottrine e pratiche religiose, e facendone invece un metodo di conoscenza e di libertà spirituale ‒ ha suscitato dibattiti e contestazioni da parte dell’ortodossia cattolica, con cui lo studioso fiorentino non ha mai cessato di confrontarsi e di polemizzare, convinto che per essere fedeli al messaggio evangelico si debba andare oltre lo stesso cristianesimo e i suoi condizionamenti storico-ideologici (cfr. Oltre il cristianesimo, Bompiani 2013): dogmi, encicliche, celebrazioni, istituzioni, riti, miracoli.

In questo nuovo volume Vannini riprende i temi che gli sono propri: il richiamo al ruolo fondamentale dello spirito, la necessità di svuotarsi della propria egoità, la fede come allontanamento dalle opinioni comuni, la concezione di un Dio privo di attributi, pura luce. Rifiutando una Chiesa che privilegia un credo esteriore, sociale, politicizzato, e una fede consolatoria e superstiziosa, ribadisce con forza la convinzione che la verità possa essere raggiunta solo attraverso lo scavo nell’interiorità e il distacco da ciò che è molteplice, vano, perituro. Se la mistica va intesa come ricerca della libertà interiore ed esteriore, al di là di ogni suggestione culturale o morale, due filosofi ne sono stati profetici portavoce: Eraclito e Nietzsche, entrambi consapevoli che non è la minima vicenda umana dell’individuo a dover essere indagata e perseguita, né ciò che nella storia è relativo e contingente, ma che è necessario trascendere materia e tempo, contingenza e finitezza, per risvegliarsi allo spirito.

Proprio lo Spirito (“l’elemento essenziale dell’anima, il più elevato e, insieme, il più profondo”) è il grande trascurato, il grande esiliato dalla cultura moderna. Invece è da esso che si deve ripartire per trasformarsi ontologicamente, per “essere l’essere”, fatto di intelligenza e amore universale. Ciò che ci distrae dall’accogliere in noi l’eterno che siamo e l’eterno che è, sono le sirene dell’egomania, gli abbagli menzogneri del prestigio personale ed economico, l’adesione a modelli imposti mediaticamente. “Due sono oggi le fonti primarie della menzogna in cui siamo immersi: psicologia e teologia. La prima in quanto falsa scienza dell’anima; la seconda in quanto falsa scienza di Dio… Fonti primarie dell’alienazione contemporanea”.

Durissime e derisorie sono le parole con cui Vannini demolisce psicologia e psicanalisi, discipline ingannevoli che illudono le persone di poter potenziare il proprio mutevole io, che in realtà è solo un agglomerato di contenuti mentali ‒ labili e condizionati dall’esterno ‒, con il miraggio di un’affermazione sociale e di un’emancipazione da complessi fisici e caratteriali, e con l’esaltazione del corpo e della sessualità. Nel ridimensionare l’invenzione novecentesca di Freud, l’autore si rifà non solo agli insegnamenti dei mistici, ma anche al pensiero di filosofi classici e moderni (Platone, Plotino, Böhme, Spinoza, La Rochefoucauld, Hegel, Kierkegaard, Wittgenstein, Weil, Guénon), con la certezza che l’ipertrofia dell’ego non porta alcun appagamento, e anzi finisce per ingabbiare nelle pastoie della soggettività e della volontà auto-affermativa. Al contrario, è proprio nell’uscire dall’amor sui, nel distacco dalle passioni e dagli accidenti esteriori, che si può ambire alla pace interiore, alla liberazione da ogni dipendenza ambientale e culturale: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv18,26); “Distàccati da tutto” (Plotino); “Se vuoi udire in te la Parola eterna / Devi prima del tutto sottrarti all’udire” (Pellegrino Cherubico); “La cosa migliore per l’anima è stare in un libero nulla” (Eckhart); “Non ottiene l’uomo perfetta beatitudine, / Se prima l’unità non ha risucchiato l’alterità” (Silesius); “Chiunque entri dicendo ‘io sono il Tal dei tali’, lo percuoterò sul viso” (Rūmī).

Tra i condizionamenti più pericolosi, Marco Vannini segnala quelli suggeriti o addirittura prescritti dalle religioni ufficiali, dalla teologia, dalla psico-teologia contemporanea, che hanno cercato di impadronirsi di Dio per metterlo al servizio di una società, di una morale, di un singolo popolo, degradandolo così a idolo da utilizzare secondo i propri bisogni e fini. L’uso politico della religione, finalizzato al conseguimento e al mantenimento del potere, è evidente sia nell’ebraismo che nell’islamismo, nati entrambi da un’idea di conquista e dalla pretesa di essere gli unici depositari della verità.  Dopo aver creato artificiosamente leggende fondative “per porsi al riparo dalla ragione”,  queste dottrine hanno parlato con presuntuosa arroganza di Dio (che è inconoscibile) o addirittura a nome di Dio.

Anche il cristianesimo, che pure si manifesta in una dimensione più umana, con un Dio Padre che offre la vita del Figlio per la salvezza delle creature, mantiene in sé caratteri di affermatività dell’ego, di appropriazione e attaccamento: nella preghiera di esaudimento, nel desiderio di sopravvivenza ultraterrena, nel concetto di una divinità personale pronta all’ascolto e all’intervento, nella speranza di resurrezione come ripristino della corporeità, nel miracolismo come evento magico.  Se Gesù predicava il distacco dalla carne e dalla psiche e la rinuncia a sé stessi per nascere a una nuova vita, il cristianesimo odierno si è invece ridotto a filantropia, melenso sentimentalismo e generico moralismo, poiché privilegia l’aspetto sociale e temporale del messaggio evangelico, anziché il superamento della particolarità che, come insegna la mistica, libera lo Spirito in un assoluto luminoso e lieve, nell’eternità del tutto.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 14 maggio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, SULLA RELIGIONE VERA. RILEGGERE AGOSTINO – LINDAU, TORINO

 Il filosofo Marco Vannini (San Piero a Sieve, 1948) ha curato la traduzione italiana di tutte le opere, tedesche e latine, di Meister Eckhart, nonché di altri mistici antichi, medievali e moderni, dedicando loro numerosi studi. Autore di un’edizione bilingue del De vera religione di Agostino (2012) e di un Invito al pensiero di sant’Agostino (2014), nella sua ultima pubblicazione edita da Lindau si occupa ancora del Padre della Chiesa di Tagaste, con un volume intitolato Sulla religione vera. Rileggere Agostino, rielaborazione de La religione della ragione, uscito da Bruno Mondadori nel 2007.

Due sono le tesi fondamentali di questo nuovo saggio: che la Verità risieda all’interno dell’animo umano e che la fede cristiana coincida con la filosofia. Esaminiamo quindi questi concetti-base del volume, così come Vannini va analizzandoli nel corso delle pagine. Nell’estesa introduzione, l’autore stigmatizza il relativismo contemporaneo che induce le persone a crearsi delle credenze, sia in ambito religioso che in quello filosofico, sulla base di inclinazioni, valori e bisogni personali, avendo a progetto di vita esclusivamente la ricerca di una aleatoria felicità individuale, come viene suggerito da un diffuso ed effimero psicologismo, che non riconosce altre realtà se non il raggiungimento del benessere fisico e mentale della persona. Da questa rincorsa alla soddisfazione materiale derivano non solo le inquietudini e le fragilità che caratterizzano la società contemporanea (nonostante il proliferare di terapie, addestramenti e dottrine di ogni tipo), ma anche “lo svilimento del cristianesimo verso un banale umanesimo e filantropismo, con la perdita progressiva dell’elemento suo proprio di rinascita nello spirito”.

Parlare nel contesto attuale di “religione vera” e di “filosofia vera”, può richiamare negativamente un’idea di fondamentalismo, di fideismo acritico e intollerante. In realtà religione e filosofia sono attività rivolte allo stesso fine, cioè alla saggezza e conoscenza di sé, che esige una radicale conversione per la ricerca del Bene, da perseguire attraverso il rientro in sé stessi, nel distacco da ciò che è accidentale e molteplice, da ogni elemento legato al tempo e allo spazio, dalla dittatura del corpo e dalle esigenze esteriori imposte dalle mode sociali. Il raggiungimento della verità non dipende dall’obbedienza ai testi sacri e alle autorità ecclesiali, da liturgie e cerimonie formali, ma si ottiene con la rimozione dell’inessenziale, per recuperare la luce interiore, quella dello spirito, dell’Uno e dell’Eterno, seguendo la via che l’insegnamento neoplatonico, attraverso Agostino, ha introdotto nel mondo cristiano.

Il primo capitolo del volume, dedicato alla filosofia antica, presenta un denso excursus sul pensiero classico. Tutti i filosofi greci, dai Presocratici fino ai Neoplatonici, si proposero di indicare, più che un sistema teorico, un modello e un indirizzo di vita in grado di condurre alla saggezza, alla serenità, alla contemplazione dell’Eterno, impegnando l’intera esistenza in vista di una sua trasformazione. A partire dalle dottrine di purificazione di Pitagora, attraverso il severo richiamo socratico alla giustizia posta al di sopra di ogni contingenza storico-politica, si arriva a Platone che insegnava come filosofare fosse “esercitarsi a morire”, lontano da tutti i legami materiali e concettuali, per ascendere gradatamente dalla bellezza sensibile a quella intelligibile, fino alla contemplazione della luce immutabile che è il Bene in sé. Anche tutte le scuole post-aristoteliche ellenistiche e romane (epicurea, stoica, cinica, scettica, neoplatonica) declinarono in modi diversi la stessa esperienza: attraverso la pratica di esercizi spirituali e l’uso della temperanza e della continenza, si procede da una visione delle cose dominata dalle passioni individuali a una rappresentazione del mondo governata dall’universalità e dall’oggettività del pensiero. Plotino ammoniva “distàccati da tutto” (Áphele pánta) per approfondire la conoscenza interiore, che conduce alla comunione con tutti gli uomini e le cose, e attraverso l’ékstasis, all’Uno, fine ultimo, luce e perfezione.

Il secondo capitolo del volume esplora il concetto di religione nel suo duplice aspetto di mitologia e di mistica, da quando essa si confondeva con la magia e la superstizione, e veniva praticata per ricavarne benefici individuali o collettivi, fino a quando il cristianesimo dei primi secoli entrò in contatto con il mondo greco, assorbendone il concetto di filosofia intesa come meditazione, insegnamento e guida per l’esistenza. Di questo traghettamento dalla credulità popolare a un concetto più spirituale del divino fu artefice soprattutto Agostino (Tagaste, 354-Ippona, 430), negli anni giovanili profondamente influenzato dal pensiero scettico e neoplatonico che esortava a cercare nella propria interiorità la luce eterna di Dio. Nel testo De vera religione (389-391) scriveva infatti: “non uscire fuori di te, rientra in te stesso, la verità abita nel profondo dell’uomo”, ricalcando una terminologia decisamente plotiniana. In età più matura e rivestendo l’incarico di vescovo, Agostino privilegiò un’interpretazione della Bibbia e delle lettere di Paolo più fedelmente vicina alle proposizioni teologiche del cattolicesimo a lui contemporaneo, ergendosi ad accanito difensore della Scrittura. Non considerò più la religione subalterna alla filosofia, ma essa stessa Logos, essa stessa unica e vera filosofia. L’esperienza neoplatonica dell’identità spirituale uomo-Dio-cosmo, animata dal desiderio di unione mistica con il divino, venne così abbandonata in favore della visione biblica dell’alterità di Dio, secondo un’interpretazione puramente scientifico-teologica della Parola che ridusse il cristianesimo a dogmatismo, formalità rituali e pura esegesi dei testi sacri.

La critica di Marco Vannini alla pretesa storicità della Bibbia è implacabile, poiché ritiene i fatti in essa raccontati (a partire dalla Creazione) suggestive creazioni letterarie, la cui attendibilità è inficiata da incongruenze e contraddizioni, evidenziate in rigorosi studi epistemologici degli ultimi due secoli. L’Antico e il Nuovo Testamento sono il risultato di rielaborazioni create a partire dal VII secolo a.C. e protrattesi fino al II d.C, per imporre politicamene l’unicità di un dio, di un culto, e di un unico centro religioso, attraverso regole comportamentali, leggi sociali e fantasie apocalittiche che hanno finito per nutrire intolleranza e fanatismo, mettendo in secondo piano l’idea di spiritualità, di unione con il divino, di immortalità dell’anima. Le tesi coraggiose dell’autore, che molti esegeti ortodossi non esiterebbero a definire eretiche (un plauso alle edizioni di ispirazione cattolica Lindau che hanno pubblicato il volume), sottolineano come l’allontanamento dal pensiero filosofico greco abbia relegato il cristianesimo in una concezione materialistica e utilitaristica, immiserente anziché liberante.

Sarà il misticismo speculativo medievale a recuperare la preziosa eredità del pensiero classico, e appunto al misticismo Vannini dedica l’appassionata ultima parte del libro. Massimo esperto italiano degli scritti di Meister Eckhart, qui lo studioso toscano inizia invece la sua esposizione presentando la figura del castigliano San Giovanni della Croce (1542-1592), anch’egli profondamente debitore del neoplatonismo: solo dopo aver sperimentato la “notte oscura” del nulla, del vuoto, l’anima può risalire alla luce, connaturandosi a Dio che non è più oggetto di conoscenza, alterità alienante, idolo antropomorfico, ma puro spirito, unica identità con l’anima umana che si divinizza, diventando Dio e partecipando della sua luce. Tale percorso di salvezza per il carmelitano spagnolo può attuarsi solo con la rinuncia e il distacco da tutto, esattamente come insegnava Plotino: “la sostanza dell’anima, unita a Dio, assorbita in lui, è Dio per partecipazione di Dio”.

Nella storia del cristianesimo i mistici, accusati di sopprimere la distinzione tra uomo e Dio, furono emarginati, poco compresi e guardati con sospetto: eppure eliminando l’opposizione tra soprannaturale e naturale, tra divino e umano, hanno insegnato una verità riconosciuta anche dalle religioni orientali e dalla filosofia, cioè l’identità del Tutto, e dunque del divino nel cosmo e in tutti gli esseri, che tutti esistono in Dio. Lontana dal panteismo che appiattisce la trascendenza divina sulla natura, la religione vera supera l’alterità di Dio e il dualismo soggetto-oggetto, unificando tutte le creature in un solo essere, spiritualmente eterno, scevro dai vincoli della materia e della carne nell’unità relazionale con il Tutto. Libera dalla volontà, libera dall’attaccamento, e dunque libera dall’opinione, la luce dell’intelligenza illumina il Tutto. La mistica ha mantenuto viva questa verità, con l’esperienza di un modello di vita filosofico, del distacco, della grazia, della libertà, opposto alla vita nella servitù, nella forza, nella volontà e nel desiderio. Non occorrono perciò rivelazioni o visioni particolari, dogmi o encicliche, perché è il quotidiano, il qui e l’ora, con le cose presenti di fronte a noi, a costituire il divino così come si mostra al nostro sguardo e al nostro amore.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 20 novembre 2023

 

RECENSIONI

VANNINI-COSI-REPOSSI

VANNINI-COSI-REPOSSI, NON C’È PIÙ RELIGIONE?  – LINDAU, TORINO 2025

Francesca Cosi e Alessandra Repossi (autrici, traduttrici e firme giornalistiche di numerose testate religiose) in un’approfondita e stimolante intervista hanno proposto al filosofo Marco Vannini una serie di riflessioni sul rapporto esistente oggi in Italia tra fede, pratica religiosa, desiderio di spiritualità e dottrina cattolica. Da questo vivace dialogo a tre, condotto in maniera informale e senza pedanteria, è conseguita la pubblicazione di un volume edito da Lindau con il provocatorio titolo Non c’è più religione? Nell’introduzione le due autrici si soffermano su alcune considerazioni riguardanti la diffusione e l’adesione attuale al cattolicesimo della popolazione italiana, che negli ultimi cinquant’anni ha conosciuto una radicale trasformazione sociale, economica e culturale, con una crescente urbanizzazione e il conseguente spopolamento delle campagne, con una massiccia immigrazione straniera religiosamente eterogenea, con la nuclearizzazione delle famiglie e il calo delle nascite, con l’avvento di una legislazione, di ideologie e costumi liberalizzanti e più laici rispetto al passato. Ciò ha prodotto una disaffezione di larghi strati della popolazione dalle consuetudini religiose radicate per secoli nella tradizione, con meno del 20% degli italiani che frequenta la messa settimanalmente, un aumento dei divorzi e delle unioni civili, nuove aperture a culti alternativi.

Marco Vannini, massimo studioso europeo di Meister Eckhart e di mistica medievale, non si è sottratto alle domande incalzanti delle due giornaliste, aprendosi anche a riferimenti autobiografici e offrendo risposte in grado di sfidare i luoghi comuni e le censure che generalmente la cultura cattolica oppone a chi indaga sulla crisi che la attraversa. Partendo dalla basilare differenza che oppone la fede alla credenza (quest’ultima frutto di miti e leggende prive di fondamento razionale, costruite al servizio degli interessi delle chiese, ed accettate acriticamente per abitudine, per timorosa obbedienza, per ignoranza), Vannini richiama al dovere che abbiamo di aspirare all’assoluto, liberandoci da ogni condizionamento e relativismo accidentale, e attuando un distacco sia dalle superficialità mondane, sia dalle rappresentazioni fallaci del divino. Il richiamo del filosofo a una lettura razionale, priva di suggestioni e ingenuità di molti episodi della Bibbia e dei Vangeli, così come di molti dogmi, è severo e puntuale nell’analisi dei racconti e dei protagonisti delle Scritture (dalle figure dei profeti e dei patriarchi alla verginità di Maria, dalla resurrezione di Lazzaro ad altri miracoli…) e della datazione, dell’autenticità e coerenza letteraria dei testi, di cui vengono sottolineati discrepanze, anacronismi e falsificazioni. L’errore fondamentale compiuto dal cattolicesimo e dal protestantesimo è stato quello di selezionare e divinizzare le Scritture, che sono entrate in crisi filosoficamente con l’avvento dell’illuminismo, e la conseguente consapevolezza della loro inattendibilità storica. Allontanandosi giustamente dalle credenze ingannevoli, la società contemporanea ha purtroppo rinunciato anche a pensare l’assoluto, con gli effetti “tragici” cui assistiamo, di sbandamento morale, di crollo di valori, di malessere esistenziale che ha portato masse di persone a cercare soluzioni al male di vivere nelle droghe, negli psicofarmaci, nell’esasperazione di esperienze inebrianti, nell’esaltazione del sesso, della forma fisica, dell’eleganza, e soprattutto nella sopravvalutazione e frequentazione assidua di metodologie e terapie psicologiche e psicanalitiche. In questo senso anche l’affidamento sempre più diffuso a culti esoterici e new age per trovare nuove strade di esplorazione del sé e di cura del disagio interiore va stigmatizzato come privo di reale fondamento, mentre continuano a meritare stima e rispetto religioni millenarie come il buddhismo e l’induismo, lontane dai sistemi coercitivi e punitivi del cristianesimo: in esse Vannini trova un’encomiabile profondità spirituale e un aiuto a superare la sofferenza, nonostante il persistente pericolo di confondere la meditazione con pratiche contemplative guidate, non realmente liberanti.

Il cammino dell’intelligenza verso Dio si può condurre anche al di fuori delle religioni storiche, come insegnano i mistici, in direzione di un’illuminazione interiore da raggiungere attraverso il silenzio, l’ascolto, il distacco dal possesso e dal dominio, l’amore per la bellezza, la ricerca della beatitudine. Anche lo studio della filosofia può sviluppare tali dimensioni, come l’educazione alla magnanimità dell’anima, o il rimanere nella tradizione religiosa in cui si è stati educati senza cadere tuttavia in ciechi fondamentalismi o in un devozionismo acritico. Quello che Marco Vannini continua ad apprezzare del cristianesimo sono le due verità fondamentali dell’unità e trinità di Dio e dell’umanità e divinità di Cristo. Quest’ultimo concetto, snobbato dalla teologia contemporanea, ci insegna in realtà come qualsiasi creatura umana, pur essendo corpo corruttibile, è partecipe dell’essenza divina, lumen de lumine, esattamente come Cristo. Secondo Meister Eckhart “C’è una luce nell’anima, dove mai è penetrato il tempo e lo spazio… Ed è in questa luce che l’uomo deve permanere”.

Rifuggendo dai miti proposti dalla società attuale (il successo, il denaro, la fama), ed evitando anche di chiudersi in comunità ristrette ed esclusive, troviamo nella meditazione solitaria – non elitaria ma universalizzante – la via che apre a questa luce, donata a noi gratuitamente nella dimensione della grazia diffusa ovunque e per tutti, alla quale dobbiamo fare spazio nell’interiorità di cui parla Agostino nelle Confessioni. L’invito che il filosofo fiorentino ci esorta ad accogliere è quindi di ritrovare noi stessi e Dio, “facendo tesoro dell’esperienza di verità della filosofa antica e della tradizione spirituale cristiana”, senza lasciarci distrarre dall’inessenzialità e superficialità di proposte culturali fuorvianti. Invito che l’indovinata immagine di copertina del volume ribadisce, presentando la chiesa in rovina dell’Abbazia di Beauport a Paimpol, in Francia, dai muri diroccati invasi da muschio ed erbacce, e dalle ogive traforate attraverso cui si intravede l’azzurro del cielo, immagine di un Assoluto a cui molti cristiani non sembrano più aspirare.

 

«Gli Stati Generali», 26 luglio 2025

 

 

RECENSIONI

VANNUCCI

GIOVANNI VANNUCCI, IL LIBRO DELLA PREGHIERA UNIVERSALE – LIBRERIA EDITRICE FIORENTINA, FIRENZE 1991

Giovanni Vannucci (Pistoia,19131984), presbitero e teologo italiano dell’Ordine dei Servi di Maria, professore di esegesi, ebraico e greco biblico, collaborò in diverse esperienze comunitarie con don Zeno Saltini (fondatore di Nomadelfia) e con David Maria Turoldo. Nel 1967 diede vita a una nuova comunità – dedita al lavoro, all’accoglienza e alla preghiera – all’Eremo di San Pietro a Le Stinche, nel Chianti. Autore di numerosi testi di meditazione e di ricerca spirituale, dal 1970 la sua attenzione si focalizzò sul momento della preghiera, intesa come rapporto vivido e pacificante con il mistero divino.

Il libro della preghiera universale, pubblicato nel 1970 e più volte ristampato, era nato nelle intenzioni dell’autore “dall’esigenza di conoscere, pregando, il cuore delle tradizioni religiose cristiane e non cristiane”. Vannucci si diceva convinto che la preghiera addolcisse i cuori, fecondandoli di nuove speranze e visioni, arricchendoli e dilatandoli in uno sguardo partecipe e generoso su ogni verità e realtà della vita. Il corposo volume è suddiviso secondo i giorni della settimana, ciascuno dedicato a una fede particolare: il lunedì ai credenti Indù, il martedì ai Musulmani, il mercoledì ai cercatori del pensiero Magico e Occulto, il giovedì ai Buddhisti e ai Taoisti, il venerdì alle varie Chiese Cristiane, il sabato agli Ebrei e infine la domenica al Cattolicesimo. Ma a un cattolicesimo ecumenico, comprensivo e rispettoso di ogni voce che si alzi nella ricerca della spiritualità.

A me non credente sembra bello poter offrire a chi legge una preghiera per ciascuna di queste fedi, proprio con l’umiltà e la considerazione che ha guidato Padre Vannucci a raccoglierle, senza esibire alcun senso di superiorità nei riguardi di nessuna di esse, ma consapevole della loro legittimità e rettitudine.

Indù: “Tu sei la via, l’irraggiungibile mèta, l’unico Signore. In te le leggi muoiono come fiumi nel mare”.

Musulmani: “Dio ha creato il genere umano in un solo uomo, e la resurrezione universale. Gli sarà ugualmente facile. Egli ascolta e osserva tutto”.

Occultisti: “Estrai dalle difficoltà un lievito di perfezione, trasformalo in forze vive”.

Buddhisti: “Abolendo le passioni, espandendomi nel vero pensiero, voglio avanzare silenziosamente nella pura saggezza, raggiungere il Risveglio perfetto”

Protestanti e Ortodossi: “Fa’ che io senta fin dal mattino la tua amabile bontà, mostrami la via per innalzare l’anima verso di te”.

Ebrei: “Perché ogni notte tu scendi verso di me, e al levar della stella del mattino mi abbandoni solo?”

Cattolici: “Sii lodato per tutto quello che vive nella terra e nel cielo”.

Se l’autore non avesse posto rigide distinzioni tra i vari capitoli, citando le fonti e gli autori delle preghiere, avremmo difficoltà a distinguere una religione dall’altra, in quanto ciascuna invocazione esprime, in qualsiasi epoca e latitudine, e con parole simili: lode, gratitudine, speranza, rimorso, timore, gioia, fedeltà, mansuetudine, clemenza, fiducia, desiderio. Un breviario universale, questo proposto da padre Giovanni Vannucci, a cui attingere quotidiana sapienza e dolcezza: il fatto che me l’abbia regalato il parroco del paesino in cui vivo, depone in favore del necessario abbattimento di ogni steccato ideologico, di ogni intollerante pregiudizio.

 

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https://www.sololibri.net/Il-libro-della-preghiera-universale-Vannucci.html             26 ottobre 2018

 

 

 

RECENSIONI

VARGAS LLOSA

MARIO VARGAS LLOSA, LA CITTA’ E I CANI – EINAUDI, TORINO 2016

Mario Vargas Llosa (autore peruviano nato nel 1936, e Premio Nobel nel 2010) scrisse questo che forse rimane il suo romanzo più famoso La città e i cani nel 1963. Il volume conobbe varie vicissitudini: in patria venne censurato e bruciato in piazza dai militari, all’estero fu tradotto piuttosto tardi, e in Italia solo nel ’98. Oggi Einaudi (2016) lo ripresenta nella traduzione di Enrico Cicogna.
Si tratta di un libro che parla della violenza insita nel cuore umano e nell’ambiente sociale, nell’apparato educativo scolastico e nei rapporti familiari, nella sessualità e nelle schermaglie amorose tra uomini e donne. «A questo mondo la violenza è una sorta di fatalità», chiosa l’autore in una sua dichiarazione: soprattutto in paesi economicamente sottosviluppati e politicamente illiberali quali era il Perù all’epoca dei fatti narrati.
La vicenda ruota intorno al collegio militare Leoncio Prado di Lima, e ai giovani cadetti che lo frequentano per un triennio, costretti a una disciplina durissima e ottusa, a esercitazioni massacranti, vessati da sopraffazioni continue da parte di commilitoni, sorveglianti e superiori.
E’ un romanzo corale, che usa sapientemente diverse prospettive di narrazione, alternando capitoli in prima e in terza persona, dialoghi, monologhi, brani di diario, descrizioni paesaggistiche e confessioni meditative.
Protagonisti sono gli adolescenti di una stessa camerata, che devono superare sia i rituali di iniziazione imposti loro dagli allievi più grandi (scherzi osceni, umiliazioni, pestaggi, furti), sia le corvée delle marce e delle manovre, delle punizioni fisiche, delle consegne in isolamento: «Qui sei militare anche se non vuoi. E quello che importa nell’Eesercito è essere un duro, avere un paio di coglioni d’acciaio, capisci? O fotti o ti fottono, non c’è rimedio. E a me non piace lasciarmi fottere».

In questo clima di rigore disumano che ricorda le atmosfere del film Ufficiale e gentiluomo, i ragazzi tentano una loro resistenza individuale e collettiva, fatta a sua volta di violenze contro i più deboli, di fughe dal collegio, di ruberie e di esibizioni sessuali al limite della depravazione. Tra di loro si chiamano con soprannomi allusivi: Boa, Giaguaro, Chiavica, Schiavo… C’è anche un Alberto, definito “il poeta” perché in grado di scrivere lettere d’amore e storielle pornografiche da vendere ai compagni. In quest’ultimo Vargas Llosa cela il suo alter-ego giovanile: «Ero un bambino viziatissimo, presuntuosissimo, cresciuto, faccio per dire, come una bambina… Mio padre pensava che il Leoncio Prado avrebbe fatto di me un uomo, ma per me fu come scoprire l’inferno». Vittime di tale inferno sono soprattutto Alberto, il Giaguaro e lo Schiavo, in uno scontro di sensibilità, codardia, forza bruta che si conclude in tragedia. Vittima è anche l’unico educatore intelligente e responsabile, il tenente Gamboa, che paga con un trasferimento punitivo la sua coraggiosa rettitudine «Non sono diventato militare per avere la vita facile». Nemmeno l’esistenza fuori dal collegio risulta aliena da difficoltà e cattiverie per i cadetti, sia nei rapporti con i vecchi amici rimasti a vivere di espedienti nei quartieri più poveri, sia nelle famiglie sfasciate che non li accolgono volentieri durante le licenze, sia nei tentativi abortiti di esperienze amorose o nel sesso vissuto squallidamente.
Sarà solo Alberto, alias Varga Llosa, a salvarsi, fuggendo da Lima e dal Perù, per tentare un riscatto in una nuova vita di cui essere l’unico padrone.

 

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www.sololibri.net/La-citta-e-i-cani-Mario-Vargas.html             4 febbraio 2016

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